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Autore: Mirokia    08/10/2012    5 recensioni
Vivere per inerzia può essere una scocciatura quanto una benedizione.
Chi vive per inerzia non causa alcun tipo di problema, disturbo o contrattempo a coloro con cui entra in contatto. E’ come se, invece di inciampare su un difetto dell’asfalto e rovinare su un passante, inciampi e cadi giusto accanto a lui: non gli causi alcun tipo di danno, ma intanto sei caduto e, anche se ti sei fatto male, quasi non lo senti, perché sei abituato a vivere per inerzia. E allora ti alzi, ti spolveri, e vai avanti, ed è come se non fosse successo nulla.
Poi arriva il momento in cui semplicemente non puoi più far finta di nulla. Proprio non ci riesci. E il tuo mondo costruito per inerzia sembra crollare come un castello di carte.

[...]
«Io sono gay.»
«No che non lo sei, hai solo bevuto troppo.»
«Ho una cotta per te.»
«Non sai di cosa parli. Adesso va' a dormire, basta vaneggiare.»
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Cap. 10










Ricordo che dopo quel bacio, il mondo sembrò tornare a girare, e io mi portai la mano aperta alla bocca lasciando vagare gli occhi oltre la spalla di Valerio, il cuore che sembrava sprofondarmi sui piedi, mentre sentivo il suo sguardo che andava e veniva, quasi mi guardasse e poi evitasse di farlo alla velocità della luce. Non pensai a niente, in quel momento. Ero solito passare tutto il giorno in elucubrazioni mentali, ma in quei secondi, davvero, avevo il vuoto cosmico in testa, un battito frenetico che mi rimbombava nelle orecchie, lo sguardo perso in chissà quali mondi sconosciuti.
Tornai in me solo nel momento in cui Valerio si alzò tremando e, a passo svelto e testa bassa, andò a chiudersi in quella che era diventata camera sua, senza più dirmi una parola. Mi chiesi che mi era saltato in testa, che diavolo credevo di fare, se per caso fossi impazzito; e lo stesso non riuscii a nascondere la preoccupazione di quella sua reazione, perché, seppur inconsciamente, avevo creduto che sarebbe andata in modo diverso. Mi ero in qualche modo convinto –o più propriamente, era stato lui più volte a cercare di farmelo capire- che una sorta di sentimento strano e sconosciuto ci fosse, da parte sua. Per quello, quando si alzò e se ne andò senza neanche guardarmi, mi venne spontaneo rimanerci un po’ male. Forse avevo invaso la sua privacy o, ancora più probabile, avevo frainteso tutto quanto e da parte sua non c’era alcun tipo di sentimento che si avvicinasse all’affetto amoroso. Ah, ma a cosa diavolo pensavo?! Sembrava stessi analizzando e commentando un carme catulliano.
Sed fieri sentio et excrucior.
Ahh, no, basta, basta! Dovevo prendere una boccata d’aria fresca, per forza, o sarei soffocato, in quell’aria pregna di sensazioni strane che sembrava premere su di me come un macigno e allo stesso tempo mi dava l’impressione di galleggiare, sospeso tra mille bollicine.
Che cazzo avevo bevuto? Che Valerio m’avesse corretto il caffè? E di nuovo c’era sempre quel ragazzino a insinuarsi nei miei pensieri.
Sfregai più volte le mani sui pantaloni e mi decisi ad alzarmi, sentendo la testa girare leggermente. Ma possibile che fossi sobrio? Ubriaco d’amor-
UBRIACO D’AMORE?! Ma mi rendevo conto delle cazzate che mi passavano per la testa? Basta, sarei uscito. Avevo già la giacca sotto il braccio quando percorsi il corridoio fino ad arrivare all’ultima stanza, quella in cui Valerio sembrava essersi chiuso.
«Sto uscendo un’oretta. Per caso vuoi venire?» chiesi, le labbra accostate al vetro giallognolo della porta. Certo che ero furbo: uscivo per tentare di riordinare le idee –e intendevo farlo da solo- e poi chiedevo al mio studente se voleva venire. Magari a complicare le cose, visto che in quel momento filava tutto liscio come l’olio. Quello comunque non mi rispose e io, automaticamente, tirai fuori il portafoglio che tenevo nella tasca della giacca e da lì presi il mio biglietto da visita –che, per altro, non davo mai ad anima viva- per poi farlo passare sotto alla porta.
