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Autore: Dernier Orage    30/09/2012    4 recensioni
Genova. Claudia ed Angie. Forse una storia d'amore.
Angie aveva appeso delle tendine di pizzo in ogni finestra, aveva tolto i miei poster ed incorniciato le nostre fotografie. Artyom mi aveva inserita in un disegno dal titolo “la mia famiglia”, aveva scritto il mio nome sbagliato, la maestra aveva scarabocchiato “zia” ed ero vicino alla sua mamma.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Genova'
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Engelsina

Piccola Engelsina che si faceva chiamare Angie, rabbrividiva e si stringeva nello scialle rosso dai fiori blu. Aveva un negozio di prodotti dell’est in un vicolo del centro storico, troppo caro per le mie tasche; un tono troppo alto di voce e i capelli troppo biondi.
L’avevo invitata fuori per un caffè e l’avevo osservata sporcarsi le labbra con la panna, era bella a modo suo, sottile, abbronzata, capelli biondi e naso aquilino.
Non saprei.
In ogni caso, mi aveva nascosto di avere un figlio.
Lo scoprii osservando i caratteri incisi sulla sua schiena, scuri per l’inchiostro colato.

АРТЁМ

«Angie, cosa c’è scritto? Aptem?»
«Artyom, ma tu puoi chiamare lui Arty o Artimis»
«Angie, cosa dici? Perché io posso chiamarlo così? Chi è?»
«Artyom è mio bambino»

Artyom somigliava alla bella madre, soggetto di fascino sovietico, alto per i suoi sei anni, impettito, abbronzato e biondo come uno sportivo. Non chiedeva, ordinava. Pensavo avesse parecchi problemi con la lingua italiana, poi Angie mi disse che era arrivato cinque mesi prima. Piccolo Artyom mi si avvinghiava al braccio quando lo portavo al cinema, lanciava i popcorn gommosi nei capelli della madre, a volte mi chiamava “zia”. Viveva con la nonna a Voltri, ad un estremo della mia Genova allungata come un elastico, tesa da est ad ovest, schiacciata dalle montagne.

«Angie, quanti anni hai?»
«Venticinque, ventisei»
«In che giorno sei nata?»
«Venticinque, ventisei dicembre»
«Allora sei il mio regalo»

Non pagavo l’affitto da tre mesi, forse la vecchia che veniva a riscuoterlo era morta ed io sbagliavo ad essere in ansia. Forse era stata investita. Le auguravo incidenti stradali.
Angie aveva appeso delle tendine di pizzo in ogni finestra, aveva tolto i miei poster ed incorniciato le nostre fotografie. Artyom mi aveva inserita in un disegno dal titolo “la mia famiglia”, aveva scritto il mio nome sbagliato, la maestra aveva scarabocchiato “zia” ed ero vicino alla sua mamma.

Non sono mai riuscita a permettermi una di quelle matrioske che Angie vendeva. Neanche la vodka o il caviale Oscietra. Però le consigliai di mettere delle telecamere o l’antitaccheggio. Angie disse che l’avrebbe suggerito al padrone.
Cucivo tracolle, borselli, tascapane, marsupi. Modellavo fil di ferro, fil di rame, tubi in gomma, lampadari di bicchieri. Corpetti sagomati con materiali di recupero. Gonne da tzigana. Non avevo i soldi per pagare l’affitto.

«Angie, forse un po’ ti amo…»
«Un pochino di più io»
«Ma qui si fa la fame»
«Fumi troppo, Claudia»
«Ho freddo, devo pur scaldarmi»

Il bicchiere era di cartoncino leggero. Una banda poco più spessa aiutava a non ustionarsi. Il caffè era bollente, diluito nel whiskey, adornato da un ricciolo di panna. Un regalo meraviglioso dopo l’intero pomeriggio in uno stand in piazza Banchi. Artyom proponeva la Spagna, passione di russi e ucraini.
Mi ricordai un film.
“El Sur” di Víctor Erice. La neve nel nord.
Ma perché, uno mica può dire di voler andare in Spagna. Deve specificare.
Nord o sud? Freddo o caldo? Magari ad Alicante: potremmo fingere di essere una famiglia, potremmo diventarlo davvero.
Qui. Genova, diciassette dicembre, nevischiava. Artyom si nascondeva dietro Angie e a grandi mani le afferrava la gonna in velluto.

