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Autore: PiccolaEl    30/09/2012    1 recensioni
"Sono ritardataria, bugiarda, acida. Poi sono gentile, cordiale, e cedo l’ultima fetta di torta. Poi sono fredda, di una freddezza quasi utopica, irreale. Arrabbiata. E l’unica cosa che mi viene in mente è uscire di casa e stare fuori per delle ore. A fumare. E ad ascoltare canzoni a macchinetta dal mio mp3. E piangere, sullo scalino di una vetrina ben nascosta dal centro della città. Ben nascosta da tutti. Ben nascosta anche da me stessa, perché alla fine fuggo solo e soltanto da me. Degli altri non ho paura. Neanche di quelli che dalla faccia sembrano dei terroristi immigrati. Ho paura di me stessa. Del mio giudizio, unico e personale. Delle boccate d’aria fresca, ho paura, perché sono realtà [..] Non sono la ragazza del libro, o del film, o delle serie tv. Sono una ragazza normale, con problemi assurdi, e che non si fa problemi per niente. O per tutto. Spalanco gli occhi quando qualcosa mi attrae, le gambe mi cedono quando sono innamorata e i miei capelli come li metti stanno."
Questa è la piccola Bambi, che, catapultata in una nuova esperienza, troverà il coraggio di amare con tutto il suo corpo e la sua mente.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo tre - Merende.