«Qui c’è il mio numero. Chiamami, se hai bisogno,» dissi a voce sostenuta, ma non ricevetti nuovamente risposta. Magari voleva solo stare un po’ solo, esattamente come me. Abbassai il capo, infilai la giacca e me ne uscii, notando come fosse già buio, lì fuori. Ficcai le mani in tasca e nascosi il viso dal naso in giù nel colletto della giacca, lo sguardo fisso sulla strada, col rischio di inciampare e cadere su qualche passante. Pensai che in quel modo avrei causato dei problemi alle persone, e che chi vive per inerzia non causa alcun tipo di disturbo o problema a coloro con cui entra in contatto. Ma in quel caso l’avrei fatto, avrei urtato qualcuno, perché non mi guardavo attorno, ero totalmente sovrappensiero, e questo portava a domandarmi se non stessi iniziando ad abbandonare la vita che avevo sempre condotto.
Camminai fino alla scuola media del mio quartiere e mi appoggiai al suo cancello accendendomi una sigaretta, frustrato. Qualcosa stava cambiando, me lo sentivo dentro. La mia vita non era più piatta, stava iniziando ad avere degli alti e bassi. Mi strinsi una mano all’altezza del petto quasi a voler far rallentare il battito cardiaco con quella stretta, e mi chiesi che diamine mi stava succedendo e, soprattutto, se ne valesse la pena dare una svolta alla vita, cambiare abitudini, cambiare visione del mondo. Cambiare e basta, insomma.
Presi una lunga boccata e chiusi gli occhi, recitandomi in testa Pablo Neruda, le parole che sembravano illuminarsi sulle mie palpebre:
“Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.”
Quelli erano sentimenti, lo erano per forza, e quello era anche un errore. E inoltre, il cuore batteva. Batteva ed era particolarmente fastidioso.
Ero così sovrappensiero che neanche mi accorsi di una figura ben piazzata che mi passò davanti per poi fermarsi, forse avendo riconosciuto il mio volto.
«Andrea?» mi chiese, quasi non ne fosse poi tanto sicuro. Eppure ci eravamo visti giusto un paio di settimane prima, santo cielo. Lo guardai passando lentamente gli occhi sui suoi lineamenti appena illuminati dal lampione sulla strada, poi salutai con un cenno del capo non troppo entusiasta.
«Ah…Guido,» dissi riconoscendo la pancia da birra tipica del mio amico.
«Che ci fai qui fuori tutto solo?» mi chiese coprendo con la sua schiena immensa l’unica fonte di luce a me disponibile.
«Niente, sto pensando,» risposi semplicemente, la sigaretta che si stava consumando da sola col passare del tempo, lo sguardo fisso nel vuoto, per non guardare il mio amico, che quella sera mi sembrava ancora più rotondo.
«Sigaretta? Che c’è, pene d’amore?» Le sue domande erano sempre piuttosto invadenti e fastidiose.
«Forse,» risposi lasciando la questione in sospeso.
«Okay, vuoi fare il misterioso… Ascolta, ci sarai anche tu domani sera?»
«Dove?» chiesi, tanto per chiedere. In realtà avevo altro a cui pensare. Ben altro.
«Ci eravamo organizzati per andare al cinema tutti insieme. Gaia non te l’ha detto?» fece Giudo, gli occhi che seguivano la punta bruciata della sigaretta, quasi ne fosse attratto terribilmente.
«Le sarà sfuggito». Lui si mise a pensare con una mano sul mento, anche se sapevo benissimo che al massimo stava pensando a un criceto che gira sulla sua ruota.
«Forse non te l’ha voluto dire perché ci sarà anche April,» mi rivelò quindi.
«Allora non contare sulla mia presenza,» dissi in fretta per poi buttare fuori l’ultima nuvola di fumo, lasciar cadere la sigaretta e schiacciarla con la punta del piede, per poi calciarla lontano.
«Ma dai, che ti importa? Almeno ti sfoghi un po’, ti vedo molto stanco».
«Lo sono, Guido, lo sono,» ammisi, forse più a me stesso, ed ero quasi tentato di tirare fuori un’altra sigaretta. Dovevo tenermi impegnato con qualcosa, ché parlare con Guido non mi soddisfaceva più di tanto.
