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Autore: McHardcore    02/10/2012    2 recensioni
- Dicono che Plutarch e Haymitch abbiano avuto grosse difficoltà a tenerla in vita - commenta Venia sottovoce. - È stata incarcerata dopo la tua fuga e ora questo incarico la fa stare un po’ meglio.
E' davvero difficile da credere. Effie Trinket, una ribelle.
(da Il canto della rivolta, Suzanne Collins)
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Effie Trinket
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Apro improvvisamente gli occhi e mi ritrovo a guardare un soffitto bianco, e non è quello della mia cella. Quello era sudicio, anche se, in un passato non troppo distante, doveva essere candido come quello che sto fissando ora.
Un forte odore di disinfettante mi solletica le narici, e un odioso e ripetitivo ‘bip’ richiama la mia attenzione. Volto appena la testa a sinistra e i miei occhi incontrano lo schermo di un monitor ospedaliero. Non capisco: solo qualche istante prima ero in carcere…
Mi costringo a riportare alla mente i miei ultimi ricordi, per tentare di fare chiarezza, per provare a capire come io sia finita in un letto d’ospedale.
Chiudo gli occhi. Provo di nuovo la brusca sensazione dell’essere svegliata da un rumore di spari condito con qualche sporadico grido. Rivedo la porta della mia cella aprirsi di colpo e un pacificatore comparire sulla soglia. Ha una pistola stretta nella mano destra e, nel momento in cui la punta contro di me, penso che sia giunta la mia ora. Le mie palpebre si abbassano: sono pronta a essere abbracciata dalla Morte. Un colpo di pistola trafigge l’aria.
Apro gli occhi ed eccomi qui, in un letto d’ospedale, con una sacca di flebo collegata al braccio tramite un tubicino trasparente. Sento che la testa si è fatta leggera, e che il dolore, che mi faceva sempre compagnia durante la prigionia, sembra essere svanito: è l’effetto della morfamina che probabilmente hanno mischiato al contenuto della flebo. Durerà per un po’, poi svanirà ed io vorrò ancora che questa mi sia iniettata. E’ come una droga…
“Finalmente si è svegliata!” Una voce squillante e femminile fa irruzione nel silenzio che mi circonda, portandomi a rivolgere l’attenzione verso la sua proprietaria. Mi ritrovo così a guardare un’infermiera dai vaporosi capelli biondi e il rossetto rosa acceso che, accorgendosi del fatto che io la sto guardando, abbozza un sorriso prima di appuntare qualcosa sulla cartella che regge tra le mani affusolate.
Tento di dire qualcosa, ma la gola è secca e arida al pari del deserto e le parole rimangono incagliate in tutta quella sabbia. Allora l’infermiera mi sorride ancora e, recuperato un bicchiere, non so bene da dove, mi fa bere attraverso una cannuccia.
E’ in quel momento che mi torna alla mente la mia vecchia nonna Cecile. La cinica e bisbetica nonna Cecile. Era stata ricoverata un giorno d’inverno, a causa di una brutta tosse, quando io avevo solo dieci anni. Mia mamma si era spaventata perché le medicine, che la nonna prendeva, non le facevano più nulla. La fece ricoverare subito in ospedale, e a quel punto i medici ci dissero che nonna Cecile era molto vecchia e se ne sarebbe andata a breve. Questione di qualche ora. E invece, in barba ai pronostici, la nonna non se ne andò prima di aver visto l’arrivo della primavera. Fino a quel momento l’avevano mantenuta in vita tramite dei sondini, e ricordo che l’unica cosa che poteva ingerire davvero era solo un po’ d’acqua, tramite un bicchiere dotato di cannuccia, il gemello di quello da cui sto bevendo io.
Torno al presente e sento l’acqua inondare il deserto. La mia gola smette di soffrire.
“Grazie.” Riesco a dire in un bisbiglio, rivolta alla sorridente infermiera bionda.
“Non c’è di che.” Replica lei, poi fa un giro attorno al letto per controllare non so bene cosa, quindi torna a rivolgersi a me. “Come si sente?”
Come mi sento? Credo di dover dire ‘bene’, visto che mi hanno liberata dal carcere, eppure non riesco a non rispondere con un secco: “Male.”
Sul viso dell’infermiera si forma un’espressione di sincero stupore, e subito si appresta a controllare una sacca di liquido trasparente che ha appena appeso all’asta della flebo. Deve contenere qualche tipo di sonnifero, perché non appena sento un leggero bruciore che indica la presenza del farmaco in vena, mi accorgo che quella sensazione di leggerezza che provavo prima è aumentata, e la vista mi si appanna. Faccio allora a un leggero sospiro, lasciandomi scivolare nel sonno, mentre l’infermiera dice qualcosa ed esce poi dalla stanza richiudendo la porta dietro di sé.
 
