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Autore: Kimmy_90    14/04/2007    5 recensioni
Philosophi, Custodes: guerrieri e sapienti, condottieri cresciuti ed istruiti, usati, stressati, tirati oltre ogni limite. Bambini sottratti ai genitori per divenire macchine da guerra: Utopia o Distopia?
E se il tutto, che a stento si regge in piedi, crollasse a dispetto dell'uno?
E se l'uno fosse dalla parte del tutto?
Dove trovi la ragione, dal sempre fu o dal nuovo che porta terrore come solo questo sa fare?
E se la routine della guerra divenisse l'isto di una catastrofe?
Siamo in un altro mondo, signori, e qui non v'è magia alcuna: soltanto geni...
Geni e Demoni.
[Storia in revisione] [Revisionata sino al capitolo 10]
Genere: Azione, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Itachi, Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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- Questa storia fa parte della serie 'Cristallo di sale' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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[Prima pubblicazione: 14 04 2007]

[Ultima revisione: 26 09 2010

- 1 -

Noi che qui viviamo, grazie all'amore, viviamo.

Un amore antico che ci riempie in ogni gesto che compiamo.

Eppure, alcuni di noi dimenticano.

Alcuni di noi non ricordano.

Ma come ricordare ciò che non è mai avvenuto?

- Calore alla schiena. -

Lui se lo ricordava bene, il suo primo giorno al Ludus.

Un nanetto biondo intento a guardarsi attorno, piazzato su di una sedia troppo grande: a dimenarsi ora di qua, ora di là, osservando tutti gli altri bambini - mentre un vecchio, dal palco, parlava.

Si massaggiava ancora il braccio, mezzo intontito per l'iniezione che gli avevano fatto solo qualche ora prima, e lentamente gli sorgeva un mal di pancia che difficilmente avrebbe dimenticato.

Così, per distrarsi, non bastava ascoltare quello che i Magistri chiamavano 'Ignis Umbra' - no: doveva fare qualcos'altro. Oppure, era convinto, sarebbe morto.

E così posava gli occhi azzurri su di ognuno degli altri bambini ivi presenti: la maggior parte di loro era spaesata, ma alcuni ascoltavano interessati; c'era chi aveva già iniziato a darle ad altri, con vile discrezione.

Lui era fra quelli che ascoltavano interessati: ma pareva che i Magistri, posti di sorveglianza, non sapessero che fosse possibile ascoltare anche chi non si fissa negli occhi. E dato che lui guardava i bambini, anziché l'Ignis Umbra - e dato che era un muoversi, fremere ed agitarsi continuo, quello fu l'inizio di una lunga serie di punizioni.

Quando il biondino venne ritrascinato nell'aula, dopo esservene stato strappato a forza per essere rimproverato - alla maniera del Ludus - riguardo il suo comportamento, iniziò subito a notare come qualcuno lo osservava sconcertato. Non doveva avere un bell'aspetto, d'altro canto: ed ora, oltre alla pancia, anche la schiena gli doleva - di bruciore -, e non era necessario guardarsela per realizzare che era tutta arrossata: d'infiammazione e di sangue.

Che male, pensava.

Ed era l'unico pensiero che riusciva a formulare, mentre tornava seduto ad abbracciarsi la vita, piegato in due dal dolore.

Solo allora notò il più curioso di tutti i presenti, tre posti più in là: un bambino moro dagli occhi insolitamente velati, cui iride e pupilla sembravano inesistente: braccia conserte, sguardo fiero sebbene spento da quello sguardo come inesistente, osservava serio serio il palco e colui che vi sostava parlando.

Il biondino si incantò a quella vista, e fece scorrere lo sguardo un po' più in là, dove una bimbetta castana con le lagrime agli occhi si consolava aggrappata al braccio del bambino di prima: e questi le lasciava fare.

Che cosa strana, pensò lui.

Man mano che il discorso dell'Ignis Umbra volgeva al termine, il suo dolore alla pancia aumentava, surclassando di gran lunga quello alla schiena: così il bambino era costretto a mordersi le labbra, con espressioni sofferenti. E la cosa lo infastidiva: dava l'idea di essere a disagio, quando in realtà il Ludus gli piaceva. Quel posto rappresentava un cambiamento curioso, divertente ed interessante ai suoi occhi carichi d'innocenza: avrebbe voluto ascoltare ogni singola sillaba del vecchio senza apparire così dolorante ed immusonito.

Il discorso dell'Ignis Umbra terminò, ma no il suo mal di pancia: se lo trascinò addosso per giorni, con il risultato che i Magistri lo ripresero più e più volte a causa della sua eterna aria sofferente.

