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Autore: Zero    15/06/2004    3 recensioni
Ho deciso di riprendere in mano questa vecchia raccolta a cui non lavoravo da tempo. Il nuovo capitolo si chiama "Nero". Dal mio punto di vista è una delle cose più nere che mi potessero venire fuori.
Il sottotitolo? "Nulla è"
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il viaggiatore arrancava faticosamente lungo l’erto sentiero che risaliva dal fondo della vallata

Il viaggiatore arrancava faticosamente lungo l’erto sentiero che risaliva dal fondo della vallata. Le tortuose curve di quella minuta traccia, che si stagliava in tutto il suo nitore nel verde selvatico dell’intricato sottobosco, si succedevano una dopo l’altra, in una teoria infinita che sembrava non avere mai fine.

Lo sprovveduto camminatore era partito di buon ora dalla sua comoda dimora, con la baldanza di chi si accinge ad una prova troppo infima per le proprie capacità, quasi un’offesa per la propria grandezza. Osservando i pochi centimetri di linea rossa che congiungevano la sua casa con la meta finale, aveva sorriso divertito: che sarebbero stati mai quei quattro passi per lui che la vita la conosceva, e che di difficoltà ne aveva superate tante? Sarebbero stati, per l’appunto, una passeggiata.

E fu così, quasi per sfizio, che decise di intraprendere quella gita. Per cercare un’ennesima, quanto scontata conferma delle proprie capacità.

Era partito leggero, tanto –pensava- sarebbe stato certamente di ritorno per ora di pranzo.

Dunque, a che pro appesantire il suo fardello con chili di viveri? Nello zainetto aveva messo solo una borraccia e, guardando il sole sfolgorante aveva reputato inutile caricarsi di indumenti più pesanti di una semplice maglietta bianca.

Col cuore leggero come lo zaino che aveva a tracolla, aveva poi chiuso la porta dietro di sé –le chiavi in tasca.

Il silenzio dei prati grondanti di rugiada evaporava nel caldo sole di metà mattina. Non una nuvola macchiava l’azzurro purissimo, che faceva da cornice alla sublime imponenza dei massicci, che scrutavano severi la vallata.

Era il più grande di essi che l’improvvisato escursionista si apprestava a sfidare.

Una montagna nota in tutto il mondo, che faceva bella mostra di sé in più della metà delle cartoline esposte nelle tabaccherie del paese. Fotografata da ogni luogo, da tutte le angolazioni possibili, in ogni mese dell’anno, all’alba e al tramonto, con la neve o con il sole sfolgorante. Quasi a volerne rapire l’essenza, a carpirne il segreto nascosto, quell’aura arcana e recondita che getta un’ombra di timorosa meraviglia sull’osservatore attonito e inietta una mistura di terrore e attrazione direttamente nel suo cuore.

E una volta scoperto questo potere nascosto, assorbirlo, farsene portatori, succhiare ogni goccia di questa ascetica disciplina, che è l’ossessione di tanti. Diventare dunque immortali, in quanto padroni di quella montagna, che è di fatto immortale, perlomeno nelle menti degli uomini.

Da una tale profonda aspirazione era forse, in fondo, animato anche il novello alpinista. Del resto, se fosse riuscito a superare gli ostacoli che la montagna gli avrebbe posto, se avesse evitato le sue insidie, si sarebbe dimostrato superiore ad essa, e, nel suo piccolo, avrebbe compiuto un impresa che avrebbe potuto ambire a gloria immortale.

Ma se, nei profondi recessi della sua mente, egli pensava questo, di certo non ne era cosciente. In quel momento la sua attenzione si concentrava sui suoi muscoli tesi nello sforzo di muovere il passo successivo, tutte le aspirazioni che nutriva nella vita si potevano riassumere nel raggiungere il termine della curva successiva.

Tornante dopo tornante, l’entusiasmo scemava repentinamente, fino a crollare esangue al tappeto, messo K.O. dalle difficoltà del cammino. Inscindibilmente legata alla caduta precipitosa di questo entusiasmo, vi era però un’altra iperbole, questa volta ascendente, un climax che tendeva vertiginosamente ad infinito: quello del dubbio.

Tutto poteva riassumersi nella banale domanda “ma chi me l’ha fatto fare?”. Le risposte plausibili a questo quesito cadevano una ad una, sotto le brucianti sferzate dell’acido lattico, che gli invadeva il corpo. Si sentiva ad ogni passo più stanco, e più vicino alla resa.

In corrispondenza di quella linea immaginaria dove le alte conifere iniziavano a cedere il passo a pini mughi e bassi arbusti, dove il sentiero iniziava a scalare gli scoscesi ghiaioni, in ascesa sempre più rapida verso la vetta, lì, il dubbioso gitante si trovò di fronte ad uno straziante dilemma.

Guardò verso la valle da cui era venuto, là lo aspettava una strada conosciuta, in discesa, e presto, il ritorno a casa e una zuppa calda e saporita, anche se avvelenata dal sapore amaro della sconfitta. Però in fondo, aveva fatto un errore di valutazione. Aveva creduto di poter affrontare con tanta sicurezza quella montagna che ora lo squadrava emanando un riflesso, che –ne era sicuro- assomigliava ad un sogghigno beffardo.

Lei era lì, e ci sarebbe rimasta sempre, monumento perenne al suo fallimento, al suo essere impotente di fronte alle sfide della natura.

Oppure… percorse con lo sguardo l’incerta traccia, appena accennata tra i sassi, che lo avrebbe condotto –forse, e tra chissà quanto- alla tanto agognata vetta.

Guardando in alto vedeva fatica, rischio, incertezza, e alla fine, in bocca il sapore della saliva impastata di sangue, ma addolcita dal nettare della vittoria.

Ma il cielo andava oscurandosi e il sudore gli imperlava la fronte. Dilaniato dalla difficoltà della Scelta, riflettè a lungo.

E alla fine scelse.

Fu solo però molto tempo dopo, seduto davanti ad un computer, nella tranquillità della sua stanza, che, leggendo un testo scritto da un autore sconosciuto, ripensò alla sua scelta, e la capì fino in fondo.

  
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