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Autore: Vegeta_Sutcliffe    06/10/2012    6 recensioni
Note: La storia partecipa al Capsule - Contest di Jackson Mozart Lecter.
Il suo papà era un uomo forte che odiava i gesti sdolcinati, le diceva la mamma, ma per lei li sopportava.
Il suo papà era un uomo forte e timido che voleva bene, ma non lo sapeva dimostrare, le diceva la mamma, ma una volta le aveva medicato il ginocchio sbucciato, quando lei era caduta dall’altalena.
Aveva sempre creduto che suo padre l’amasse, a modo suo, ma l’amasse. E invece non era vero.
Gli era indifferente e mentiva ogni qualvolta dimostrava il contrario.
Lei amava suo padre, ma quel giorno l’aveva odiato tanto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bra, Bulma, Trunks, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Nome Autore Vegeta_Sutciffe

Titolo Contest Capsule – Contest di Jackson Mozart Lecter 

Pacchetto scelto Pacchetto  Fiocco / Pacchetto Nero

Personaggi Bra, Bulma, Trunks, Vegeta

Genere Romantico, Slice of Life

Luogo Stanza di Trunks

Oggetto Scrivania

Titolo della storia Di paure e di incertezze.             

Durata One Shot
Note  La storia partecipa al Capsule - Contest di Jackson Mozart Lecter

       
 



Era davvero una bellissima bambina.
Se ne compiaceva ogniqualvolta che, vanitosa, guardandosi allo specchio, vedeva i suoi occhi, grandi e luminosi, spiccare in un paffuto viso dalla bellezza puerile della purezza e della semplicità.
Era davvero una bellissima bambina.
Tutti glielo dicevano: i suoi nonni, la sua mamma e tutti i suoi amici. Glielo diceva addirittura suo fratello Trunks, sempre timido e restio a fare complimenti.
Era davvero una bellissima bambina, ma se lui avesse osservato il riflesso della realtà sulla superficie lucida dello specchio, non avrebbe di certo prestato attenzione a lei.
Era davvero una bellissima bambina, ma non era bella.
“Mamma, sono brutta?”  Domandò asciutta, giocherellando con le pieghe della gonnellina rosa a pois bianchi che indossava.
Quando aveva visto quel completino in vetrina, ne era rimasta affascinata: le piacevano quei giocosi pallini bianchi sulla stoffa rosa, le piacevano quelle pieghe sbarazzine.
Aveva tanto pregato la genitrice affinché glielo comprasse, non lasciandosi vincere neanche dai suoi convinti rifiuti. Tanto l’aveva supplicata, tanto aveva urlato, tanto aveva fatto i capricci che, in fine, la donna, esasperata dal suo comportamento, l’aveva accontentata.
Quando aveva visto quel completino in vetrina, le era piaciuto, indifferente al parere degli altri.
Ogni sera, dopo cena, era solita spazzolarle i capelli. Era un’abitudine semplice, famigliare, quotidiana, ma non avrebbe saputo mai rinunciarci.
Stava tutta la giornata chiusa nei laboratori delle Capsule e, tra complicati calcoli al computer e improbabili fantasie da dover far diventare verità, si inserivano pensieri inopportuni. Troppo spesso si rimproverava di essere una mamma assente e, nella migliore ipotesi, sfuggente.
Ogni sera, dopo cena, era solita spazzolarle i capelli. Era un’abitudine semplice, famigliare, quotidiana, unica. Solo quando passava del tempo con sua figlia si sentiva veramente una donna contenta e completa.
Quei capelli azzurri che scorrevano lisci e veloci tra i denti del pettine, quei vivaci occhi turchesi, quella faccina spensierata e curiosa, di una curiosità che già denotava una intelligenza e sagacia non comune, quel sorriso spontaneo e sincero le ricordavano la sua infanzia, quando non c’erano impegni e i problemi venivano risolti dall’abbraccio della mamma.