Tolto quel primo periodo di crampi e dolore, il primo anno scorse via tranquillo come un fiume di campagna: calmo, lento e senza nessun evento straordinario. Lui si era rivelato un iperattivo, e tutti i Magistri se n'erano accorti: come la schiena del bambino, spesso rossa, ma ad ogni giro punitivo più resistente.

Giunse l'alba del secondo anno, e lui la fece più grossa del previsto: nel giorno in cui i nuovi mille bambini giungevano, si dileguò dalle lezioni ed andò nell'aula del primo anno, dove si stava tenendo il discorso dell'Ignis Umbra.

I divieti che infranse erano infiniti, metà dei quali fortemente gravi: andare nell'aula di un'altra annata era forse la cosa più vietata che ci fosse. E poi ci fu il fatto che saltò le lezioni senza degna giustificazione - altro gesto inammissibile.

Guardava dalla porta, affacciato, quella nuova armata di studenti: e come aveva fatto l'anno prima, li studiava uno per uno.

Anche questa volta il suo sguardo fu catturato da vari personaggi, fra cui spiccava un bambino dai capelli corvini e gli occhi occhi scuri, profondi, che osservava l'Ignis Umbra meditabondo. Dall'altra parte dell'aula notò una piccolina il cui sguardo, impaurito, era chiaro e velato - esattamente come quello del suo compagno d'annata; accanto a lei vide un bambino dal volto solcato da dei segni scarlatti, e, dietro, uno dall'aria fortemente scocciata. Dopo lunga analisi, evidenziò un gruppetto a lui molto interessante.

Stava per infiltrarsi nell'aula per andare ad attaccar bottone con loro che venne placcato inaspettatamente da un gruppetto di Magistri. Senza nemmeno aspettarsi un evento del genere, il bambino lanciò inavvertitamente un urletto: e tutti e mille i nuovi si voltarono, a veder lui, fra le mani di cinque adulti, a scalciare e dimenarsi, finché - a danno oramai fatto -, si mise ad urlare di nuovo: volontariamente, la voce acuta e tremante. Anche l'Ignis Umbra, con sguardo allibito, tacque ad osservare il biondino che veniva tenuto difficilmente a bada dai Magistri. Grazie ad un morso maldestro il piccolo riuscì a liberarsi, e lì iniziò una corsa disperata attraverso tutto il comprensorio, evitando a suon di scarti, salti e cadute coloro che gli si avventavano addosso: corse a rotta di collo per qualche chilometro, sinché non finì in un luogo che non aveva mai esplorato prima, e stupidamente si cacciò in un vicolo cieco. Qui, spalle al muro e fiato grosso, si trovò contro una decina di insegnanti.

In trappola, si fece prendere dalla Paura.

Soffiò come un gatto.

Ringhiò come un lupo.

Ruggì come una una tigre.

Al suono che provenne dalla piccola figurina, la reazione dei Magistri fu un primo, indispettito, indietreggiare: e poi addosso.

Ciò che gli riservarono dopo era la più lunga e temuta delle punizioni del Ludus: per lui fu nulla, in confronto al mal di pancia che aveva patito nel vicolo, mentre veniva catturato – che a tratti superava quello che lo aveva accompagnato nei suoi primi giorni di lezione.

Il resto del secondo anno fu tranquillo, anche se lui si domandava, dopo ciò che aveva combinato, cosa trattenesse i Magistri dal cacciarlo.

Il terzo anno fu difficile, ma ne uscì integro: come al quarto.

Tre passi avanti, ed uno indietro: al quinto anno di permanenza conobbe Sasuke, Sakura e Hinata.

E molti altri.

***

La pioggia scrosciante non dava tregua. Raggomitolato sotto un piumone Naruto si copriva le orecchie, premendovisi il cuscino contro, invano: per la terza volta la sveglia squillò. Squillò con il suo solito rumore ronzante e fastidioso, e con il solito eco nella stanza accanto. Metà dei suoi compagni si erano già avviati verso la costruzione principale, ma lui no, voleva dormire. Come voleva ogni mattina.

Si levò scocciato a sedere, guardandosi attorno ancora mezzo addormentato.

E finalmente, quell'urlo metallico terminò.

Mugugnando fece scivolare i piedi scalzi giù dal letto, poi sbadigliando, poi stiracchiandosi, poi sbadigliando di nuovo: e così faceva mentre si vestiva, mentre guardava allo specchio la propria figura, bionda e dai tratti infantili - lavandosi i denti, lavandosi il muso solcato da tre segni, a baffo, per gota.

Mezzo incantato perse una manciata di minuti a contemplarsi allo specchio.

