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Autore: giulina    04/10/2012    2 recensioni
Leo tirò in aria l'ennesimo biscotto e lo fece finire direttamente nella bocca aperta, sorridendo alla ragazza che continuava a girare lo zucchero nel suo tè ormai freddo. Non resistette più e gli sorrise apertamente. Con quel ragazzo era tutto un mostrare sorrisi storti e denti bianchi, un ridere fino a sentire male allo stomaco.
- Mi piace. -
- Il mio riuscire a centrare la bocca con il biscotto? Lo sai che riesco a mangiarmi anche l'unghia del pollice mentre sono al telefono? -
Agata rise di nuovo e Leo le si avvicinò, toccandole delicatamente con l'indice la fossetta appena accennata sulla guancia sinistra.
- Mi sono innamorato. -
- Di me? -
- Macchè, parlavo di quella fossetta lì. Sì, proprio quella lì. Non è che la puoi regalare? -
Agata continuò a sorridere mentre Leo le percorreva con il dito la pelle del viso e la guardava con quegli occhi dalle ciglia lunghissime, che le facevano sentire la necessità di abbassare lo sguardo. Non meritava che qualcuno la guardasse con quegli occhi.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Quando scadrà l'affitto 
di questo corpo idiota 
allora avrò il mio premio 
come una buona nota. 

 
-Cantico dei drogati, Fabrizio De Andrè-








Agata aveva fumato la sua prima sigaretta, offertale da un'amica di scuola, a dodici anni.
Troppo presto perché le labbra screpolate di una ragazzina conoscessero il sapore del fumo.
Era successo nel campo di pallacanestro dietro la scuola, quello delimitato da delle linee tracciate con dei gessetti rossi e il muro coperto da frasi di canzoni italiane, scritte con degli Uniposca dai colori fluorescenti; Viola fumava già da qualche settimana, quando convinse Agata a fare quel tiro, sedute sulla panchina di legno al limitare del campo da cui ogni tanto seguivano i compagni di classe che giocavano.
Si ricorda che aveva le dita che tremavano appena e le unghie smaltate con uno smalto lucido. Con il primo tiro aspirò quasi mezza sigaretta ma si costrinse a non tossire, nonostante la sua gola stesse andando a fuoco e quel sapore amaro non fosse così irresistibile come molti dicevano.
Dopo quel tiro, ce ne furono altri, con persone diverse, in luoghi differenti fino ad arrivare al primo pacchetto di Winston blu comprate al tabacchino sotto casa all'età di tredici anni. Troppo piccola, ancora troppo bambina nonostante il seno sviluppato che si intravedeva sotto il maglioncino rosso e gli occhi che esprimevano una maturità che forse ancora non aveva.
La prima canna rollata da un amico di un amico a quindici anni, fumata di nascosto nel bagno della discoteca in cui era andata per la prima volta con sua cugina. Quanto rise, quella sera.
Da quel momento in poi, l'esagerazione prese il sopravvento sulla vita di Agata. Smise anche di ridere.





Leo la ritrovò un venerdì sera -qualche settimana dopo il loro appuntamento- sdraiata sul prato, umido per la neve sciolta, di un parco che lui non aveva mai visto prima. Saranno state le due o le tre di notte e il freddo congelava le ossa sotto i piumoni pesanti chiusi fino alla bocca da cui spiravano nuvole dense di aria gelata che si disperdeva lentamente davanti agli occhi. Lei indossava un paio di calze di lana nere e un giacchetto di jeans a maniche lunghe che le scopriva il polso destro coperto da braccialetti; aveva la treccia sfatta da una parte e il trucco nero sotto gli occhi che era colato fino alle labbra prive di rossetto.
Si ricorda questo, Leo, di quella sera.
Si ricorda anche di averla chiamata parecchie volte prima che lei aprisse gli occhi e focalizzasse la sua figura. Quando lo vide, si mise a ridere; rimase sdraiata sulla terra fredda e alzò le braccia verso il cielo nero come i suoi occhi in quel momento.
- Il cielo stellato sopra di me, la morale che è in me. -
- Sei talmente ubriaca da citare Kant? -
Agata sorrise e si appoggiò sulle ginocchia sporcando le calze di fango, per cercare di alzarsi in piedi.
- Che ci fai qui? -
- Sono appena uscito dal cinema. -
- Alle quattro di notte? - Agata non seppe trattenere il suo stupore e scoppiò a ridere traballando sulle gambe che sembravano fini come degli stuzzicadenti. Si sarebbero potute rompere da un momento all'latro.
- Sono le tre e il cinema Parioli non chiude mai. Stanotte davano Il Padrino, non potevo perdermelo! -
Agata si resse in piedi appoggiandosi con una mano alla sua spalla; si affidò completamente a lui, nonostante l'avesse colta per l'ennesima volta in un suo momento debole.
- Un giorno mi ci porterai? - I suoi occhi erano rossi come se avesse appena pianto mille lacrime che però non avevano lasciato altra traccia su di lei. Erano di un marrone chiaro.
Prima che potesse risponderle Agata si era inginocchiata e aveva iniziato a vomitare sulle sue infradito nere.
La risata di Leo era talmente contagiosa che se avesse potuto, avrebbe riso anche lei insieme a lui.