Le invidiava tanto quell’allegria e il buon umore e vederle quel broncio corrucciato, imbruttirgli la faccia, le faceva stringere il cuore in una morsa di tenerezza e preoccupazione.
“Ovvio che no! Sei mia figlia dopotutto. ” Le schiacciò l’occhiolino, condendo quelle arrogantemente confortanti parole di una vanità e alterigia fastidiose per la bambina.
La rabbia le inasprì il viso e le umettò gli occhi. Si liberò dalle  sue carezze e si alzò dalla sedia, correndo veloce verso la sua stanza, sorda ai richiami e alla preoccupazione della madre.
“Bra? Bra, dove vai?”
La reazione della figlia l’aveva costretta a un immobile sconvolgimento. Non sapeva cosa pensare né come agire. Quella situazione l’aveva sorpresa persa nei pensieri, lei che era sempre così pratica.
“Ti odio. Vi odio. Te e papà!”
Aveva sentito la porta della stanza chiudersi violentemente, celando a orecchie altrui i suoi pianti.
Lei era Bulma Briefs, una delle donne più importanti e rispettate dell’intero pianeta, nessuno avrebbe mai creduto che si sarebbe potuta trovare impotente di fronte al pianto di una bambina di cinque anni. Ma Bra non era una bambina, Bra era la sua bambina e la sua felicità era un fine troppo alto per poter lasciare al caso la situazione.
Quelle parole l’avevano colpita, l’avevano stupita, l’avevano uccisa dentro.
Sospirò distrutta.  Il peso della stanchezza stava pesando sulle sua spalle e sulle sue palpebre.
Un sonoro sbadigliò le rubò l’immagine di donna sofisticata e curata. Desiderava solo chiudere gli occhi, calando il sipario su quella giornata disastrosa, e svegliarsi il giorno dopo, serena e dimentica degli avvenimenti che l’avevano portata ad impazzire silenziosamente. Buttò violentemente il pettine sulla mensola e si diresse con passo trascinato verso la sua stanza.
Le dispiaceva vedere Bra triste, ma in quelle condizioni non avrebbe potuto risollevarle il morale, anzi era probabile che sarebbero cadute assieme nel baratro del pianto.


Si tolse malamente gli abiti e li buttò sul pavimento, calpestandoli nel tentativo di raggiungere il letto.
Lei li odiava. Voleva non averli mai voluti indossare.
Abbracciava forte il cuscino a forma di cuore, nascondendovi la faccia e gli occhi lucidi dalle lacrime.
Pensava alla mamma. Pensava a quanto le volesse bene, a quanto le piacesse giocare alla bambole o vedere i cartoni animati con lei, pensava a quanto adorasse i momenti in cui l’accarezzava e la stringeva al suo confortante petto.
Le era sempre parsa una donna perfetta e solitamente questo l’aveva riempita di soddisfazione, perché Bulma era unica, inimitabile ed era sua, solamente sua, ma ora la vedeva come un nemico insuperabile e imbattibile.
Quando le mamme delle sue compagnette venivano a scuola per parlare con le maestra, vedeva solo un branco di vecchie donne dalla pelle cadente e dal trucco pagliaccesco, che volevano sembrare belle e ancora giovani. Povere illuse, non si accorgevano di rendersi ridicole? Si atteggiavano a grandi donne e pensavano che il mondo guardasse solo loro per ammirarle, ma lei sapeva bene che se il mondo gli prestava attenzione era per deriderle. Solo la sua mamma era così bella da avere gli sguardi di tutti addosso.
Capitava spesso che andavano a passeggiare assieme e ogni volta notava che gli uomini la guardavano incantati, con un’ espressione trasognante e un scintillio negli occhi, difficile da classificare, ma terribilmente famigliare.
Ogni uomo guardava Bulma Briefs, tutti gli uomini guardavano Bulma Briefs, anche suo padre.
Suo padre era… suo padre. Non era ancora riuscita a descriverlo con parole che conoscesse e non era ancora riuscita a capire i suoi eterni controsensi tra le sue azioni e le sue parole, ma quello che sapeva con matematica certezza era che amava suo padre.
