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Autore: Jeannette    03/10/2012    7 recensioni
Se sia possibile che una giovane prostituta analfabeta, vissuta nel bel mezzo delle gravose doglie di un quindicesimo secolo al debutto, si interroghi sulla capacità di una sola persona di cambiare il corso della Storia - senza considerare, sia ben chiaro, l'aiuto di Dio - pur nella contingenza in cui questa persona sia, in effetti, solo una donna, e tra le donne una contadina, e tra le contadine la più impudente e testarda; tale è il quesito che si pone questa storiella. La scena è la valle della Loira, e l'impudente contadina è Giovanna d'Arco.
Genere: Guerra, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo, Inquisizione
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Parte Prima - di come Catherine incontrò Jeanne d'Arc.



La ragazza si chiamava Catherine: un nome che suonava incantevole, specialmente se proferito dalle parti di Tours, Blois e Orléans, un po’ tutto quel tratto di valle  a nord della Loira, dove la erre si pronunciava dolce, e l’accento sulla “i” cadeva vivace, come cade un anatroccolo in uno stagno, con qualche schizzo qua e là, ma senza tonfo. Il buon padre le aveva fatto dono di questo armonioso insieme di fonemi in virtù di una forte devozione verso la santa della leggenda, Caterina d’Alessandria, che all’alba dei tempi, quando ancora i regni di tutto il Mondo erano uniti in uno solo, aveva dato prova, nella lotta per l’evangelizzazione dei pagani, di grande fede e forza ancor più sorprendente. Egli era infatti ceramista – il nome era Bernard, la “a” allargata come in uno sbadiglio – e fu per tutta la sua esistenza un ceramista prima ancora di essere un padre, prima ancora di essere un uomo; e Santa Caterina da sempre era la patrona del suo ordine, a lei doveva dunque l’intera vita. Al pensiero di suo padre, Catherine assumeva sempre una strana espressione, a metà tra il malinconico e il perplesso, e così fece anche in quel momento:  il labbro inferiore, tondo e roseo come un petalo di geranio, si increspava da un lato, mentre lo sguardo chiaro si accigliava a fissare il ricordo incredulo di un passato sconclusionato, come fosse proiettato sui ciottoli della strada.
      I suoi genitori erano nati a Blois, e lì avevano riproposto gli stessi gesti giorno per giorno – sveglia, bottega, messa, bottega, cena, riposo – fin quando avevano avuto vita. Anche lei, Catherine, un tempo era stata parte integrante di quella onesta, assodata e indiscutibile vita cittadina, da consumare lì nel viottolo che dà sulla piazza del mercato, nell’abbraccio custode delle alte mura di roccia e granito, mille anni di storia a sostegno di quelle poche, semplici attività – sveglia, bottega, messa, bottega, cena, riposo. In quegli anni (e gliene parvero trascorsi cento, nonostante ne avesse appena diciassette) aveva appreso l’arte del ceramista con la stessa naturalezza con cui aveva imparato a parlare il francese, e fra vasi, vasetti, tinozze e tazze, il tempo le scorreva tra le mani nel mentre che l’argilla scorreva sul tornio, meccanicamente. Se, allora, le avessero chiesto di scommettere sul proprio futuro, non avrebbe avuto il minimo dubbio sul fatto che nulla sarebbe cambiato: quel viottolo, quella casupola storta e lunga (che era la loro bottega, ma anche la loro dimora), quelle tazze odorose, appena plasmate, tanto fragili da sembrarle immeritevoli dell’importanza che veniva loro attribuita, erano connesse alla sua esistenza allo stesso modo in cui lo erano l’aria, l’acqua e il pane. Ma questo pensiero, che potrebbe forse risultarci angosciante, data la condivisa persuasione moderna che ogni nostro gesto supponga in potenza il cambiamento del mondo,  quel pensiero era per lei fonte di grande sollievo e di eccezionale serenità – le ritornava alla mente, ora che l’incertezza del futuro era il primo affanno di ogni presente, accompagnato da un certo sentore nostalgico.  Non era uso, difatti, in quegli anni, serbare speranza nei giorni a venire.