«E allora! Andiamo a vederci un film e dopo ci facciamo una birretta. Non è mica detto che devi parlarci, con April,» esclamò regalandomi una pesante pacca sulla spalla. Ma era proprio quello il problema: se l’avessi vista, mi sarebbe venuta voglia di chiederle se era vera la storia del bambino e, se la risposta fosse stata affermativa, perché mi aveva mentito, e poi tante altre cose. Ma non volevo far trasparire ancora la mia preoccupazione per lei, perciò alzai le spalle, quasi non facesse poi tanta differenza per me.
«Ci penserò. A che ora inizierebbe il film?» chiesi infine.
«Alle venti, ma ci vediamo lì una mezz’oretta prima, sennò i biglietti li vediamo col binocolo».
«Okay. Dove, al The Space?» chiesi grattandomi la nuca. Nemmeno mi ricordavo se si chiamava Medusa o The Space. Forse erano la stessa cosa? Non andavo al cinema da secoli, era roba da giovani. I film facevo che scaricarmeli illegalmente. Complimenti, professore, continui pure così a infrangere le regole, proprio lei che è un docente.
«Esatto. Allora ci conto, eh? E porta tu le sigarette, ché mia moglie mi ha vietato categoricamente di fumare,» fece Guido sospirando. Allora feci che allungargliene una delle mie consigliandogli di fumarsela mentre tornava a casa.
«Ma come farò con la puzza?» si chiese allarmato rigirandosi tra le dita quello che per lui era un gioiello.
«Senti, mi sembri un adolescente problematico che ha paura della mamma. Fumatela e basta!» esclamai, e nel mentre gli infilavo nella tasca della camicia il mio accendino giallo. «Tieni, ti regalo anche l’accendino. Io sto tentando di smettere,» aggiunsi, poi girai i tacchi, e iniziai ad allontanarmi quasi a fargli capire che non ammettevo repliche.
«Ehi, cafone, saluta almeno!» mi urlò dietro lui, e sicuramente lo sentì almeno mezzo quartiere. Alzai gli occhi al cielo.
«Cosa vuoi, che ti baci?» chiesi senza neanche girarmi, e a un tono di voce decisamente più basso del suo.
«’Fanculo, Andre, sei simpatico come un ombrello aperto nel culo,» borbottò lui, e sentii il rumore dell’accendino che scattava, segno che s’era finalmente deciso ad accendersi la sigaretta. Mi venne da ridere a quell’immagine dell’ombrello nel culo, e voltai il capo di profilo.
«Ci vediamo domani,» dissi trattenendo la risata, e lo intravidi mentre mi mandava a quel paese col braccio e si poggiava a sua volta al cancello per fumare tranquillo. Scossi la testa con un sorriso e mi incamminai per tornare a casa. Ero a metà strada quando mi squillò il cellulare rompendo quella quiete bellissima che s’era venuta a creare. Controllai il numero sul display, ma non lo conoscevo.
«Pronto».
«Un’ora è passata da un pezzo,» riconobbi quella voce spazientita come quella di Valerio. Il cuore mi sprofondò nel petto e allo stesso tempo il lato destro della bocca si sollevò in un mezzo sorriso.
«Che fai, mi controlli?» chiesi ironico, ma dall’altra parte non ci fu cenno di risata. «Comunque, non preoccuparti, sono quasi a casa,» dissi quindi, per colmare quell’attimo di disagio.
«Okay. Non passare dalla scorciatoia dietro casa,» mi raccomandò prima di chiudere la comunicazione, senza la possibilità quindi di ascoltare il mio “Non lo farò”. Ma che aveva quel ragazzo? Ah, è vero. Anche lui era uno di quegli adolescenti problematici di cui avevo parlato prima, solo che lui non aveva una madre di cui aver paura.
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Quando entrai in casa, Valerio era rannicchiato sul divano –quasi fosse a casa sua- a guardare la televisione sintonizzata su Zelig, ma sul suo viso non c’era ombra di risate. Forse le battute erano peggiorate? Ricordavo fosse un programma che almeno un sorriso sincero te lo strappava. Notai che evitava di guardarmi, e il cuore non poté che stringermisi.