Non sapeva cos’era l’amore, ma quando l’aveva chiesto alla nonna, lei gli aveva risposto che l’amore era un sentimento fortissimo che si prova per una persona a cui si vuole così bene, tanto da guardarla e pensarla sempre.
E lei amava suo padre.
Non era solito abbracciarla o rivolgerle gesti d’affetto, ma quando lei aveva bisogno e cercava conforto sul suo petto lui sbuffava insofferente, ma mai la cacciava via.
Il suo papà era un uomo forte che odiava i gesti sdolcinati, le diceva la mamma, ma per lei li sopportava.
Il suo papà era un uomo forte e timido che voleva bene, ma non lo sapeva dimostrare, le diceva la mamma, ma una volta le aveva medicato il ginocchio sbucciato, quando lei era caduta dall’altalena.
Aveva sempre creduto che suo padre l’amasse, a modo suo, ma l’amasse. E invece non era vero.
Gli era indifferente e mentiva ogni qualvolta dimostrava il contrario.
Lei amava suo padre, ma quel giorno l’aveva odiato tanto.
Aveva indossato contenta quel completo, fiera del suo buon gusto nel vestirsi ed era corsa giù per le scale, raggiungendo in cucina Vegeta che stava bevendo del caffè.
Aveva inarcato dubbioso un sopracciglio, vedendola roteare su sé stessa, facendo svolazzare quell’oscena gonnellina rosa.
“Ti piace?” Aveva domandato speranzosa.
Il parere del padre per lei era importante. Lei era la principessina dei sayan, avrebbe dovuto essere vestita adeguatamente al suo titolo.
La squadrò velocemente, ma accuratamente, non facendosi sfuggire il suo abbigliamento. Era sempre più convinto che quella bambina si facesse plagiare da sua madre. Fiocchetti, treccine, vestitini rosa, non potevano essere cose volute da un sayan.
Maniche a sbuffo, una gonna  a palloncino. Tutto rigorosamente rosa. A lui non piaceva il rosa.
Lui odiava il rosa. Maledetto color rosa e maledetta camicia e maledetta Bulma!
“Sembri un maiale.”
Pronunciò la dura sentenza con tono asettico e poi tornò a concentrarsi sul contenuto della sua tazza.
“Bra, amore, siamo in ritardo, sbrigati a fare colazione.”
Poi era scesa sua madre, avvolta in un tailleur nero, gonna e giacca, da cui si intravedeva una camicia bianca con un scollo aperto sul suo seno.
Bevve anche lei un sorso di quella brodaglia marrone e , avvicinatasi a Vegeta, lo baciò sulla bocca.
“Domani è sabato e non devo lavorare.” Gli disse in un tono, la cui accezione non riusciva a capire.
Il suo papà era un uomo forte che odiava i gesti sdolcinati, le diceva la mamma, ma non aveva opposto resistenza a quell’effusione.
Il suo papà era un uomo forte e timido che voleva bene, ma non lo sapeva dimostrare, le diceva la mamma, ma le stava guardando insistentemente il petto, nascosto da quell’indumento trasparente.
“Mi piace questa camicia…”
Quello fu un duro colpo per il suo ego narcisistico.
Il principe aveva sprecato solo tre secondi del suo prezioso tempo per schernirla e poi tornare ad ignorarla, ma per la scienziata non esistevano imbarazzi, non esistevano esitazioni e grugniti insofferenti.
Lei amava il suo papà e la sua mamma e non voleva odiarli.
Ma entrambi non la consideravano più. Si sentiva trasparente e inutile.
La verità era che mai nessuno si era interessato a lei. Tutti erano interessati al fatto che lei fosse la figlia di Bulma e Vegeta.
Lei non era Bra; lei era la figlia della scienziata più geniale del pianeta e del guerriero più forte della galassia.
