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Autore: Rivaleth    09/10/2012    0 recensioni
il 12 agosto 1944 si è compiuto a Sant'Anna di Stazzema uno dei più gravi crimini contro l'umanità. oltre 560 civili, soprattutto donne, anziani e bambini, furono trucidati dai nazisti. In quel giorno di sangue, tre vite diedero prova di grande spirito di sacrificio, coraggio e solidarietà: Genny, Cesira, Milena, tre storie diverse, unite da un unico, triste filo.
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Guerre mondiali
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12 agosto 1944: cronache di un eccidio.

 
Sant’Anna di Stazzema è un piccolo paese arroccato su una collina sul versante tirrenico delle Alpi Apuane, a un’altezza di 660 metri sopra il livello del mare. C’è solo una strada per arrivarci, una strada che si inerpica lungo tutto il dorso della montagna e porta in paese, nella piazza della chiesa, un edificio rosa antico, vicino a un gruppo di alti platani. Più alti, di fronte, si stendono i colli sui quali sono appiccicate le casette: La Rocca, Monte Lieto, Foce di S. Anna, i Franchi, i Mulini, Vaccareccia e Monte Gabberi. Tutto in questo piccolo borgo rievoca urla, dolore, disperazione. Ogni casa, ogni albero, ogni strada è muto testimone di quello che fu il più grande massacro di civili in Italia ad opera delle truppe naziste, che il 12 agosto 1944 trascinarono vecchi, donne e bambini indifesi nelle piazze, contro spogli muri, nelle stalle o nelle loro stesse case, e lì caddero sotto gli innumerevoli colpi di mitragliatrice, uccisi dalle bombe a mano, sotto i bestiali e limpidi occhi dei soldati tedeschi della 16ª divisione volontari delle Waffen SS comandate da Max Simon. Qui, a Sant’Anna di Stazzema, morirono oltre 560 persone, trascinate fuori dai loro letti, condotte sui luoghi dell’eccidio e sterminate in meno di tre ore. Non ebbero il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo, il pensiero comune era quello di un rastrellamento. Seguirono i carnefici con timore, ma senza spavento né odio. Quando realizzarono cosa sarebbe davvero successo, era già troppo tardi.
 

E’ l’alba del 12 agosto, Genny si rigira nel letto esausta. Non è il caldo a tenerla sveglia, lassù in montagna c’è sempre fresco, l’aria è frizzantina anche nei mesi più torridi dell’anno. No, ciò che le impedisce di prendere sonno è il pensiero di suo marito prigioniero in Russia, e la presenza del figlioletto Mario, addormentato sul letto accanto a lei.
Genny si è ormai rassegnata all’idea che suo figlio dovrà crescere senza un padre, eppure ogni volta che lo guarda negli occhi, o quando osserva le sue lunghissime ciglia scure, come in quel momento, non può fare a meno di rivedere in lui il suo amato uomo, che non potrà mai veder crescere quella straordinaria e piccola creatura. Mario è sdraiato a pancia in giù, e respira profondamente, dormendo il sonno placido e beato dei bambini. Sebbene abbia già sei anni, ha ancora il vizio di succhiarsi il pollice quando dorme, retaggio che si porta dietro sin dalla più tenera età, quando ha capito che c’era piacere nello scoprire il mondo e le cose assaggiandole ed esplorandole con la bocca. È così tenero e indifeso, e Genny è così adorante. Lo ama follemente. Prima che nascesse era convinta che non sarebbe mai riuscita ad amarlo con la stessa intensità con cui amava suo marito, ma non era mai stata così felice di sbagliarsi. Tenerlo tra le braccia per la prima volta, cullarlo e stringerlo al suo seno, era stata una tale, devastante gioia, che il solo ricordo ancora riusciva a commuoverla.
E adesso sono già passati sei anni, Mario è un bambino dal viso buono e dall’aria vispa, che arde come un fuoco nei suoi grandi occhi scuri, e che è accentuata dai capelli folti e ribelli che non le permette mai di domare col pettine. Ma è pur sempre un bambino, anche se vispo e intelligente, e come tutti i bambini, ha paura del buio e della solitudine. Così Genny gli permette di dormire insieme a lei, colmando il vuoto giaciglio lasciato dal padre. Si fanno compagnia a vicenda, e Genny è felice che la sua sola presenza bastasse a conciliargli il sonno. Si augura che possa continuare a vegliare sul suo riposo ancora per molti anni.