E la sveglia ronzò in tutto l'alloggio per la quarta volta.

«Aaaah, ancora? Sono sveglio..!» urlò, al nulla.

Si infilò rapido gli stivali neri, cacciandovi dentro alla meno peggio i pantaloni dello stesso colore: tenendo serrata fra i denti una piccola valigetta cromata scattò fuori dalla propria stanza - dove viveva, da solo, da sei anni - chiudendo la porta con un calcio.

Continuò correndo per il corridoio, intento ad infilarsi la seconda manica del copriveste, accompagnato da un tintinnio: e, finalmente a posto, si ritrovò immediatamente fuori dall'edificio.

Accanto a lui, come lui, centinaia, e poi migliaia.

I ragazzini, delle più svariate età, si muovevano in un'ordinata confusione surreale, articolandosi fra i vari corridoi esterni ricoperti da tettoie che, a ragnatela, conducevano all'edificio principale: una mezza sfera schiacciata ricoperta di lastre di vetro, dal raggio chilometrico.

Naruto si fermò un isto ad osservare la scena, sistemandosi i capelli, ed una volta cacciatosi le mani nelle tasche si avviò, con un largo sorriso, immerso in quella marmaglia di suoi simili.

Calzari scuri, neri pantaloni infilativi dentro: per tutti. Sopra, nere e pesanti copriveste, dal largo ed alto collo, lunghe ed ampie maniche, il tutto terminante di poco sotto il ginocchio, lasciando in quel modo vedere solo i calzari, rifiniti di cinghie e suture argentate. Alla manica destra di ognuno vi era ricamata tutta intorno una strisciolina colorata: stava ad indicare l'età, e quella di Naruto era arancione: dodicenne. Alla sinistra, invece, v'era una serie di discrete stelle grigiastre ad indicare l'anno che stava frequentando; cinque, per lui.

Ed infine, alcuni, rari, a lato del grande collo avevano attaccato uno o più campanelli.

Non altro bisognava sapere di uno studente del Ludus: poco contava il Nome, inesistente per tutti era il Cognome. Chi eri e cosa facevi lo diceva il tuo copriveste.

Ad ogni passo una serie di scoordinati dling-dling accompagnavano Naruto, che avanzava tintinnando ormai da un anno: coloro che lo circondavano si scostavano meccanicamente. Il che, dal suo punto di vista, era assai comodo: si sentiva potente. Avanzava sotto le tettoie che lo proteggevano dalla pioggia assieme agli altri, eppure chiaramente emarginato. Soprattutto i bambini più piccoli lo evitavano, guardandolo, immobili, i grandi occhioni incollati sulla sua figura, trattenendo il respiro terrorizzati.

***

Se c'era una cosa che il ragazzino aveva capito, nell'ultimo anno, era che non bisognava mai entrare in aula in anticipo.

La costruzione principale, la Sphaera, si divideva in sei spicchi ed in tre piani. Il centro era cavo, aperto, e dava verticalmente sul cielo: da qui si diramavano sei corridoi che dividevano i sei settori, radiali. Un altro corridoio, anulare, congiungeva per ogni piano le stanze della parte più interna, affacciata sul vuoto della colonna centrale, con quelle esterne, che davano sui pannelli vetrati.

Ogni settore corrispondeva ad un'annata, ed era identico ad ogni altro, se non per il numero di stelle grigette sullo stipite di ogni porta.

Così Naruto attendeva, deambulando su e giù per il corridoio del terzo piano, quinto settore - facendo finta di essere molto impegnato. I ragazzi entravano senza badare troppo a lui, sebbene tintinnasse in continuazione.

Al piano terra v'erano la sala d'allenamento fisico - nella parte che dava sull'esterno - mentre interna era sita la mensa. Al secondo piano, rispettivamente, la sala studio e la sala dedicata ai Magistri; al terzo l'aula, dove si tenevano lezioni ed esami, e la presidenza con segreteria annessa. Ogni anno era indipendente dagli altri, e soprattutto di identico stampo.

Il biondo fece capolino dalla porta della sala: oramai erano arrivati tutti. Con finta aria discreta entrò, ed iniziò a guardarsi in giro, scrutando il luogo immenso pullulante di sedie vuote. Ciondolando si avvicinò ad un gruppetto di ragazzini, tutti un anno meno di lui, tutti ben conosciuti.

Subito questi lo squadrarono con rapide e fugaci occhiatacce, senza volersi palesare: e lo sguardo di Naruto li percorse tutti, finché non trovò più discreto – accanto a cui si sedette.

Questo, dai capelli corvini, fissava con occhi scuri il vuoto senza dimostrare la minima irritazione alla presenza del ripetente. Ma, a dire il vero, era più che seccato.