Sentì la porta d’ingresso chiudersi e dei passi salire le scale. Sicuramente era Trunks che tornava a casa, dopo essere stato a zonzo con Goten.
Trunks era il suo fratellone adorato. L’unico che provava per lei affetto sincero, l’unico che l’avrebbe potuta capire realmente, dopotutto era anche lui nella sua stessa situazione.
Uscì dalla sua stanza e si nascose sotto la scrivania del ragazzo. Avrebbe aspettato che lui entrasse, appendesse la giacca della divisa sullo schienale della sedia e poi sarebbe uscita allo scoperto facendolo spaventare.
Abbassò la maniglia ed entrò. Bra era proprio nascosta bene, se non avesse saputo percepire le aure, sicuramente quella piccola peste gli avrebbe fatto prendere un infarto. Non succedeva di rado, infatti che lei si divertiva a tormentarlo, sapendo di essere la piccola di casa e quindi immune a qualsiasi tipo di rimprovero e punizione.
Accese la luce e si sedette sul letto.
Non riusciva a capacitarsi del perché, ma i suoi genitori sembravano davvero cambiati da quando era nata quella birichina. Suo padre era più rilassato e meno incollerito col mondo e sua madre era più radiosa.
Una palla di pelle che aveva addolcito il fiero principe dei sayan. E chi ci avrebbe mai creduto?
Lui stesso era ancora confuso: non sapeva se stava vivendo un sogno da ormai cinque anni o se i suoi avessero sbattuto la testa.
Ricordava ancora con una viva preoccupazione, quando lui e Goten si cacciavano nei guai e Vegeta si divertiva a torturarli con minacce e ricatti o quando gli nascondeva i giochi.
“Bra, ti ho detto mille volte di non entrare nella mia stanza, senza il mio permesso.”
“Uffa.”
Sbuffò irritata e decise di venire allo scoperto. Il suo piano era stato svelato e non aveva più senso stare accucciata sotto la scrivania.
Si alzò per uscire e sbatté violentemente la testa contro il ripiano di legno sopra di sé.
“Ahi!- si stava tastando il bernoccolo che troneggiava sulla sua testa- Scrivania cattiva!”
Tirò su col naso, stava di nuovo per piangere.
Trunks la prese in braccio e la mise sopra le sue ginocchia.
“Che hai, piccolina?” domando dolce, asciugandole quella lacrima impavida.
“Papà mi ha detto che sembro un maiale.” Cerco di dire fluidamente, ma i singhiozzi glielo impedivano.
No, Vegeta era sempre Vegeta. Poteva cambiare, poteva addolcirsi, poteva smussare certi lati spigolosi del suo carattere, ma rimaneva sempre Vegeta.
Il giovane desiderava ardentemente scoppiare in una fragorosa risata, ma gli occhi lucidi della sorella gli suggerirono che quel gesto avrebbe potuto avere violente ripercussioni.
“Perché te l’ha detto?” Inquisì, fingendo serietà.
“Mi ero messa il vestitino rosa. E io volevo che lui dicesse che io ero bella, ma mi ha detto che ero un maialino.”
Trunks aveva presente il suddetto vestito e concordava col padre, ma non ne condivideva la delicatezza. Bra era pur sempre una bambina.
“A papà non piacciono i vestiti da donna. Lui usa quelli da uomo, quindi gli piacciono solo quelli…”
“Non è vero. Oggi gli piaceva la camicia della mamma. Le guardava sempre qui.”
Ingenuamente la bambina si indicò il petto, facendo imporporare le guancie del fratello e facendolo girare dall’altra parte.
“Trunks, stai male?”
Fortunatamente l’infantile preoccupazione della bambina lo distolse da immagini che non avrebbe mai voluto presenti nella sua mente.
“Sì, sì. Bra, tesoro, mamma è molto vanitosa. Papà è costretto a fare apprezzamenti sul suo vestiario, sennò lei lo lascia digiuno e tu sai che non può stare senza mangiare.”
“Mamma è cattiva.”