Avevo accennato la testa calva di un Fukurokuju sul tovagliolo. Colazione al bar, cappuccino e brioche; vecchi che si ostinano a pucciare striscioline di focaccia nell’espresso. Non era venuto male, amavo i suoi lunghi baffi. Avrei potuto dipingere cartoline simil-nipponiche e venderle accanto ai braccialetti intrecciati, i collari, i portachiavi, i fazzoletti ricamati.
Angie lasciva scosse i capelli, guardò l’orologio e si affrettò a bere il caffè. Doveva aprire la saracinesca.

«Una latta di zuppa è quello che ci rimane»
«Lunedì prendo lo stipendio»
«Porta Artyom da tua madre»
«Anche per le vacanze?»
«Chiedi a tua madre di farci la spesa»

Natale. Il mio regalo si incartò in uno scialle nero con le frange blu, gialle, rosse e verdi. Era bellissima ma la pregai di rivestirsi perché si congelava. Fare l’amore da vestite fu una delle cose che mi rimase dentro. Un ricordo della nostra bohème.
L’elettricità costava. Le candele costavano ed eravamo costrette a fondere i rimasugli di cera ed aggiungere stoppini strappati dalle frange dei vestiti. Intascavo sempre le scatolette di fiammiferi dei bar.

«Blu?»
«Cosa, piccola Angie?»
«La mozzarella è blu?»
«Tu leggi troppi giornali. Discount mia salvezza»
«Claudia, non cucini affatto male»
«Davvero?»
«Le frittelle scottano ma la mozzarella blu non si scioglie»

Non pagammo la tessera dell’Arci. Il caffè costava meno e trovavamo sempre chi ci offriva della birra. La sera approfittavamo del calore causato dalla folla ai concerti confusi. Federico Fiumani mi piacque pure ma temevo di sporcare i vestiti. Rimasi su una panca di legno con la testa reclinata a vedere la folle corsa per Parigi del mio omonimo Lelouch.
C’était un rendez-vous.
Piccola, bionda Angie quella donna ti somiglia.
Angie venticinque, ventisei anni si stringeva in una camicetta di raso blu a pois bianchi, accavallava le gambe, mi baciava la tempia, mi stringeva il ventre sotto i palmi delle mani, lo riempiva col respiro.

«Claudia, non hai una famiglia?»
«Angie, non hai una famiglia?»
«Qualcuno da cui hai ereditato il mento aguzzo, gli occhi spiritati…»
«Pensavo ti piacessero»
«Sì che mi piaci»
«Davvero?»
«Artyom dice che Fukurokuju è suo nonno»

Pensavo che Angie prima o poi se ne andasse. Magari le sarebbero spuntate delle ali di morbidissime piume o sfavillanti della porporina magica con cui volano le farfalle. Ma aveva il naso aquilino. Una fata non può avere il naso aquilino, i capelli biondi e la pelle abbronzata.
Le sfiorai le vertebre.
Era aprile, iniziava a fare caldo. Le lenzuola avviluppate tra le gambe la rendevano come una creatura divina. Le persiane accostate tracciavano delle ombre sulla schiena, sul morbido seno schiacciato contro materasso.
Era bella, forse no. Non saprei. Forse un po’ l’amavo.

*

In ogni caso è rimasta.
Distesa al sole coccola Artyom.
Ho allontanato le pietre che infestano le spiagge genovesi.
Mormora, sussurra, borbotta.
Mi tiene il broncio.
Vuole un altro bacio.












   
 
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