      Correva l’anno del Signore 1429, e la furia degli invasori inglesi ormai da cent’anni minacciava il Regno di Francia, dalle coste della Manche alla città di Orléans, dalla fortunata ascesa al trono di Philippe de Valois, alle infauste sventure del Delfino Charles, la guerra si era trascinata di miglio in miglio, d’assedio in assedio fino a giungere, ormai stremata, impoverita di uomini, denaro, e dignità, a tormentare l’altresì pacifico, verde scorrere della Loira - l’andare e venire dei cavalli, i morti, la carestia dei raccolti, tutto era lì a insozzare le rive del fiume, tanto più misero quanto più lo era il legittimo   erede  alla  Corona  francese,  misero  come   la   Francia. Il Delfino, infatti, soprannominato con sprezzo “re di Bourges”, per via della segregazione da Parigi alla quale era stato forzato dalle sconfitte subite contro i Borgognoni – questi avrebbero preferito un inglese, sul trono, piuttosto che il re degli armagnacchi! – pur detenendo di fatto il potere su gran parte della Francia centrale, e su quella meridionale, si trovava dinnanzi la corona, lo scettro e un quarto di regno usurpati dal giovane Enrico VI d’Inghilterra. Le disgrazie di Carlo erano sulla bocca di tutti: si diceva di lui che non avesse più denaro per pagare l’esercito, che fosse ormai intenzionato alla resa, condannando la Francia nei secoli prossimi a stanziare lì, tra le Alpi e l’oceano, come appendice d’oltremanica; tutto questo si chiacchierava, e non stupiva affatto che la regina madre Isabella di Baviera avesse definito il povero figlio “sedicente Delfino”, dichiarando a Troyes di averlo concepito non con il Re, bensì con un altro uomo (forse Louis d’Orléans? Pareva, a quelli che le avevano prestato fede, l’ipotesi più accreditata).
       Ebbene, queste vicende apparentemente circoscritte, avvenute qua e là tra le mura severe dei castelli nobiliari - lo screzio di uno, l’aspirazione d’un altro, un gesto di troppo, una frase mal interpretata - tutte queste inezie, sottili nel corpo e maestose nella portata, ebbero il potere di estendere i propri fatali esiti fino a raggiungere la piccola casa di Catherine, a suggestionare la sua modesta, lontana vita, proprio come un morbo che si diffonde tra sconosciuti. Così fu contagiata la bottega di Bernard: le tazze infrante al suolo una dopo l’altra, come tanti scossoni, simili agli starnuti che affliggono un corpo tormentato da un brutto raffreddore, fecero vibrare i poveri mobili in legno del primo piano, quelle quattro gambe sottili del tavolo da lavoro, insieme con gli scaffali inumiditi dal maltempo, e lo sgabello, e la panca, apparvero allora vecchi e guasti più che mai, si rovesciarono insieme con  la  vita di  Bernard,  il  ceramista  di Blois, e  della  sua  famiglia. La guerra, sotto forma di tre, forse quattro (difficile ricordare con precisione un evento tanto traumatico!) brigantelli venuti da chissà dove, investì e sconvolse l’onesta, monotona, assodata esistenza cittadina che Catherine e i suoi genitori avevano condiviso per quindici lunghi anni. Nel momento stesso in cui l’argilla smise di scorrere sul tornio, Catherine, accucciata dov’era, dietro la rampa delle scale, avvertì nitida la consapevolezza che nulla sarebbe stato più lo stesso, che il filo del suo destino era stato tranciato di netto, e quei tre (o quattro) briganti armati di spade arrugginite, sventolate all’aria come ali nere, non potevano che essere gli angeli della morte venuti a reclamare la loro anima. (Tale apocalittica similitudine resta assai azzeccata, nonostante si precisi che nessuno morì quel fatidico giorno, ma– quel che è peggio! – di lì a poco fallì la bottega, incapace di sostenere l’ingente danno economico, e naturalmente, lo sconforto morale che il proprietario subì di riflesso).

       Sul bel viso di Catherine, graziosamente illuminato dalla tiepida luce del mattino, era tratteggiata nuovamente quella buffa, grottesca espressione, mentre lei, appoggiata spalle al muro di una casetta color terracotta, al lato del vialone che si allungava dalle porte di Blois, veniva sottratta all’esuberante fluire dei suoi pensieri da un’improvvisa esclamazione del presente. Il crescente rumorio della folla, un uomo le passava un po’ troppo accanto, e intorno a lei, la realtà si andò via via assestando in immagini nette, come al risveglio da un sogno.