“No, piccola, mamma e papà giocano e il loro modo di dimostrarsi che si vogliono bene. Loro sono…”
Avrebbe tanto voluto dire strani, incoerenti, infantili, assurdi, ma per la sua incolumità era meglio dire: “…speciali.”
Bra osservava il pulcino disegnato sul suo pigiama. Sembrava persa più che nei propri pensieri, nelle proprie sensazioni.
“Non mi vogliono bene mamma e papà.”
Certe volte era la bambina più insopportabile del mondo, ma era indescrivibile l’affetto che provava per lei.
Non aveva accolto di buon grado l’arrivo di una sorellina, ma, quando la prima volta la vide sopita tra le braccia della madre, se ne innamorò.
Sorrise dolcemente e spostandosela di dosso si alzò e si diresse verso la sua scrivania.
“Ovvio che ti vogliono bene. Chiediglielo, vedi che ti rispondono.”
Prese una caramella alla fragola, nascosta tra i suoi libri e gliela porse.
“Perché non vai a letto? E’ tardi, ne riparliamo domani.”
“E tu? Mi vuoi bene?” Disse con la bocca piena del dolcetto.
Arrossì violentemente e annuì col capo.
Gli corse incontro e abbracciò la sua gamba muscolosa.
“Anche io, tanto, tanto. Notte.”


Allorché il suo dito premette l’interruttore al muro, vicino la porta, le lampade del moderno e particolare lampadario illuminarono quel locale, mostrando ai suoi occhi pesanti lo spettacolo di un ordine desolante.
Non sembrava vissuta quella stanza. Lei e Vegeta erano come presenze eteree a cui l’esistenza di quel luogo era quasi totalmente indifferente.
Spogliandosi di tutte le sue vesti e dei suoi doveri di presidentessa, rimasta in intimo, si buttò a peso morto su quel morbido materasso in lattice, carezzando la trapunta di cotone con la guancia.
Era morbido e fresco quel tessuto e sapeva di loro. Era una prigione di stoffa, i cui detenuti erano i loro profumi.
Sentiva lo scrosciare dell’acqua della doccia e un fresco odore di felce solleticava le sue narici.
Vegeta era un maniaco dell’igiene. Si faceva la doccia tre volte al giorno e si profumava evidentemente.
Aveva sempre apprezzato la meticolosità con cui curava il suo corpo. Apprezzava che non si lasciasse vincere né dal tempo né dall’età. Non era come lei, sempre con più rughe, sempre meno tonica, sempre più esausta.
Il rumore cessò e dopo poco vide la sagoma dell’uomo, avvicinarsi, nuda al letto.
Senza preamboli si coricò su di lei e leccò le sue labbra con la lingua. Cercò di farle schiudere la bocca, ma lei sembrava decisa a non accontentarlo.
Gli posò una mano sul petto e lo baciò sulla guancia. “Sono stanca, amore.”
Rifiutare sessualmente Vegeta era sempre un’azione pericolosa.
Qualunque fosse la motivazione, a lui non importava. Rifiutando lui, schernivi la sua virilità, non apprezzavi il suo fisico e restavi indifferente alla sua possanza.
E nell’ultimo periodo, sospettava che lo intendesse anche come un insulto alla sua eterna giovinezza.
Per un uomo era un’onta imperdonabile, figuriamoci per il principe dei Sayan.
Stizzito si alzò dal letto e prese un paio di boxer neri dalla cassettiera.
Li indossò e senza degnarla di un altro sguardo si corico dalla sua parte, voltandole le spalle e incrociando le braccia.
Anche se non poteva più avere figli, Vegeta non le avrebbe mai fatto mancare i capricci di quest’ultimi.
Si avvicinò a lui, abbracciandolo da dietro e gli baciò dolcemente la scapola.
“Non fare così.”
“Domani non devi lavorare, puoi dormire di mattina.”
Posò ripetutamente le labbra sullo stesso punto: “Non fare così, dai. Giuro che domani sono tutta tua.”
“Non ti credo più.”