«Come stai?» gli chiesi mentre mi spogliavo della giacca.
«Abbastanza male,» rispose quello senza staccare gli occhi dallo schermo.
«Vuoi parlarne un po’ con me?» gli proposi, leggermente spaventato dalla risposta che potevo ricevere.
«Perché ti faccio pena?» chiese lui di rimando con le labbra che tremavano, e io scossi la testa con un sorriso sghembo. Ecco che cos’era, allora. Credeva che quella mia iniziativa fosse dovuta alla grande pena che provavo per lui e per la sua triste storia. Forse dovevo fargli capire che, quando la gente mi fa pena, di solito la compatisco e basta, non mi metto a baciarla sulla bocca.
«No. Perché ti vorrei conoscere un po’ meglio,» dissi sinceramente alzando le spalle, adesso più tranquillo, poi mi permisi di accomodarmi accanto a lui che, fortunatamente, restò fermo lì dov’era.
«Hai già visto come sono: piagnucolone, depresso, insistente, sfigato, disadattato. Cosa vuoi sapere altro?» sembrava dov’esse avere un altro attacco di pianto. E a me fece solo tanta tenerezza. Di solito non ero sensibile a sceneggiate del genere, mi provocavano solo l’ennesimo fastidio.
«Io non vedo solo questo. Vedo anche un ragazzo studioso, bravo in cucina, capace a relazionarsi coi bambini, eccezionale nel ballo, ordinato, intelligente e di bell’aspetto,» sorrisi un po’ di più, cosa che, in effetti, non facevo quasi mai. Ma questa volta le guance sembravano tirare verso l’esterno in modo spontaneo, per nulla forzato. Lui si accorse della mia espressione così diversa, e incrociò le gambe sul divano.
«Come sai che ballo?» mi chiese quindi, non con tono diffidente, semplicemente curioso.
«L’altro giorno, in quella palestra… mi è capitato di sbirciare nella sala in cui ti eserciti.» dissi e gli feci quello che doveva sembrare un occhiolino. Lui cambiò espressione, il volto sembrò illuminarsi, e mi dissi che ci metteva poco a cambiare umore: era tutto così repentino, se aveva a che fare con lui.
«Davvero? E che ne pensi della coreografia?» chiese con un cipiglio nuovo.
«Ne ho vista solo una parte ma, per quello che ho visto, non è male. E tu sei molto bravo, nessun dubbio in merito,» dissi dopo aver appoggiato il gomito allo schienale del divano e mi fui girato per bene verso di lui, che a quelle parole mi guardò di sottecchi.
«Mi sta lecchinando, professore?»
Scoppiai improvvisamente in una fragorosa risata, e dovetti portare la mano davanti alla bocca aperta per non fare troppo rumore.
«Direi di no. Non ne sono in grado, davvero…»
«Allora cos’era quel bacio?»
La sua domanda improvvisa mi spiazzò, e pensai di essere diventato viola per la vergogna. Inoltre, la mia risata fragorosa era diminuita d’intensità tutto d’un colpo e adesso s’era trasformata in una risatina imbarazzata, una di quelle che vogliono cavarti d’impiccio ma che alla fine non fanno che lasciar affondare ancora di più il piede nella fossa.
«Beh, quello… era…» mi grattai la testa guardando in basso a destra, mentre Valerio si affrettava ad agitare le mani davanti a me.
«Non importa, scusa, sono io che sono insistente come al solito,» disse, pure lui con la risata imbarazzata. Mi sentii sollevato per non dover dare una spiegazione a quel gesto avventato. Un gesto che però, mi accorsi, forse non era stato poi così avventato, dato che avevo ancora voglia di farlo, mentre guardavo i suoi occhi chiari che sembravano supplicarmi un altro bacio. Mi dissi: “Al diavolo,” e in quell’attimo di silenzio che seguì, mi allungai su di lui e gli lasciai un mezzo bacio sul lato della bocca, breve e veloce, per poi alzarmi in piedi, troppo imbarazzato per guardare la sua espressione con possibile reazione.
«Vado a letto, buonanotte,» dissi frettolosamente spacciando quello come un bacio della buonanotte.
«Sono le nove…» fece Valerio in un soffio prima che potessi allontanarmi ulteriormente.
«C’è qualcosa in tv?» chiesi, il momento di imbarazzo che sembrava svanire man mano.