       Quella in cui si trovava non era la Blois dei suoi ricordi, mite, silenziosa cittadina di provincia lontana dalla politica e dai pellegrinaggi (quasi noiosa, certo, ma soffrire di noia non è forse il migliore degli affanni?); adesso la via principale era oppressa dallo scintillante via vai di soldati in armatura, che affluivano, defluivano dalle arcuate porte della città, simili a due avverse correnti di un fiume in piena, e calpestati ammassi di profughi, gente fuggita dalle città sotto assedio, traboccavano dalle vie laterali, l’uno inciampando sull’altro, mi scusi, permesso, largo per pietà! A Catherine sfuggì un mezzo sorriso quando, proprio di fronte a lei, un baffuto soldato incespicò in un carretto, e ruzzolando a terra tra il clang clang dell’armatura si esibì rauco in alcune stravaganti imprecazioni colorite dall’accento duro d’Armagnac. Il motivo di tanta confusione era stata la decisione da parte dei generali fedeli al Delfino, di deputare Blois come ritrovo delle truppe e sede strategica per la liberazione di Orlèans dall’opprimente invasione britannica – entrambe si specchiavano sullo stesso tratto di fiume, l’una su una sponda, l’altra sull’opposta, e tra di loro distavano appena una mattinata a cavallo. Ultimo baluardo della resistenza francese, estremo sbarramento ad impedire al nemico il guado della Loira, nonché città simbolo della fazione armagnacca, la fortezza d’Orlèans era ormai sotto assedio dall’Ottobre dell’anno passato, quando, una volta crollata la formidabile struttura difensiva sita all'estremità sudest della città, conosciuta come “Les Tourelles”, si erano susseguite all’interno delle mura e nelle campagne immediatamente circostanti, una serie di cocenti sconfitte a scapito della parte francese. A niente servì l’alleanza con gli scozzesi, vane le astuzie dei generali, il crollo dei ponti, l’incuria delle feste, le arringhe sparse tra i flutti del fiume: non c’erano santi! Il Bastardo d’Orlèans, il Duca d’Alençon, De Richemont, persino il temibile La Hire, tutti i valorosi condottieri di cui il delfinato poteva farsi vanto, distintisi per coraggio, ambizione e virtù d’arme in tante battaglie, parevano in quei mesi aver perso ogni ispirazione, cinti in una perversa trappola che sembrava non lasciare spazio all’iniziativa umana, e l’impeto diventava fretta; la prudenza, inattività;   la strategia,  inconcludenza. Di tutte queste cose, certo, i popolani, contadini e donne che, come la nostra giovane Catherine, in ogni circostanza e sempre non possono far altro che lasciarsi trasportare dal perpetuo effetto domino della storia, ne sapevano ben poco; all’unanimità però si constatava che se mai la Francia aveva goduto del favore divino, ahimè, in quegli anni doveva essere rivolto altrove.
       Era quasi mezzogiorno, e l’ombra del campanile, ormai  poco più che una stretta macchia, era affollata di gente agognante un po’ di sollievo dal caldo, quando il soldato baffuto – aveva i baffi di gran lunga più folti dei capelli, e gli adornavano floridi un naso aquilino già di per sé abbastanza esuberante – si avvicinò a Catherine con qualche accenno d’imbarazzo, un po’ per l’inciampo di poco prima, un po’ in virtù di quell’impacciato timore che un signore sempre manifesta nei gesti (quando non nelle parole) in presenza di una graziosa donzella nel fiore degli anni.
     << Non è carino ridere delle disgrazie dell’esercito di Francia!>> iniziò beffardo, e nonostante la voce profonda e il tono carico, a lei riuscì difficile distinguere le parole di lui tra il baccano che imperava intorno, tanto quanto difficile era scorgere il lauto sorriso che le stava propinando, nascosto com’era tra i prorompenti baffi. Sembrò indugiare dapprima sui capelli di lei: erano raccolti da un laccio rosso, e le spogliavano il viso morbido, i lineamenti appena tratteggiati su uno sfondo di pesca, qualche pennellata di rosso alle guance, e le labbra; poi ricadevano sulle spalle, composti in comizi di riccioli, e le inondavano dei colori dell’estate, tra l’oro del Sole e l’ocra del grano. Quando cercò lo sguardo di lei, lo colse in fuga: il verde delle iridi s’appannava col calare delle lunghe ciglia, e si riusciva a scorgerlo solo a tratti, in tutto simile alla luce, in un boschetto, quando a stento si fa spazio tra le foglie degli alberi. Lei si dannò per quel gesto: ancora non aveva imparato i trucchi del mestiere?