Eppure quel mattino è inquieta. Da diversi giorni al paese giungono voci di rastrellamenti da parte dei tedeschi, di esodi di massa da parte dei cittadini dei villaggi vicini, che cercano di raggiungere posti più isolati, dove i partigiani non possano raggiungerli. Genny sa cosa succede a chi offre riparo o soccorso ai partigiani. Ma lassù, a Sant’Anna di Stazzema, loro non c’erano mai arrivati. Su quelle strade si vedono solo vecchi che si radunano in piazza e badano i bimbi che si rincorrono tra loro e non si stancano mai di giocare, e donne, sempre indaffarate nelle faccende domestiche, che si sono già stancate da tempo, ma continuano a fare ciò che va fatto spinte da un senso di responsabilità che non conosce pari.
Lì, a Sant’Anna, erano al sicuro.
Forte di questa convinzione, Genny allunga una mano e scosta una ciocca di capelli dal naso di Mario, che, vittima del prurito, si sta agitando nel sonno. Glieli mette delicatamente dietro l’orecchio, e subito il bambino smette di agitarsi, riprendendo a succhiarsi inconsciamente il pollice.
Genny è stanca, ma sa che ci sono un sacco di faccende da sbrigare, e rimanere supina, per quanto possa piacerle, non è un lusso che può permettersi. Si alza pigramente, stiracchiandosi e ascoltando gli scrocchi dei suoi arti intorpiditi. Ha le braccia che fanno male, il giorno prima ha dovuto fare tre viaggi fino alla fonte per riempire le brocche d’acqua. Si alza dal letto, sentendo che anche le gambe sono ancora molli e deboli. Fuori dalla piccola finestra che affaccia sul cortiletto della loro decrepita casa di pietra, già si intravede il colore rosato del cielo che sfuma in un azzurro terso: il 12 agosto, a Sant’Anna, è una bellissima giornata estiva. Genny non può trattenere un sorriso, e decidendo di scacciare i cattivi pensieri, respira a pieni polmoni quell’aria pulita e ricca di odori e profumi.
Poi li vede.
In fondo al viale percorso da due file di lecci e carpini, silenziosi e rigidi nella loro marcia, un folto gruppo di tedeschi sta salendo al paese. Marciano senza automezzi, con monture mimetizzate, le braccia che impugnano armi. Sembrano in assetto di guerra. Genny avverte un brutto presentimento, ma la razionalità prevale, anche se fiocamente, prima che si spenga del tutto quando quattro soldati impugnano le mitragliatrici, spianandole in avanti, e puntano verso la sua casa.

 
Il 12 agosto è una giornata radiosa. Milena, diciotto anni appena compiuti, percorre la strada che la porta alla fonte con una spensieratezza che non provava da tempo. E’ proprio il tempo che le fa quell’effetto: non sembra estate, ma primavera. Il sole è già visibile nel cielo color zaffiro, di un blu così chiaro e profondo che non può che mettere allegria. Accanto a lei, sua sorella Jole e la sua amica quasi arrancano per starle appresso, molto più interessate a raccogliere fiori che ad accompagnarla fino alla fonte. Jole, che quella mattina ha raccolto i suoi lunghi capelli bruni in una treccia sapiente, adesso si trastulla a infilarsi margherite tra le chiome, per poi aiutare Ilda, la sua amica, a fabbricare una corona di margherite. Milena le guarda quando la chiamano per ammirare il risultato dell’opera, sorride, ma non si ferma, le piace camminare a passo svelto.
Oggi si sente benissimo: sarà il tepore del sole, il canto degli uccelli, le farfalle coloratissime che volano instancabili da un fiore all’altro, sarà che finalmente Stefano l’ha baciata…ma oggi, 12 agosto 1944, lei è tornata a sperare. Ed è una speranza genuina, la sua, forse banale e ingenua, ma viva e calda, che le avvolge il petto e la fa sciogliere come un ghiacciolo al sole. Forse la guerra finirà davvero, e gli alleati riusciranno a liberare anche la Versilia. Sono già a Pisa, non manca poi molto.
Il suo è un buon umore sfacciato: il bacio di Stefano aleggia ancora sulle sue labbra, e istintivamente non può fare a meno di passarci sopra la lingua, cercando traccia del suo sapore. Come potrà dimenticare il modo in cui l’ha stretta la sera prima, nella capanna degli attrezzi? Incerta, Milena si sfiora i fianchi, che mai le sono piaciuti, così arrotondati, prima che Stefano li accarezzasse, dicendole che era fantastica. Non le è mai piaciuto quel corpo in trasformazione, prima stretto e magro, ora più florido e con curve più dolci. Eppure, se piace a Stefano, piace anche a lei. E’ inevitabile. E a Stefano piace, perché altrimenti non l’avrebbe abbracciata in quel modo, non un vero abbraccio, ma più una stretta possessiva e appassionata, deliziosamente intima e, forse, pensa con una punta di trionfo, innamorata. E poi quel bacio…quel bacio! Era stato così coinvolgente, così destabilizzante che ha davvero temuto di poter vedere il proprio cuore schizzare fuori dal petto, tanto le martellava contro le costole. Ha semplicemente perso la cognizione del tempo e del luogo, e l’unica cosa che ricorda era l’ardore e la sollecitudine che ha messo in quel bacio, la passione che l’ha travolta quando si è abbandonata al suo istinto di donna, senza pura e senza timore, affidandosi completamente al ragazzo di cui è perdutamente innamorata.