Sorridendo divertita, si alzò su un braccio e lo vide in faccia. Sul suo volto era dipinto lo stesso broncio che aveva visto qualche minuto prima in quello di Bra.
Sua figlia aveva detto di odiarla e ora anche Vegeta. Era davvero una madre e una compagna tanto pessima?
Aveva i nervi a fior di pelle e la testa stava esplodendo, rischiando di travolgere tutto e tutti con pensieri e paranoie. Sarebbe stato un catastrofico evento.
Si ributtò pesantemente sul materasso e si accucciò al bordo del letto, cercando di stare il più possibile lontana dall’uomo.
Un singulto si fece notare nel silenzio della stanza e lui, preoccupato, si girò. Aveva intenso il suo allontanarsi, come l’ennesima dimostrazione della sua nevrosi femminile; come un modo per faro sentire in colpa e farlo acquietare. Ma il pianto gli sembrava uno stratagemma troppo subdolo per vincerlo, soprattutto per lei, pregna d’orgoglio quanto lui.
Sentì il caldo alito del compagno sulla nuca, mentre le sue braccia la cingevano da dietro, costringendola ad appoggiare la schiena sul suo petto.
“Che c’è?” Le sue mani scorrevano delicate sul suo ventre. Non era la prima volta che gli faceva quella domanda. Più volte nel corso degli anni aveva mostrato interesse per i suoi sentimenti, ma quello che più lo stupiva è che erano cambiati i fini per cui lo faceva.
Inizialmente era un metodo come un altro per rabbonirla e invitarla, ingannandola, a fare sesso con lui. Poi si era trasformata in un’esigenza per il sereno vivere: se voleva preservare la sua precaria quiete, doveva evitare di fare esplodere quella stramba donna. Ma da quando era avvenuta tutta la dolorosa faccenda di Majin Buu, glielo domandava con apprensione vera. Avevano trascorso diverse settimane a ignorare i ricordi e a seppellire quelle parole che urgeva dire e alla fine, sebbene il loro intento era giusto e conveniente, quel comportamento aveva portato Bulma in un baratro di insicurezze e false paure, rischiando di essere peggiore di qualsiasi cosa dalla quale erano voluti scappare. E lui si era ritrovato a temere una fine.
Qualche piccola parola, senza sdolcinatezze non l’avrebbe ucciso; non più di quanto non avesse fatto la sua sconsiderata presunta vendetta.
“Bra mi ha detto che mi odia. Faccio schifo come genitore.” Si rigirò tra le sue braccia per guardarlo in volto.
“Sono sempre fuori e lei ha bisogno di me e faccio finta di non capire. Ma se mi odia ha ragione. Perché dovrebbe volere bene a una persona che non c’è mai?”
I suoi occhi erano lucidi e la sua voce tremava, ma non osava sfogarsi piangendo.
“Sarà stata nervosa. Capita di dire cazzate in certi momenti.”
“Perché una bambina di cinque anni dovrebbe essere nervosa? Non ne avrebbe motivo, si dovrebbe preoccupare di giocare con le bambole, disegnare, correre per il giardino. E invece dice di odiarmi perché io… ” Un baciò le rubò la parola.
Si era avvicinato veloce e silenzioso, come soleva un predatore come lui, e le aveva catturato le labbra e aveva messo a tacere titubanze e discorsi illogici.
“E’ una bambina, Bulma. Ieri aveva detto che voleva fare la maestra e oggi voleva fare l’attrice di soap-opera idiote, come quelle che si guarda tua madre.”
“Si ma qualunque cosa dice, nel momento in cui la dice per lei ha valore. Se ha detto di odiarmi, lei mi odia. E non so manco il perché. Sono così inadempiente come madre che l’ho lasciata scappare via in lacrime, senza consolarla o aiutarla.”
Lui alzò il sopracciglio perplesso e dubbioso: “Perché non glielo chiedi, invece di fare la parte della paranoica?” Domandò ovvio e sarcastico.