Leo se ne era andato di casa da qualche minuto, quando Agata si accese una sigaretta, la prima della serata.
Era ancora seduta sul divano dove l'aveva lasciata, con quel senso di rabbia che albergava ancora dentro di sé e negli occhi il terrore puro di quando l'aveva visto sbattersi la porta alle spalle, come avrebbe dovuto fare anche molte altre volte prima. Andò a spegnere la sigaretta fumata nemmeno per metà nel posacenere fuori sul terrazzo e si appoggiò alla balaustra di ferro a cui era attaccato un vaso contenente due piantine di quadrifoglio; glieli aveva regalati una cliente di fiducia che andava ogni giorno alla Conad, dopo essere stata due settimane in Irlanda.
Leo fu talmente entusiasta di quei sei semi quasi invisibili che era corso a una libreria nel Corso principale a comprare un libro sul giardinaggio e uno sulla storia dell'Irlanda. La sera stessa, ne aveva già piantati due in un vaso di terracotta rubato dal terrazzo di Aldo, e aveva passato la notte sulla sedia a dondolo con una coperta di lana, osservando senza sosta quel piccolo vaso, sperando in un minimo cambiamento che non sarebbe avvenuto.
Bastava poco per far felice Leo.
Agata rientrò nel soggiorno e corse fuori sul pianerottolo buio del palazzo, salendo a passi svelti le scale e arrivando davanti al portone dell'appartamento di Aldo dove quella sera era stata organizzata la cena del giovedì. Capitava spesso, che il giovedì
si riunissero tutti in una casa per mangiare e bere insieme, passare qualche ora in compagnia tra di loro, ridendo di tanto in tanto con il brusio della televisione datata 1999, che trasmetteva una fiction italiana e l'odore delle sue sigarette che intossicava l'aria.
Bogdana le aprì e le sorrise gentile, appoggiandole una mano al centro della schiena per sospingerla nell'ingresso riscaldato.
La ragazza entrò silenziosamente in cucina e si mise lentamente a sedere a capotavola, sulla sedia di paglia che le irritava le gambe coperte da un paio di calze sottili: davanti a lei c'era già un piatto di lasagne fumanti con poca besciamella, come piacevano a lei. Il bicchiere era stato riempito fino all'orlo di un vino di buona qualità, da Aldo, seduto alla sua destra, che le sorrideva con affetto. Guardando quel sorriso sincero, ad Agata le si chiuse la gola in una morsa secca. Si sentì improvvisamente a disagio, come se gli occhi di tutti i presenti fossero puntati su di lei cercando di ritrovare le tracce delle lacrime che avrebbe dovuto versare seduta sul pavimento del bagno.
Agata invece non aveva pianto ma, in quel momento, avevo un disperato bisogno di sfogarsi attraverso gocce di acqua salata. Si sentiva sopraffare da esse.
- Tesoro, tu volere patate arrosto o patate fritte? - Bogdana le parlava voltata di spalle, mentre cercava dentro ad un cassetto qualcosa per togliere la teglia rovente dal forno ancora acceso. I suoi capelli erano più rossi di quella mattina, quando l'aveva incontrata alla Conad seduta alla cassa numero tre che litigava con una cliente.
- Arrosto, grazie. - Rispose con un filo di voce, sistemandosi il tovagliolo di carta rosa sopra le gambe che tremavano leggermente.
All'altra estremità del tavolo, Davide e Manik parlavano del viaggio in Spagna che progettavano da mesi, ormai. Un'idea nata per caso nella mente di uno che era stata confessata quasi con timore all'altro, magari seduti nel balcone mentre si passavano una birra ghiacciata e le loro mani rimanevano a sfiorarsi impercettibilmente.
- Io direi di passare da Cadice. Quella è una tappa fondamentale. -
- Ma se andiamo a Cadice allora non possiamo andare a Barcellona. Il viaggio verrebbe a costare troppo. -
- Barcellona bella, bellissima. Io essere stata in 1992 con scuola russa. Un caldo che sudavo come maiale in forno! -