“Le prometto che se parla, il dolore cesserà. Cesserà tutto. Basta solo che lei parli, che ci dica quello che vogliamo sapere. Coraggio, non è poi così difficile… Non posso pensare che sia così stupida da voler soffrire ancora.” Il viso incipriato di Rouge affiora dalla nebbia e le sue iridi rosse mi scrutano fameliche.
Una scossa mi percorre il corpo e, per un attimo, l’uomo sparisce dal mio campo visivo. Ci ritorna con irruenza quando sento una mano sotto il mento che mi spinge ad alzare ancora la testa verso di lui.
“Perché difende quelli che lei pensa siano amici? Se fossero davvero dalla sua parte, sarebbero venuti a prenderla. E invece…”Rouge infondo ha ragione, ma io rimango zitta perché comunque non saprei cosa riferirgli. Non so niente: è la verità. “Perché continua a proteggerli con il suo silenzio?” E’ molto arrabbiato e, quando è così, la dose di dolore aumenta spropositatamente in un crescendo sempre maggiore.
“Non so niente.” Mugolo. “Non so niente.” Ripeto.
Ma lui non mi crede, e il dolore torna a pervadermi.
 
Urlo e mi sveglio, ritrovandomi così a guardare nuovamente il soffitto bianco della camera ospedaliera dove sono ricoverata.
Rouge non c’è. Il dolore non c’è.
Il mio sguardo scivola inaspettatamente sulle mie braccia fasciate, sulle mani avvolte in sterili e bianche garze. E’ lì sotto che si nascondono i segni che mi ha lasciato il carcere, che mi ha lasciato Rouge. Solo lì, lui è ancora presente. Solo lì, e nei miei incubi.
Sposto lo sguardo e, questa volta, incontro quello dell’infermiera bionda, che ha fatto di nuovo la sua comparsa nella stanza.
“Da quanto tempo sono qui?” Le chiedo con un tono così basso che al momento credo che non mi abbia sentita.
Lei risponde solo dopo aver controllato i monitor che bippano intorno a me: “Due giorni.”
E’ da due giorni che mi hanno reso libera, ma io non mi sento così. Nonostante non abbia più sbarre e cemento a dividermi dal mondo, il mio corpo e la mia mente sono ancora prigionieri in una gabbia. Una gabbia fatta di dolore e visioni terribili.
“L’hanno portata qui i signori Abernathy e Heavensbee… Aveva delle brutte ferite. Davvero brutte, brutte. Ora, però, stanno guarendo…” Fa una piccola pausa, giusto il tempo perché io mi renda conto che sta iniettando della morfamina direttamente nel mio braccio. “Erano davvero molto preoccupati entrambi per la sua salute.”
Se davvero erano così preoccupati, perché non sono venuti prima a liberarmi dal carcere? Perché non sono qui, adesso?
L’infermiera sistema le coperte attorno al mio corpo, in un gesto di carineria, poi risponde a quell’ultima domanda cui non ho dato voce.
“Sono tutti così impegnati… Ma sono certa che verranno a trovarla.”
E’ una vana speranza. So che Haymitch non verrà mai: non gli è mai importato nulla di me, e le cose non credo proprio che siano cambiate solo perché io mi trovo in ospedale. Plutarch, invece, ha gestito da vicino la rivolta contro Capitol City, e non penso che troverà mai il tempo di venire a trovarmi anche solo per un saluto: lui sì che sarà davvero impegnato, ora.
“Ora devo andare, ma se ha bisogno di qualsiasi cosa basta che prema questo pulsante e arriverò subito qui.” Indica un bottone rosso accanto al letto e mi sorride ancora. Forse spera che io dica qualcosa, perché rimane a fissarmi per un lungo istante, ma io non saprei che dirle se non un altro ‘grazie’ biascicato. Torno a guardare il soffitto e l’infermiera se ne va. Rimango sola. Sola con i miei incubi. Sola con Rouge, ancora principale protagonista di questi. Sono sola e imprigionata in essi. Volevano rendermi libera, facendomi uscire dal carcere, ma io non potrò mai esserla finché la mia mente sarà in gabbia. E se questa è in gabbia, come faccio a liberarla prima di impazzire? La morte continua ad apparirmi l’unica soluzione ai miei problemi.

   
 
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