Gli rispose con un pugno sul petto, ma poi lo abbracciò, affondando il viso tra i suoi pettorali e inebriandosi di quel profumo e di quell’uomo che solo per lei sapeva essere rassicurante. Certe volte credeva che senza di lui non sarebbe più riuscita a stare. Nessuno le era mai stato essenziale, ma Vegeta le pareva necessario.
“Grazie.” Si divincolò dalla sua stretta e, indossando una leggera vestaglietta di tulle rosa, si diresse verso la porta, fermandosi con la maniglia nella mano per voltarsi un'altra volta verso il compagno, terribilmente nervoso e irritato. Era indecisa, doveva dirglielo o no?
“Amore?”
Gli rivolse un’eloquente occhiata di fastidio. “Bra dice di odiare anche te.”
Uscì dalla stanza, sbattendo la porta e lasciandolo sbigottito nel letto. Strane le donne. Passavano dall’amore all’odio in un tempo brevissimo. Che gli stava passando nella testa a quella marmocchia? Non era ancora presto per avere i primi sbalzi d’umore, legati all’adolescenza?
“Bah…”


Entrò senza bussare, trovandola ancora sveglia, nonostante fossero le undici di sera, intenta a disegnare.
Accolse la sua presenza con un' occhiata fredda che celava una contraddizione fastidiosa e insopportabile.
La sua mamma era lì, davanti a lei. Le stava sorridendo, ma perché non voleva che avesse quell’espressione in volto? Non le piaceva il suo sguardo spento e lucido e non le piaceva tutto quello che le aveva detto.
“Ti posso parlare?” mormorò dolcemente, sedendosi sul letto.
Annuì distrattamente, continuando a calcare la matita su quel foglio bianco. Se non l’avesse guardata, non avrebbe pianto.
“Perché mi odi?” Domandò con un sorriso forzato, cercando di capire anche quando avrebbe voluto un abbraccio e non spiegazioni.
“Io non ti odio.” Ammise a bassa voce. Non l’odiava, non avrebbe mai potuto.
“Ma prima hai detto di odiarmi. Perché l’hai detto? Che ho fatto?”
La mamma era una donna forte e si sapeva fare rispettare. Quando litigava con il papà non chiedeva spiegazioni, si arrabbiava semplicemente, urlandogli contro insulti e maledizioni, che la facevano tanto ridere. Solo con lei non si abbandonava all’irascibilità, anzi era sempre paziente e pronta ad ascoltarla.
Lei amava sua mamma in un modo che gli altri non avrebbero potuto capire, perché gli altri non la vedevano come la vedeva lei. Ma ciò non toglieva quanto successo poco prima in bagno. In quel momento l’aveva ferita e, ferendola, si era ritrovata dolorante lei stessa.
“Perché sei stata cattiva. Tu mi hai detto che sono brutta.”
“Ma non è vero. Non l’ho mai pensato, figuriamoci se l’ho detto.” Rispose, esasperata da quell’assurda situazione.
“Tu mi hai detto che ero bella perché sono tua figlia.” Gettò la matita e si voltò a guardarla.
I suo occhi ardevano, ardevano di un fuoco che il bagnato non spegnava, anzi fomentava.
“Tu sei bella. Tutti ti guardano, tutti ti fanno tanti complimenti, anche papà. Perché a te si e a me no? Non mi vuole bene, io lo so.”
Un sorriso voleva abbellirle il volto. Quella scenata di gelosia infantile era così tenera che avrebbe commosso chiunque, ma sua figlia era gelosa di lei. Era davvero una situazione indesiderata e odiosa.
“Oggi papà mi ha detto che sembravo una maialino col vestitino rosa e mi dice sempre che sono una mocciosa. Io mi accorgo di quando ti guarda. Gli piacciono tutti i tuoi vestiti.”
Quella situazione era davvero buffa e paradossale. Era lei a dover essere invidiosa della figlia. Vegeta aveva dimostrato per la bambina un affetto che lei aveva ottenuto dopo anni e anni di dure lotte, sonanti sconfitte e brucianti ferite nell’anima.