- Ha ragione la straniera, Malaga è bella davvero! -
- Parlavano di Barcellona, Aldo. -
- Davvero? -
- Sì, non ascolti mai. -
- Non è vero, Costanza! Io ascolto sempre, mi ero distratto un attimo! Comunque, avete saputo cosa è successo a Giancarlo? -
- Giancarlo chi? Turco che abita in appartamento sotto appartamento mio e tromba giorno e sera? -
- No, Giancarlo del pianterreno! Ma il turco tromba? Non è gay? -
- Perché, secondo te Aldo, noi omosessuali non facciamo l'amore? -
- Chi volere patate arrosto? Buone, buonissime! -
Manik, Agata e Costanza alzarono il loro piatto di plastica in direzione di Bogdana che, canticchiando a bassa voce, li riempì poco alla volta, scegliendo accuratamente la patate venute bene da quelle troppo bruciate.
Davide intanto, stava litigando a bassa voce con Aldo, quasi imbarazzato dalla domanda di poco prima.
Leo non aveva mai parlato da quando era arrivata Agata. Se ne stava seduto a capotavola con le mani incrociate sotto al mento e osservava il suo piatto vuoto e la forchetta sporca di pomodoro. Lui, dalla battuta sempre pronta, con le parole che fuoriuscivano dalle sue labbra senza freni, se ne stava in silenzio, respirando piano. Cercava anche di non guardare nella direzione della ragazza. La sua sola vista, lo faceva innervosire.
Il loro era stato un litigio come un altro, ma le sue parole, quella sera, erano pregne di un veleno che Leo non le aveva mai sentito pronunciare.
Era un veleno che gli era entrato sin dentro le ossa, che lo paralizzava, che lo aveva distrutto. La sua allegria quella sera era scomparsa, era stata cacciata via da sé a forza. Il suo sorriso era stato cancellato.
- Bogdana, hai mai pensato di frequentare un corso di cucina? Queste melanzane alla parmigiana sono ottime! -
- Grazie, coniglietto. Tu essere troppo buono con me. A me fanno cagare corsi, troppo noiosi. Preferire imparare a fare extension! -
- Quindi vorresti fare la parrucchiera? -
- Sì, io avere diploma di centro estetico in Russia. Qui non valere un cazzo. -
- Bogdana, il linguaggio..-
- Scusa, Alduccio. Comunque, chi sapere riparare lavatrice di voi uomini? -
- Non chiedere a Leo, sarebbe inutile. -
Tutti erano rimasti in silenzio, dopo la frase sussurrata a bassa voce da Agata, che giocava con delle molliche di pane sulla tovaglia a quadri blu.
Leo aveva alzato gli occhi chiari verso di lei, guardandola per la prima volta con un fastidio tale che sembrava impossibile che quelli fossero i suoi occhi e che stessero guardando proprio lei, Agata.
Sorprendentemente, il ragazzo sorrise a mezza bocca e si stirò la schiena allungandosi leggermente all'indietro sullo schiena della sua sedia di legno. Di sottofondo, proveniente da una finestra del quarto piano, c'erano le urla di alcuni bambini.
- Ha ragione. Non so riparare una lavatrice. Anzi, non so nemmeno come si faccia una lavatrice. Ah, e non so nemmeno come si utilizza un tritatutto. Quando ho tentato di sturare il lavandino in bagno ho allegata tre stanze e mi scordo sempre di pagare la bolletta del telefono. -
- E di’ loro come spendi i tuoi soldi, in cazzate, come nel tuo conto in banca non ci sia un centesimo. -
- Sì, sono un uomo di merda. Ma preferisco spendere i miei soldi in cazzate, che in una dose per una pista di cocaina. -
L'aria si era fatta irrespirabile. Dov'era andato il profumo delle lasagne bruciate ai bordi, dello shampoo di Bogdana, delle mentine di Aldo e del maglione di lana di Giovanni che aveva tirato fuori quel pomeriggio dall'armadio?
Dove s'era andata l'aria di spensieratezza che si poteva leggere negli sguardi di quegli amici di vecchia data senza nessun segreto o parole cattive sotto alla lingua?
Agata appoggiò le mani sulla tavola traballante e si alzò in piedi, lo sguardo sempre puntato in quello di Leo che la guardava improvvisamente consapevole di quello che aveva detto.