“Ciao, sto andando a scuola!” non aspetto neanche risposta. Ottavo giorno di scuola. Ottavo cazzo di cazzo di giorno di cazzo di scuola. Voglio morire. Metto in moto la Rs che con il solito rombo parte schizzando. Scalo, destra, sinistra, prima, seconda, scalo ancora, freno, sinistra, proseguo, sinistra. Decelero nei pressi di scuola fino a staccare del tutto il motore appena mi fermo. Metto il cavalletto e scendo. Tolgo il casco, inizio a sentirmi oppressa. Tre paia, quattro paia, dieci paia d’occhi addosso. Che palle. Afferro lo zaino e sfilo le chiavi dal quadro. Mi piacerebbe ascoltare il rumore del mare adesso, come quando sono stanca a Siracusa e fuggo alla spiaggia, dove il vento accarezza i capelli, il mare ti scuote anima e corpo e tu stai li, immobile, con gli occhi fissi su di esso, incapace di fare niente… Ma qua non siamo a Siracusa. Voglio piangere. Voglio tornare… no. Non voglio. Spalanco gli occhi come meravigliata dei miei stessi pensieri. No, non voglio tornare. E basta. Da dietro le mie lenti scure scorgo il solito gruppo di Umberto. Ma a prima ora c’è la Poli. Non si può fare. Scavalco la gran massa di gente ed entro di volata. Rampa di scale, fiatone, pausa, altra rampa discale. Avanzo ancora, terza porta a partire dal lato opposto al mio. Entro, ancora la campana non è suonata. Ci siamo io e due facce da bravi ragazzi. Colgo l’occasione per presentarmi. Francesco e Luca. Sembrano simpatici. Vado al mio posto e butto la tracolla per terra, mi levo il giubbotto, mi siedo ed esco i libri di lezione. Tiro il cellulare dalla tasca e lo schermo magicamente si illumina di una chiamata, mittente: Umberto. Rispondo, aprendo il libro ad una pagina qualsiasi.
“Pronto? Dove cavolo correvi?” strepita, e ridacchio a bassa voce.
“Dovevo correre in classe, scusa.” mi giustifico, facendo un rapido cambio di occhiali, da sole a vista.
“Ah, okay. Riguardo il discorso di ieri…” ma che diavolo sta tentando di fare? Mi irrigidisco di colpo. A quest’ora se non volevo raccontare niente mi chiudevo in casa a doppia mandata.
“Senti, ho fatto solo delle precisazioni una settimana fa, cazzi miei.” concludo serafica, sentendomi a disagio.
“No, no, non hai capito! Volevo solo dirti che magari qualche volta possiamo andare a nasconderci insieme, lontano da tutti… ti va?” propone. Direi che si, è gay. Direi anche che potrei accettare.
“No, grazie.” appunto. Mi passo una mano tra i capelli e sento che non posso. Non posso aprirmi cosi tanto.
“Scusa, sta arrivando Giulia.” e senza aspettare risposta chiudo la telefonata. Giulia, che appunto è arrivata, si accomoda accanto a me e mi guarda in tralice.
“Come mai già qua?” chiede.
“Mi piace sentirmi libera di scegliere fino all’ultimo se restare oppure no.” confesso. Sorride.
“Se ti dava fastidio la mia presenza, Bette, potevi anche uscire, non mi faccio problemi di questo tipo.” dice, e lo dice come se fosse calma, come se non gliene importasse niente, come se sia giusto che io me ne vada fuori se la sua presenza è inopportuna. No, e no. Scuoto la testa.
“No, non è per te. E’ perché mi scoccio dare qualcosa di mio e soltanto mio agl’altri. Io do tutto, anche il culo se è il caso. Ma non l’unica cosa mia.” rispondo, e le parole mi bruciano sulla lingua e mi bruciano forte, perché sono vere e perché dovrebbe essere un fattore universale, una legge universale, una costante invariabile farsi i cazzi propri. Sospiro.
“Non so di cosa stai parlando, ma io so ascoltare.” scandisce bene le parole, le scandisce come se volesse farmele masticare piano, come se fossi una bimba che ancora non sa mangiare da sola ma, appunto, soltanto imboccata.
“Umberto.” dico soltanto e annuisce seria.
“Quindi ricapitolando: ce n’è uno al giorno? No, va be’ okay, capito.” mi schernisce e non sono più cosi tanto rigida.
“Ti andrebbe un gelato dopo scuola? O anche adesso” propongo, sovrappensiero. Sembra rifletterci. Giulia, Giulia, Giulia. Giulio Cesare era della famiglia Giulia. Dirà di no. Insomma, nessuno coglierebbe l’occasione di saltare scuola per andare a mangiare un gelato. Nessuno tranne me, ovviamente, la schizzata della situazione. Dovrebbero anche prendermi a schiaffi per queste proposte che mi accorgo troppo tardi essere invadenti fino all’invero simile.
“Si, mi piace come idea.” risponde poi, cosi, di colpo, a tappo. Si alza di scatto, ha ancora il giubbotto addosso e la tracolla, in piedi. Mancano sette minuti e mezzo al suo della campana. Lei guarda me e io guardo lei.
“Allora?” incalza, veloce. Sette.
“Allora?” prendo tempo. Ha accettato e faccio finta di niente.
“Questo gelato?” chiede. E in uno scatto mi alzo, rimetto i libri nello zaino, mi re infilo il giubbotto, cambio di nuovo gli occhiali e in due falcate raggiungo la porta della classe. Lei è ancora li, allibita al banco. Sei e mezzo.
“Allora?” incalzo stavolta io, e non si fa attendere ancora. Ripercorriamo velocemente la strada all’indietro, usciamo, ripercorriamo il cortile e sotto lo sguardo attento di tutti esco le chiavi della Rs e due caschi uguali, uno rosso e uno verde. Le passo quello rosso.
“Reggiti, vado veloce.” mi raccomando, e sorrido. Salgo in moto, accendo, tengo i freni ben premuti. Sale anche lei.
“Dove vuoi andare?” le chiedo, prima di partire.
“Al mare.” e non me lo faccio ripetere due volte. Non so come, ma mare sarà.
“Devi imboccare l’autostrada e poi andare direzione a 14 – Ravenna.” mi spiega e parto. Non so quanto ci mettiamo. Non so quando e non so nemmeno perché, stamattina avevo voglia di mare e adesso Giulia mi chiede di andarci. E’ magnetismo, calamitiamo o quello che cazzo è. Oppure semplice caso. Non credo al caso. E neanche al destino. La strada scorre veloce e la mia RS con lei. E noi con loro. Mi sento cosi fuori posto ovunque. Sono un caso patologico. Prendo l’uscita e con rapide indicazioni di Giulia arriviamo. E’ un lungo rettilineo, qua, da un lato città dall’altro il mare. Mare freddo, glaciale, scuro. Mare. Come Oceano Mare di Baricco. Solo che lo sto vivendo. Lo stiamo vivendo. Parcheggio in un posto qualsiasi e entriamo in un bar chiedendo due coni, uno cioccolato e l’altro pistacchio. Sorrido. Usciamo e il vento ci investe. Scendiamo delle scalette che portano al mare. I piedi affondano sulla sabbia man mano che proseguiamo. Ci fermiamo poco prima della riva, accomodandoci. Lo sento come un ritrovo. Mi sento un po’ a casa, con il gelato al pistacchio, con il mare, con Giulia che qualche volta sorride di circostanza, afferra il disagio e lo trasforma in normalità, in tranquillità.
“So come ci si sente.” incomincia, titubante. Mi volto di scatto e noto che lei non guarda me, né il gelato, né il mare. Guarda il cielo e sospira, pesantemente.
“Io non credo.” rispondo, accennando un sorriso sconsolato.
“Io credo di si invece. So cosa vuol dire sentirsi soli, so cosa significa buttare un’intera vita nel cesso per ricominciarne un’altra. So cosa vuol dire. Quando il resto del mondo ti fa ciao ciao con la manina e tu lo guardi mentre si muove, mentre continua la sua routine. Lo so. So tutto. Quindi va bene perché so che adesso ti sfoghi cosi, mangiando un gelato e sorridendo con cortesia. So anche che alla tristezza subentra la rabbia e che alla rabbia altra tristezza. So che nessun altro sa cosa provi, e questo va bene ed è giusto. Ma so che, in fin dei conti, mi piaci, con questi tuoi atteggiamenti da figa e queste scarpe che cambi ogni giorno. Stai bene ma… non stai bene. Non crollare, non farlo.” e il mare continua a scorrere, il vento a soffiare, la mia lingua a leccare un gelato nonostante la saliva si sia prosciugata del tutto.
“Grazie.” mormoro, un po’ meno appesantita.
“Figurati.” replica, con un vero sorriso.
“Hai gli occhi grandi. Grandi e belli.” esclamo, guardandola. Si volta anche lei.
“Hai gli occhi medi. Medi e scuri. Quanto il nero che c’è nei tuoi polmoni, con tutta quella cenere.” esclama lei. Scoppiamo a ridere subito dopo un attimo di silenzio.
“E’ una settimana che vengo il pomeriggio da te a cazzeggiare. E ancora non mi hai presentato nessun figo che sia alla mia altezza.” riflette poi, atteggiandosi a diva. Ridacchio.
“Hai ragione, rimedierò al più presto.” replico, battendomi una mano in fronte con fare teatrale. Ridiamo un po’, poi restiamo in silenzio, ad osservare le onde che si infrangono sulla battigia.
“Che ore sono?” chiede poi.
“Le undici, credo. Forse, boh.” rispondo, facendo spallucce.
“Meglio andare.” esclama, alzandosi e tendendomi la mano per alzarmi. La afferro, alzandomi pur’io. Mi scotolo i jeans e cerco le chiavi. Ancora con la risata in bocca ce ne andiamo. Eccoti, Giulia, sei la mia compagna attuale di merenda.
 