«Inception tra poco,» fece quello prendendo in mano il telecomando, il tono nuovamente allegro, quasi quella sera non fosse successo assolutamente nulla. Quasi non avesse mai discusso con Martone, non si fosse mai confidato con me piangendo come un dannato, quasi non lo avessi baciato, quasi il nostro rapporto non fosse cambiato. In qualche modo mi sentii di doverlo ringraziare mentalmente: stava riuscendo a non farmi sentire a disagio.
«Non so cosa sia».
«Non conosci Inception?!» fece il ragazzo a bocca spalancata, il telecomando che per poco non gli cadeva di mano.
«Dovrei?» chiesi sorridendo con le braccia conserte.
«Non capisci niente, vai a dormire,» ne concluse lui mentre si sistemava meglio sul divano e cambiava canale.
«Ah, tu ordini a me di andare a dormire?» domandai con un sopracciglio alzato, sinceramente divertito dalla situazione. Poi mi lasciai andare di peso sul divano –facendo quasi saltare l’altro- e appoggiai le mani sulle gambe aperte. «E adesso, per ripicca, resto qui a guardare questo fantomatico film,» dissi quindi, mentre sentivo la sua risata riservata propagarsi nell’aria.
«Non te ne pentirai,» fece, più contento, poi si alzò per andare a spegnere la luce.
Dalla metà alla fine del film, fatta eccezione per la pubblicità, Valerio tenne il capo appoggiato sulla mia spalla e io non ebbi neanche il coraggio di  scrollarmelo di dosso. Mi chiesi se mi rendevo conto della confidenza che si stava prendendo quel ragazzo e del fatto che io gliela permettevo, gliela concedevo. Mi dissi che quella confidenza mi muoveva qualcosa nel petto e nello stomaco, mi scuoteva l’anima e lasciava che le membra formicolassero. Come quella sensazione di quando ti si addormenta qualcosa e tenti di svegliarla.
Mi stavo svegliando anche io. Non esistevo più, iniziavo a vivere.


 



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Non sapevo se far finire qui il capitolo o mandarlo avanti, ma alla fine ho deciso di spezzare, anche perché il quaderno in cui ho scritto la storia, termina qui XD Poi va avanti in un altro quaderno, ma va beh.
Nello scorso capitolo ho dimenticato di fare un paio di appunti, uno dei quali l’ho illustrato nella risposta a una recensione. Il primo riguarda una metafora che nessuno avrà colto, perché l’ho voluta vedere solo io, e comunque non ho fatto granché per metterla in risalto XD Si tratta di Robin Hood. Valerio bacia sulla guancia Andrea, e in quel momento Michele interviene per dire loro che Robin Hood sta per scoccare la freccia. Questo perché, in contemporanea, anche un altro tizio stava per scoccare una freccia (Cupido) HAHAHAHAH Sono ridicola, Cristoddio.
Poi, secondo punto. Nello scorso capitolo, Andrea s’è addormentato sul divano e al risveglio s’è trovato addosso una coperta, opera di Valerio il Premuroso. Ora, “
Ormai vivevo solo, e avevo ancora l’abitudine di suonare al citofono, quasi aspettandomi che qualcuno mi facesse la cortesia di aprirmi e magari di salutarmi con un bacio e magari di chiedermi della giornata e magari di farmi sedere a tavola e mangiare e magari di mettermi su una coperta nel caso mi fossi addormentato sul divano.” (Capitolo Primo). Coincidence? I THINK NOT.
Su questo capitolo invece non ho molto da dire; Guido è comparso nel secondo capitolo, mi pare. E’ uno degli ex compagni di liceo, si trovava a casa di Sara insieme a Gaia e Francesco.
Inception è un film a cui sono affezionata e che, mi vergogno di dirlo, non conoscevo. Ne sentivo parlare in continuazione, ma non mi ero mai decisa a vederlo. Poi alcune sere fa l’hanno mandato in televisione e mi ci sono messa d’impegno XD Mi ha presa tantissimo, l’ho trovato eccezionale *_*
Grazie ancora per le recensioni, faccio il possibile per poter rispondere a tutti, perché mi riempite  di gioia e ci tengo a farvelo sapere. Un bacio!






Mirokia

 

   
 
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