       << Che c’è, non ti piaccio? >> seguitava lui, e con la mano appesantita sul palmo da uno spesso strato di cuoio, e da scaglie d’armatura sul dorso, già le carezzava il braccio. Si sarebbero detti molto indaffarati, cavalieri e fanti, intenti nei preparativi al prossimo attacco, eppure, nei fatti, trovavano sempre tempo per un po’ di svago. Ed era per quello svago che Catherine, lei che dopo il fallimento della bottega di Bernard aveva vissuto nelle campagne, tra la semplice gente dei villaggi di contadini, era tornata adesso tra le mura di Blois: per riempire, con la sua generosa disponibilità, – perché diavolo aveva abbassato lo sguardo?  Stupida, ingenua e stupida ragazzina che non impara mai! – per conciliare nel suo abbraccio il prezioso tempo libero degli uomini del Re, che fossero generali, sottoposti, persino gli scudieri e i servitori degli scudieri, se ne avessero fatto domanda, sarebbero stati allietati, in cambio, si intende, di pochi spiccioli, e le disgrazie della patria dimenticate, per quel poco tempo, certo, per quel che una ragazza poteva fare. Non che si sentisse particolarmente portata, per quel mestiere. Lei dopotutto era nata in città, in città era vissuta per quindici anni, non poteva far altro che essere legata a quel “ben pensare”, le buone maniere, la dignità, le chiacchiere su quella o sull’altra famiglia, il sermone del parroco, le gesta di Santa Caterina d’Alessandria che tenne testa ai pagani, erano tutti ingredienti con cui era stata plasmata, e che entravano in combutta con quella che aveva imparato essere la più saggia tra le virtù di una donna: la rassegnazione. Si fece forza; era vestita con abiti sgargianti, Catherine, e di Santa Caterina aveva ormai solamente il nome,  ma in qualche modo, una parte di lei era rimasta davanti al tornio, seduta, a sagomare la creta; d’altronde nulla avrebbe potuto ricondurla lì, se non una stregoneria che riavvolgesse il tempo o modificasse il fato.
       Trattenne il fiato, e fece uso di tutta la seduzione di cui era capace, la bella Catherine, nel dire qualcosa tipo “Mi piacete più che mai, messere” o “Venite che ve le curo io le disgrazie!”, (nemmeno lei si stava ascoltando) o qualcos’altro di altrettanto banale, intenta più che mai nel recitare per bene il ruolo che la vita aveva tenuto in serbo per lei; ma lui non capì nemmeno una parola, e per tutta risposta tese l’orecchio, corrucciando i baffoni in una smorfia, scusa, cosa hai detto? Intanto erano già accorse da ogni angolo dello stradone, tra spintoni e schivate, le compagne di Catherine, a gruppi di tre o quattro, con il manifesto intento di rubarle la preda (lei non si sconvolse, era una novizia e non poteva pretendere il rispetto delle colleghe più anziane): ma signore voi siete stanco, vi consiglio un po’ di riposo, gradite dare un’occhiata alla mercanzia?, non avete il cuore di lasciare sola una dama, se siete un vero cavaliere! Per mezzo di fruscianti spostamenti strategici, in meno di un istante avevano sfondato lo sbarramento avversario e accerchiato il bersaglio, un turbine di gonne a far rifulgere tutti i colori della scala cromatica, amalgamati insieme come sulla tavolozza di un pittore, e adesso si contendevano battagliere il baffuto (e un po’ perplesso) bottino di guerra. Immancabili, almeno quanto gli arcieri e gli artiglieri, e di importanza di molto superiore ai preti – che comunque avevano una loro utilità, quando si trattava di benedire i moribondi e di santificare le feste – le prostitute erano sempre al seguito degli eserciti, tanto che si poteva quasi attribuire loro la dignità di un vero e proprio reggimento. “Che sia l’unico modo, per una donna, di servire la patria?” pensò Catherine, e ci rifletté su per un po’, mentre si allontanava, sconfitta, dal tumulto di donnette e soldati che si andava formando a fianco del campanile.