 
Parlano tutti, in questa scuola, tutti. Dal più beota al più carino, dalla più oca alla più intelligente. E non parlano solo a vanvera, parlano anche male, con la lingua storta, con gli occhi che fanno su al cielo e giù alle scarpe. Dopo due settimane divento la dura con la moto, la motociclista, la scassa uomini, la sexy che picchia. Nonostante sia davvero palloso, mi piacciono come soprannomi.
“Dario smettila di fumare, lo sapevi che gli uomini che fumano rischiano l’impotenza? Cazzo, renditene conto.” sbotto, irritata dal fumo che proviene dalla sua bocca e che mi butta in faccia ogni volta fuori scuola. Scoppiano tutti a ridere, perfino lui, tirato.
“Non era uno scherzo.” aggiungo, ma ormai tutti quanti si stanno facendo i cazzi propri. Cicca e butta la Merit, ormai ridotta al filtro. Sorrido, come una mamma.
“Hai ragione.” replica, serio e senza sorrisi ironici, senza cercare di zittirmi. “Bambi, posso farti una domanda?” mi chiede. Annuisco.
“Perché proprio Massimiliano? No, okay, ce ne sono tanti, belli, lo so, lui è il più bello, anche se io sono meglio, ammettiamolo – inserisce commenti tra una parola e l’altra e rido – ma… perché lui? In fondo voglio dire, lui non è tipo da storia, da giochi di sguardi, da questo e da quello… ti farai del male.” conclude, con una punta di preoccupazione. I miei occhiali neri sono eloquenti.
“Spiegati meglio.” dico soltanto. E inizia. E racconta. Della sua storia d’amore andata a puttane a quindici anni, delle sue prima scopamiche, di quelle che ci sono ancora, di quelle che non se ne andranno mai. Rapporti intimi con una persona diversa ogni due giorni, ogni sera, ogni settimana a volte. Senza legarsi, come Spirit, come un uomo delle caverne, come quello stronzo di Adam Brody in “Il bacio che aspettavo”, dove se la fa sia con la madre che con la figlia, il bastardo. E figo. E quindi Massimiliano, tu sei cosi. La verità puoi anche bruciarla, ma la cenere che ne rimane… lo sanno tutti che resta. Ti resta nei polmoni, nel sangue e nel cuore. E si annida. E non se ne va.
 