“Beata ingenuità, no. Tu sei piccolina, ma mamma e papà si conoscono da tanto tempo e lui non si è sempre comportato così con me.”
“E come si comportava?” La bambina era curiosa e si era seduta sul letto affianco la madre. Voleva sapere tutto di suo padre, se, quando aveva la sua età, era un bimbo tenero o di come aveva conquistato la sua mamma.
“Come si comportava?” Raccontare la verità equivaleva non solo a deludere Bra, ma ad scegliere un dolorosissimo suicidio. Era stato categorico: i suoi figli non dovevano sapere nulla del suo passato, nulla della sua vita prima che nascesse Trunks.
Quando gliel’aveva detto era stata la madre più felice del mondo. Vegeta sapeva comunicare amore, senza bisogno di essere smielato e senza rendersi ridicolo o senza accostarsi a tutti quelli stereotipi terrestri, restrittivi e falsi.
“Lui era molto timido, molto più di adesso. Non mi guardava mai e non gli potevo mai dare baci. Stava sempre solo e molte volte mi trattava male. Non mi ringraziava mai se gli facevo dei favori e diceva sempre che ero una brutta stupida.” Era fiera del suo riassunto censurato dell’inizio della sua relazione con Vegeta.
Aveva raccontato la verità, restando vaga, ma sempre verità era.
“Nel corso degli anni è cambiato, ma, quando sei arrivata tu, lui era così contento che aveva deciso di non comportarsi più male. Tu hai fatto cambiare in meglio tuo padre, però non lo possiamo fare diventare un’altra persona. Quindi anche se qualche volta dice cose poco carine, comprendilo, perchè non è abituato.”
“Allora mi volete bene?”
Le guancie erano bagnate e il suo nasino faticava a trattenere il moccio.
Le accarezzò la testolina azzurra e la prese in bracciò.
“Certo amore mio, sempre e comunque.” Gli riempì di piccoli bacini il collo e la faccia, facendola ridere e sorridere.
“Vuoi venire a dormire nel lettone con mamma e papà?” Le propose entusiasta e radiosa.
“E se papà si arrabbia?” Lei non voleva farlo arrabbiare.
“Lo buttiamo fuori dalla stanza.” Rispose semplicemente, facendola scoppiare in una divertita risata.
Camminava per il corridoio, tenendo tra le braccia la bambina già placidamente addormentata. Vegeta l’avrebbe presa davvero molto male. Odiava avere i propri figli nel letto, si sentiva escluso e costretto da certi perbenismi, che odiava e che nonostante tutto si era autoimposto.
Sì, era proprio diverso.
La porta si aprì, ancora prima che potesse pensare di muovere la mano, e svelò l’immagine del compagno alzato.
Le tolse l’ingombro della bambina, e la poggiò sul suo petto, facendo accomodare la testa sulla sua spalla.
Quell’immagine le sembrava dolcissima. Più lo osservava, più veniva irretita dalle sue iridi ossidiana.
Si alzò sulle punte e lo baciò a fior di labbra.
“Ti amo.” Gliel’aveva sempre detto, ma non aveva mai ricevuto una risposta, almeno non parlata.
Anche quella volta lui non si tradì e la ricambiò solo con un sorriso complice.
In una frazione di secondo vide il principe diventare nuovamente il simulacro di ironia, sbattergli la porta in faccia e chiuderla a chiave.
“Chi è che sbatte fuori dalla stanza chi?” Domandò interessato e vincitore. “Buonanotte, Bulma.”
L’abbandonò sulla soglia e si diresse verso il letto.
“Ti odio, ti odio.” Urlava a squarciagola, ma lui non vi badò più di tanto. Per ora importava solo la sua bambina. La baciò in fronte e la coricò vicino a lui sul letto.
A volte, quando nessuno poteva vederlo e giudicarlo, gli piaceva non essere il principe dei Sayan.
  
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