      Nel mentre, al centro della stradone, appena di fronte alle porte della città, il transito di persone, animali e carretti si era bruscamente interrotto, e un intricato ingorgo andava allargandosi fino alla piazza, in un crescendo di schiamazzi e nitriti. Catherine fu quasi investita da un grosso asino, che a sua volta era stato istigato da uno sconsiderato vecchietto, tutto impegnato nel tentativo di passare; un paggetto in calzamaglia, di aspetto smilzo, un po’ arruffato per la difficoltosa traversata, stanziava eretto nel mezzo del viale, il naso lentigginoso puntato al cielo, lo sguardo saldo innanzi a sé, e con tutto l’impeto di cui era capace, aveva attirato l’attenzione degli astanti con una serie di fragorosi “Attenti! Attenti!”, inframmezzati da qualche affanno dovuto alla foga e alla trepidazione.
      << Rinforzi, rinforzi vi dico! Fate largo all’esercito che ci è stato inviato dal Delfino di Francia! >> annunciava a gran voce, e le parole gli vibravano di una passione fuori misura, effusa com’era da quell’esile corpo: << E’ la Vergine di Lorena a guidarlo! >>
      Subito un clamore generale si levò dalla folla, lungo la strada principale, per le vie traverse, fino alla piazza, al campanile e più in alto, un grido d’esultanza che squarciò le mura della città, e proruppe tra le abitazioni di legno dei servi della gleba, i terreni a pascolo, i campi di battaglia, quasi che tutta la Loira acclamasse l’arrivo della Vergine di Lorena. Ella si chiamava Jeanne: si diceva di lei che fosse mandata da Dio, che avesse recapitato un messaggio divino direttamente nelle orecchie del Delfino, a Chinon, e per di più l’avesse miracolosamente riconosciuto di fronte a tutta la corte, lei, che non poteva averlo mai visto prima, dopo che egli si era spogliato dei propri abiti regali, ceduti per precauzione ad un sostituto. Pareva che l’incarico affidatole dal Signore dei Cieli fosse la liberazione d’Orlèans, necessaria ad aprire un varco tra le file nemiche verso Reims, luogo in cui Carlo, prescelto da Dio come unico, legittimo, re di Francia, sarebbe stato incoronato con tanto di sacro rito. Queste erano in breve le informazioni di cui Catherine era in possesso, sentite e risentite sulla bocca di tutti da almeno due settimane a quella parte; ma noi vogliamo dire qualcosa di più.

       Jeanne d’Arc - questo il nome completo della giovane - proveniva da un paesino sperduto nel sud della Lorena, Domrémy, dove, di norma, la migliore aspettativa che la vita potesse offrire era quella di un buon raccolto. Suo padre, Jacques, era un agricoltore  molto rispettato, e possedeva persino un discreto quantitativo di terre, alla gestione delle quali prendeva parte anche Jeanne, da tutti riconosciuta come una ragazzina molto volenterosa, sempre disponibile quando si trattava di arare i campi o portare a pascolo il bestiame, e ben educata (senza contare che poteva sfidare qualunque donna da lì a Neufchâteau nel cucito e nella filatura!). Non imprecava mai, salvo esclamare di tanto in tanto “sanse faute!”, e la parola che ripeteva più spesso era senza dubbio “volentieri”, ribadita con un mezzo sorriso in risposta ad ogni favore che le veniva chiesto. La chiamavano Jehannette, in paese: molto devota al Signore e alla Vergine, e incredibilmente caritatevole, si recava  alla chiesa parrocchiale di Greux almeno una volta al giorno, e ancora più spesso si faceva confessare, scatenando gli elogi del parroco e dei compaesani più fidi; le risa e le canzonature dei coetanei. Era silenziosa, Jehannette, ostinata ed eccentrica, e all’età di tredici anni, quando le si palesarono per la prima volta quelle “voci” che avrebbero caratterizzato così a fondo la sua vita, aveva smesso già da tempo di giocare con le altre bambine intorno all’albero delle Dame, costruire ghirlande, cantare e danzare; l’unica amica a cui rimaneva fedele era sua sorella maggiore, seconda di altri tre fratelli, la quale era gentile e amabile assai più di Jeanne, e le era toccato in sorte un nome che a noi suona ormai molto familiare: Catherine. Le due erano inseparabili: nonostante fosse sposata e dovesse quindi occuparsi delle faccende domestiche e della cura dell’orto del marito, Catherine trovava sempre un po’ di tempo per accompagnare la sorella a messa, aiutarla nei suoi doveri quotidiani, ascoltare i suoi sproloqui (con lei sì, che parlava, Jeanne!) riguardo a quello che le aveva fatto venire in mente il passo del vangelo ascoltato quel giorno; sulle nuove di guerra che aveva riportato il cugino Laxart, venuto da Burey; della decisione presa davanti a Dio di fare voto di castità e di rifiutare qualsiasi matrimonio; e molte, molte altre cose, dette con la convinzione accigliata e la sorridente esaltazione tipiche della piccola Jeanne. Ma delle voci, delle parole che le rimbombavano in testa fino a farle perdere l’equilibrio, delle visioni di colori e figure in movimento, cangianti, surreali, spaventose e stranianti che l’avevano sorpresa già più volte, di quelle, Jeanne, non le parlò mai, e Catherine morì di parto, nell’autunno del 1428, senza conoscere dell’amata sorella, quello che ella ritenne essere l’aspetto più importante della sua vita, la verità più profonda della sua persona.
