Il viaggiatore arrancava faticosamente lungo l’erto sentiero
che risaliva dal fondo della vallata. Le tortuose curve di quella minuta
traccia, che si stagliava in tutto il suo nitore nel verde selvatico
dell’intricato sottobosco, si succedevano una dopo l’altra, in una teoria
infinita che sembrava non avere mai fine.
Lo sprovveduto camminatore era partito di buon ora dalla sua
comoda dimora, con la baldanza di chi si accinge ad una prova troppo infima per
le proprie capacità, quasi un’offesa per la propria grandezza. Osservando i
pochi centimetri di linea rossa che congiungevano la sua casa con la meta
finale, aveva sorriso divertito: che sarebbero stati mai quei quattro passi per
lui che la vita la conosceva, e che di difficoltà ne aveva superate tante? Sarebbero
stati, per l’appunto, una passeggiata.
E fu così, quasi per sfizio, che decise di intraprendere
quella gita. Per cercare un’ennesima, quanto scontata conferma delle proprie
capacità.
Era partito leggero, tanto –pensava- sarebbe stato
certamente di ritorno per ora di pranzo.
Dunque, a che pro appesantire il suo fardello con chili di
viveri? Nello zainetto aveva messo solo una borraccia e, guardando il sole
sfolgorante aveva reputato inutile caricarsi di indumenti più pesanti di una
semplice maglietta bianca.
Col cuore leggero come lo zaino che aveva a tracolla, aveva
poi chiuso la porta dietro di sé –le chiavi in tasca.
Il silenzio dei prati grondanti di rugiada evaporava nel
caldo sole di metà mattina. Non una nuvola macchiava l’azzurro purissimo, che
faceva da cornice alla sublime imponenza dei massicci, che scrutavano severi la
vallata.
Era il più grande di essi che l’improvvisato escursionista
si apprestava a sfidare.
Una montagna nota in tutto il mondo, che faceva bella mostra
di sé in più della metà delle cartoline esposte nelle tabaccherie del paese.
Fotografata da ogni luogo, da tutte le angolazioni possibili, in ogni mese
dell’anno, all’alba e al tramonto, con la neve o con il sole sfolgorante. Quasi
a volerne rapire l’essenza, a carpirne il segreto nascosto, quell’aura arcana e
recondita che getta un’ombra di timorosa meraviglia sull’osservatore attonito e
inietta una mistura di terrore e attrazione direttamente nel suo cuore.
E una volta scoperto questo potere nascosto, assorbirlo,
farsene portatori, succhiare ogni goccia di questa ascetica disciplina, che è
l’ossessione di tanti. Diventare dunque immortali, in quanto padroni di quella
montagna, che è di fatto immortale, perlomeno nelle menti degli uomini.
Da una tale profonda aspirazione era forse, in fondo,
animato anche il novello alpinista. Del resto, se fosse riuscito a superare gli
ostacoli che la montagna gli avrebbe posto, se avesse evitato le sue insidie,
si sarebbe dimostrato superiore ad essa, e, nel suo piccolo, avrebbe compiuto
un impresa che avrebbe potuto ambire a gloria immortale.
Ma se, nei profondi recessi della sua mente, egli pensava
questo, di certo non ne era cosciente. In quel momento la sua attenzione si
concentrava sui suoi muscoli tesi nello sforzo di muovere il passo successivo,
tutte le aspirazioni che nutriva nella vita si potevano riassumere nel
raggiungere il termine della curva successiva.
Tornante dopo tornante, l’entusiasmo scemava repentinamente,
fino a crollare esangue al tappeto, messo K.O. dalle difficoltà del cammino.
Inscindibilmente legata alla caduta precipitosa di questo entusiasmo, vi era
però un’altra iperbole, questa volta ascendente, un climax che tendeva
vertiginosamente ad infinito: quello del dubbio.
Tutto poteva riassumersi nella banale domanda “ma chi me
l’ha fatto fare?”. Le risposte plausibili a questo quesito cadevano una ad una,
sotto le brucianti sferzate dell’acido lattico, che gli invadeva il corpo. Si
sentiva ad ogni passo più stanco, e più vicino alla resa.
In corrispondenza di quella linea immaginaria dove le alte
conifere iniziavano a cedere il passo a pini mughi e bassi arbusti, dove il
sentiero iniziava a scalare gli scoscesi ghiaioni, in ascesa sempre più rapida
verso la vetta, lì, il dubbioso gitante si trovò di fronte ad uno straziante
dilemma.
Guardò verso la valle da cui era venuto, là lo aspettava una
strada conosciuta, in discesa, e presto, il ritorno a casa e una zuppa calda e
saporita, anche se avvelenata dal sapore amaro della sconfitta. Però in fondo,
aveva fatto un errore di valutazione. Aveva creduto di poter affrontare con
tanta sicurezza quella montagna che ora lo squadrava emanando un riflesso, che –ne
era sicuro- assomigliava ad un sogghigno beffardo.
Lei era lì, e ci sarebbe rimasta sempre, monumento perenne
al suo fallimento, al suo essere impotente di fronte alle sfide della natura.
Oppure… percorse con lo sguardo l’incerta traccia, appena
accennata tra i sassi, che lo avrebbe condotto –forse, e tra chissà quanto-
alla tanto agognata vetta.
Guardando in alto vedeva fatica, rischio, incertezza, e alla
fine, in bocca il sapore della saliva impastata di sangue, ma addolcita dal
nettare della vittoria.
Ma il cielo andava oscurandosi e il sudore gli imperlava la
fronte. Dilaniato dalla difficoltà della Scelta, riflettè a lungo.
E alla fine scelse.
Fu solo però molto tempo dopo, seduto davanti ad un
computer, nella tranquillità della sua stanza, che, leggendo un testo scritto
da un autore sconosciuto, ripensò alla sua scelta, e la capì fino in fondo.