 
“Appena in tempo.” sento dire nell’esatto momento in cui due mani grandi come quelle dei carpentieri si poggiano violente sulle mie mettendo in sesta la moto. E me, sopra la moto. Il proprietario di quelle mani mette poi il cavalletto e scendo, irritata.
“Grazie ma non c’era bisogno, non sono una bambina.” replico, infastidita, levandomi il casco e voltandomi verso il mio benefattore che però scopro essere Massimiliano. Mi irrito ancor di più.
“Lo so che non sei una bambina. Hai sedici anni, o mi sbaglio?” mi chiede, presuntuoso. Annuisco, scocciata.
“Beh, sicuramente ne ho sempre di più io che ne avrò diciotto tra soli tre mesi.” ribatte, ancor più presuntuoso. Nella sua voce non c’è alcuna presunzione, ma io lo so bene che è presuntuoso. In una settimana si può constatare tanto del comportamento di una persona, anche solo osservandola. Sbuffo.
“Bravo, tanti auguri.” replico, sarcastica, superandolo e facendo per entrare alla Smart. Mi blocca un braccio. Mi volto di scatto, staccandogli a forza la presa.
“Non farlo mai più.” sputo a denti stretti.
“Perché ce l’hai cosi tanto con me?” chiede d’un tratto, abbassando lo sguardo mortificato. Mortificato.
“Cosa?!” sussurro sorpresa, decisamente sorpresa.
“E’ come se ce l’avessi con me, continuamente… io, mi dispiace. Tanto.” si scusa, desolato, teso, con gli occhi che puntano alla scarpe e che scorrono, che non reggono tre secondi continui sul mio viso.
“Non ce l’ho con te… Noi… noi non ci conosciamo. Sei ancora uno sconosciuto per me, sei una pentola con qualche intruglio misterioso al suo interno.” replico, più tra me e me che rivolta a lui.
“Ti va di venire a cena con me una di queste sere?” continua, risoluto. Adesso non sembri più tanto mortificato, Massimiliano, batti il piede egocentrico in attesa di risposta e i tuoi occhi non chiedono scusa, non la chiedono mai. Ci penso. Magari potrei accettare. O forse no. O forse si. Dovrei dargliela una chance, almeno una volta, almeno piccola. Dovrei, Massimiliano, dovrei? Dimmelo tu perché io non lo so.
“Non mi va, grazie lo stesso per la proposta.” rispondo, e sono contenta della mia scelta. Lo supero di nuovo e poco prima di entrare, a passo di carica, mi giro verso di lui, che è ancora piantato là, come un fesso “ e per la cronaca, se mi blocchi ancora il braccio con tutta quella violenza ti prendo a pugni le palle. Intesi?” e non l’aspetto la risposta, non l’aspetto mai, mi volto per la terza volta e definitivamente abbandono il campo di battaglia, mentre le risate di tutti i presenti nel parcheggio mi inondano le orecchie. Anche se non c’è niente di cui essere orgogliosi, lo sono. Perché non ce la fanno ad abbindolarmi. Neanche le storie più fresche, più calde, neanche quelle paragonabili soltanto alle fragranze di Dior per uomo che tanto mi piacciono. O almeno, per dirla in un altro modo: “non tutte le merende vanno bene per uno sportivo.”
 




 

 












Ciao. Boh, non ho niente da dire. Grazie a chi legge. E recensisce. A tutti. Grazie. Se lasciaste una recensione mi faresta piacere, qualunque sia il commento. Grazie a tutti ancora, la vostra El.
 

  
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