Era uscita a testa bassa dalla stanza, quasi inciampando sulle stringhe consunte delle sue scarpe di tela comprate in saldo, appoggiandosi con tutto il suo peso alla porta che non si voleva aprire, per colpa di quella maniglia difettosa. Sentiva qualche lacrima bagnarle le labbra e confondersi con la sua saliva, mentre usciva respirando affannosamente sul pianerottolo e poi giù per le scale buie, al freddo che rendeva gli scalini scivolosi.
Corse fuori dal palazzo senza capotto né sciarpa di lana, non sentendo né freddo né caldo, come se dopo quelle parole non sentisse più niente.
Era stata scoperta. Scoperta davanti a tutti. Lui, proprio lui tra tutti.
Camminava sul marciapiede ghiacciato, passandosi senza sosta le mani fredde sopra la maglia a manica lunga, con le labbra che tremavano e il pensiero di non riuscire più a tornare tra quelle mura.
Sentì dei passi veloci dietro di sé e le lacrime le offuscarono completamente la vista, facendola quasi cadere su uno scalino che non aveva visto.
- Va’ via! - Aveva urlato con tutta la voce che aveva nel corpo. Conosceva quei passi, quella mano calda sopra la sua spalla e quel profumo che si portava dietro ogni volta che si muoveva. Quel profumo che aveva sentito la prima volta che si erano visti e che non se n'era più andato dalla sua pelle, quasi fosse diventato un po' anche il suo, di profumo.
- Mi dispiace. -
- No! Non ti deve dispiace! No! Hai ragione te! -
- Agata.. -
- Sono una drogata! Una drogata del cazzo! -
Quella parola si infranse nell'aria tra loro due, con quella consapevolezza che entrava nella pelle come l'inchiostro di un tatuaggio fatto di nascosto.
Lo sapeva lui, lo sapeva lei. Lo sapevano tutti, probabilmente.
Leo rimase in silenzio, guardandola piangere, disperarsi con le braccia aperte all'aria della notte, guardando il cielo acquoso che sembrava sformarsi e cadere sotto i suoi occhi.
- Perché stai facendo così?-
- Perché sono una drogata! Una drogata senza niente. -
- Io, sono qualcuno. -
- Ti faccio solo pena e ora farò pena anche a loro, a tutti loro! Come hai potuto?! -
- Mi dispiace.. -
- Non basta! Voglio andare via, via, via. -
Leo cercò di avvicinarsi a lei, prendendola per i gomiti e facendo in modo di incontrare i suoi occhi.
- Torniamo a casa. -
- No, non ce la faccio a vedere i loro sguardi. Non ce la faccio! Sei un bastardo! Proprio tu.. -
Leo la prese tra le braccia strappandole l'abbraccio che quella sera, quando l'aveva vista, non le aveva voluto dare. Un abbraccio disperato di unghie che si conficcavano nella pelle lasciando segni rossi come punture.
- Sono una drogata...- Sembrava rendersi conto solo in quel momento, di quello che era diventata con il tempo. Gli occhi erano spalancati e i denti tremavano per il freddo e per la paura.
- Non ti lascio, non ti lascio. - Le ripeteva a bassa voce Leo nell'orecchio, sentendosi quasi stupido a doverglielo dire. Lui non poteva lasciarla. Sarebbe stato davvero il niente, senza di lei.


Agata invece lo lasciò andare, divincolandosi dalle sue braccia e correndo verso la sua macchina, che aveva lasciato sotto casa.
Se ne andò, mentre lui sentiva ancora il peso di lei addosso a sé, insieme alle sue paure e a quella verità che l'aveva sconvolta.
Quella sera, Agata non tornò da Leo, non tornò nemmeno a casa.
Forse vagò a piedi per le strade con le mani gelate in tasca oppure guidò tra le campagne rese invisibili dalla nebbia fino al mattino, con una canzone inglese che veniva dall'autoradio e le lacrime che bagnavano il volante freddo.
Leo rimase sveglio fino all'alba, seduto sulla sedia a dondolo sul terrazzo a respirare l'aria impregnata delle tracce del suo profumo.





 

 

 

   
 
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