E Naruto lo sapeva.

«Sasuke, Sasuke! Ascolta, ascolta!»

Prese il collo del copriveste ed iniziò a scuoterlo, scuotendo a sua volta il campanello, che tintinnava rumorosamente.

«Smettila.»

«Va bene, va bene. Era solo per incentivarti a non prenderla anche tu.» Sorrise.

Sasuke non mutò posizione, continuando a fissare il nulla, fronte sé. Il biondo si tolse il copriveste, rivelando la parte nascosta della divisa: un maglioncino nero a V, che faceva uscire una camicia bianca con il collo per lui arancione; e bianca a sua volta era la cinta, con impresse le cinque stelle, ordinate.

Ma ovviamente Naruto doveva essere distinto, poiché bocciato e reietto: a questo ci pensavano i polsini della camicia, aguzzi, ripiegati sopra le maniche del maglione, che, anziché esser bianchi e candidi come quelle degli altri studenti, erano grigio scuro, gricio sporco.

Una stonatura di colore impossibile da non notare.

«In Piedi!»

Le classi di studio contavano un migliaio di posti, sistemati a loggia su gradinate che salivano sempre più, posizionate a guardare verso l'esterno della Sphaera. I vetri erano opachi - per non distrarsi, e soprattutto per fungere da immensa lavagna.

Al centro del tutto un'immensa cattedra, a falce.

Come il Magister pronunciò queste due parole, i ragazzi scattarono immediatamente in piedi. L'uomo, vestito in modo simile ai ragazzini, entrò nella sala invitandoli a sedersi: sotto il braccio una scatola che emetteva sordi, piccoli rumori.

«Portate qui i quaderni.»

A dire il vero, era un termine storico. In processione, i ragazzini si misero in fila, in trecento scarsi quali erano, a porgere la propria valigetta cromata.

Alta era la tecnologia del Ludus: carta e penna erano praticamente scomparsi, da secoli. Un piccolo e discreto computer era tutto ciò di cui avevano bisogno.

Come ogni studente porgeva il proprio 'quaderno' al Magister, questo lo posizionava sul fondale della classe, appoggiato sul pavimento, per poi dare all'allievo un campanello.

Ogni studente un quaderno, ed un campanello indietro.

E quasi un'ora per completare l'operazione.

Non c'era niente di strano, per gli allievi: era una prassi più che regolare. Si trattava dell'unico mondo che conoscevano, dell'unica didattica con cui erano mai venuti a contatto.

Quello era l'Esame.

E quello era il rito.

«Ehi, ehi, non c'è bisogno di darmelo, non verrò certo bocciato una seconda volta... neh, Iruka?»

Naruto prese il suo campanello ridacchiando e facendolo tintinnare ne palmo della mano.

«Naruto! Non puoi chiamarmi per nome!»

Per tutta risposta Iruka cacciò via il ragazzino - che ancora rideva - spingendolo per le spalle, dopo averlo ammonito sottovoce e con sguardo truce.

Entro breve ognuno era nuovamente al suo posto: dalla tavolata ante le sedie si aprirono delle finestrelle a mostrare i monitor del Ludus, già pronti con il test. Le schiene si chinarono sugli schermi, ognuno cercando la concentrazione a modo suo.

«Avete cinque ore.»

Il che significava che per concluderle completamente l'esame ce ne volevano almeno sette.

Naruto sosteneva quell'esame per la seconda volta - l'esame di fine anno. Lo stesso che, un anno prima, fece di lui un reietto. Il ragazzino già malvisto dai Magistri a causa del suo comportamento indomabile, era divenuto così una nullità anche agli occhi degli studenti, che in larga parte non lo sopportavano già da prima.

E mentre scorreva rapido le domande, scegliendo quelle a lui più convenienti, gli risultava impossibile non notare i suoi polsini scuri.

Già.

Bocciato.

Già.

Fallito.

Se l'erano studiata bene - ma lui, di certo, non era capace di formulare simili pensieri.

Era una cosa normale: sapeva a cosa andava incontro. Sapeva cosa significava continuare dopo aver fallito.

Non poteva permettersi di farlo nuovamente.

Altalenava lo sguardo dallo schermo all'orologio, mordendosi il labbro.

Il tempo passava, inesorabile.

Guardò una volta il nuovo campanello, lasciandosi scivolare in testa un pensiero come 'in che modo cucirlo al copriveste'.

Ansia e sicurezza gli si alternavano in corpo, logorandogli i nervi.

Non ha padre,

ne' madre,

ne' fratello,

ne' sorella.

Eppure è colui che più risplende:

il Sole.

   
 
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