       Fu allora che Jeanne, rigida in volto, ferma in una convinzione incontrastabile, che pareva possederla con la forza di cui solo uno Spirito - un demone forse, o magari, chissà, un angelo – era capace, sulla strada che si allontanava da Domrèmy in direzione di Vaucouleurs, salutò i compaesani e la famiglia, che nulla avevano potuto contro quell’audacia, orgoglio e impeto così poco appropriati ad un ragazza, per andare ad incontrare il Delfino di Francia, recapitargli il messaggio che Dio aveva custodito in lei per tutti quegli anni, e scacciare l’invasore inglese e il traditore borgognone da quelle terre sante, perché questo – ne era certa - era il volere dell’Altissimo. “Adieu!”, aveva detto, e per un momento l’emozione l’aveva vinta, di fronte a quel doppio senso: tutto in lei infatti le gridava assordante, che fosse con Dio e verso Dio che si stava muovendo.

        Aveva la stessa età della nostra Catherine, diciassette anni appena, quando, ottenuto – è proprio il caso di dirlo, miracolosamente! - il favore della corte e con esso la possibilità di guidare una vera e propria armata con tanto di armatura completa, spada a doppio filo, e stendardo dipinto, dopo aver imparato a cavalcare e a giostrare come un cavaliere, la Pulzella faceva la sua entrata trionfale a Blois, tra gli applausi e le esultanze della folla.
      Centinaia di mani, come tante spighe di grano puntate al Sole, per meglio farsi irradiare dai suoi raggi vivificanti, erano tese verso di lei, e la gente spingeva e si accalcava al corteo di corazze, pennacchi e drappi, nella speranza di toccare la Vergine (o almeno il suo cavallo), di sfiorarle il gambale, di lambire, per un istante, l’estremità del suo stendardo, e grida di giubilo si levavano da destra “la Vergine, la Vergine!” e da sinistra acclamavano, con gran trasporto “la Pulzella!”; Catherine  era troppo lontana per poter competere in tali intenti, e si accontentava, sospinta com’era di qua e di là, dei lunghi attimi in cui riusciva a scorgerla, sul suo bianco destriero (e questo è un particolare d’obbligo nei confronti dell’iconografia classica), mentre, un po’ esitante, ella cercava di mantenere il controllo sulla bestia, spazientita dalla calca e dal baccano.
       Di statura era piccola, Jeanne: il purosangue che cavalcava pareva sproporzionato per lei, e l’effetto visivo che risultava dalla buffa accoppiata era ancora più surreale della già estranea immagine di una ragazza, in armatura, a cavallo; aveva i capelli tagliati corti, secondo la moda maschile dell’epoca, e il colore castano ricordava quello della sabbia bagnata, un tono spento, nonostante l’intensa luce di mezzogiorno; il volto, minuto, quasi scavato, ma fiero nei suoi lineamenti diritti, gli zigomi chiari, il naso appuntito, le labbra socchiuse, come quelle di una bambina assorta nella contemplazione dei gesti della madre, sembrava fatto apposta perché risaltasse lo sguardo, impegnato, dinamico, che seguiva attento i movimenti della folla, poi si spostava repentino sul cavallo, ad un suo fremito, e di nuovo sulla folla, perché qualcuno aveva urlato più forte. Portava al fianco una spada (anche quella si sarebbe detta fuori misura!), dal robusto fodero in cuoio, e in mano stringeva saldo lo stendardo, bianco, lungo almeno due volte lei e altrettanto largo, dove, su uno sfondo di gigli, vi era dipinto il mondo affiancato da due angeli, e una scritta che né Catherine, né la stessa Jeanne, erano in grado di distinguere (spiccava però, a chiare lettere, il nome “JESUS”, riconosciuto da entrambe). Tutti i presenti avvertivano la figura di Jeanne ammantata di venerazione e timore, quasi fosse un’apparizione celeste, come appartenesse ad un’altra dimensione, un altro tempo – magari un futuro già predisposto da Dio, nel quale le donne cavalchino alla testa degli eserciti e sappiano tirare di scherma! - e non sarebbero stati in grado di dire se fosse bella, o ordinaria, se quieta, o turbata, mentre venivano accumunati l’uno all’altro da una sbalordita astensione di giudizio, com’è consono davanti a un miracolo. Catherine, invece, che naturalmente provava una forte meraviglia e una sincera ammirazione per quella giovane, nondimeno vide in lei qualcosa di potentemente umano, di estremamente terreno, privato, si potrebbe dire, forse per via del modo in cui si guardava intorno, un discreto distacco, che pareva a tratti lasciare spazio ad una timida preoccupazione; magari perché le era vicina per età, e nel suo aspetto trovava facilmente un indizio di familiarità, il ritratto di una possibile amica, di una sorella; oppure semplicemente a causa di quel disincanto che Catherine – ahi, quante ne aveva passate! Ma è doveroso puntualizzare che anche seduta, al caldo, nella bottega di Bernard, aveva vissuto l’esistenza con un certo, scettico, realismo, un punto di vista orizzontale sulle cose, e le tazzine di ceramica, neanche quelle, le sembravano meritevoli dell’importanza che veniva loro attribuita – per via di quella disillusione che le stagliava alla vista il lato concreto della vita, l’utile, il probabile, l’onestà, la tolleranza. Sta di fatto che in Catherine scaturì, travolgente, una riflessione che non riguardava la potenza di Dio (della quale, d’altronde, è difficile stupirsi) presente in quella ragazza, ma, piuttosto, l’incredibile prestanza, carisma, convinzione di cui ella s’era forgiata, scalando la vita come fosse una parete rocciosa, e giungendo con tutto l’impeto della Loira in piena, fino al Delfino di Francia, fino a stravolgere completamente la sua vicenda personale, la sua condizione, e il suo sguardo era rivolto molto, molto più in alto, lì dove si decidono le sorti della Storia.
      << E’ veramente con Dio che si muove >> pensò Catherine, o forse l’aveva pronunciato, quel pensiero, tanta era la prepotenza con cui le si era stanziato in mente. Jeanne, che era una donna, senza dubbio prima di essere la Vergine, agiva con tutto l’irresistibile fervore di una divinità, tanto grande era la credenza, la certezza, di cui la sua persona, così umana, era stata capace, quasi avesse preso Dio al laccio, e l’avesse condotto prepotentemente nell’immanenza del corso degli eventi.
      Il corteo s’era allungato per l’intera città, il tumulto di gente, spinta dopo spinta, premeva ormai sulla piazza, e Blois era tappata come una bottiglia. Catherine, poteva vedere ancora, in lontananza, lo stendardo di Jeanne, bianchissimo concorso di tutta la luce di mezzogiorno, sventolare e flettersi, mentre lei scendeva da cavallo.

 

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Scritta per un concorso letterario a tematica storica, pensata per essere un racconto breve di una quindicina di pagine, la storia si fermava qui (con un finale un po' diverso). Ora vorrei invece continuarla, dato che il finale che avevo scelto, a detta di molti, lasciava un senso di incompiutezza troppo forte. Se dovesse riscuotere un qualche apprezzamento dai lettori di EFP, la continuerei con maggiore entusiasmo!
Mi scuso per gli errori storici e gli anacronismi che potrebbero essermi sfuggiti - nonostante l'affannosa documentazione! - e anzi, pregherei il lettore che si accorgesse di qualche svista di farmela presente.
Grazie per averla letta! ^_^

Giulia Del Vecchio

   
 
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