Hanno fatto l’amore sulla paglia, e per lei è stata la prima volta. Stefano è stato dolce e premuroso, anche davanti alla sua maldestra goffaggine, riuscendo addirittura a reprimere le sua tipica risata di maschio pieno di sé, che gli piace tanto affettare quando ci prova con lei in pubblico. Adesso si sente tutta colma di uno straordinario appagamento dei sensi, in perfetta armonia col mondo. Ha solo un po’ il corpo intirizzito, e le fa un po’ male l’interno delle cosce, ma è un  dolore sopportabile, anzi, piacevole e desiderato. Basta il ricordo per farla arrossire come una ragazzina alla sua prima cotta. Milena è certa che avrebbe iniziato a saltellare come una pasqua da un momento all’altro se non avesse
avuto due secchie di rame nelle mani e il sedere e le gambe doloranti per essere dovuta stare sdraiata in una posizione non molto comoda per tutta la notte. Eppure sembra impossibile che nonostante la sua primavera interiore, nonostante l’estate che risplende rigogliosa intorno a lei, la guerra infuri alle porte delle loro case. Qualche volta, durante le notti placide e senza vento, si odono gli scoppi delle bombe sganciate dagli aerei degli alleati che squassano l’aria in lontananza, molto più a sud di Sant’Anna.
–Milena, aspettaci!- grida Jole con l’esuberanza di una ragazzina di quindici anni. Milena è troppo rapita dai suoi pensieri per prestarle attenzione, e così continua a camminare spedita, guardando davanti a sé, ma senza vedere realmente dove mette i piedi. La voce e il sorriso ammiccante di Stefano le tolgono tutta la concentrazione, assorbendola completamente.
-Sai, credo proprio di essermi vagamente innamorato di te.- sono state le parole che le ha rivolto al loro risveglio, accompagnandole con un sorriso sardonico, lo stesso con cui l’ha fatta capitolare al loro primo incontro.
-Che vorrebbe dire vagamente?- aveva ribattuto, facendo la finta offesa, quando in realtà il suo cuore era stato appena devastato e stregato da quella pura e semplice verità.
Il bacio di Stefano era valso più di mille parole.
Milena sta ancora sognando ad occhi aperti, quando scorge l’ultima cosa che si sarebbe aspettata e che avrebbe voluto vedere: un gruppo nutrito di tedeschi, così silenziosi che se fossero stati un po’ più lontani, certamente non li avrebbe nemmeno notati. Arrivano dalla direzione del Monte Ornato, e stanno dirigendosi verso Sant’Anna. Al petto stringono delle mitragliette. Bastano quelle per risvegliare tutti i suoi sensi, mettendola in allarme. Immediatamente posa le secchie e torna sui propri passi di corsa, raggiungendo nuovamente Jole e Ilda. Le due hanno tra le mani un mazzo di fiori coloratissimi e dal profumo conturbante: sono incantevoli nei loro vestiti estivi, così giovani e belle.
-Milena, che succede?- domanda Jole notando l’espressione terrea della sorella. E’ pallida e sembra molto agitata, cosa può essere successo?
-Dobbiamo tornare al paese.- la voce di Milena suona sinistra. –Ho visto i tedeschi. Dobbiamo avvertire tutti quanti.
I mazzi di fiori cadono dalle mani delle ragazze e finiscono sull’erba profumata.
La giornata è appena cominciata, ma già si porta dietro un sapore amaro.

 
Cesira quella mattina si è alzata di buon’ora, nonostante le sia costato uno sforzo titanico, e adesso aiuta sua madre a stendere il bucato e nutrire le galline che chiocciano rumorose nell’aia. Non può fare a meno di interrompere il proprio lavoro, ogni tanto, per andare a fare le moine alla sua piccola Anna, la sorellina di appena venti giorni che la mamma ha deposto in una vecchia culla in soggiorno. Cesira entra in casa, lancia un bacio al babbo, che sta spaccando la legna nel cortile sul retro, abbastanza vicino alla porta per sentire se Anna si mette a piangere, e poi corre dalla stellina della famiglia. Anna è così minuscola che sembra quasi che venga risucchiata dalla trapunta leggera in cui è avvolta. Sta dormendo, ma Cesira non resiste alla tentazione di prenderla in braccio e osservarla aprire gli occhi con indolenza, piantandoli su di lei quasi con irriverenza. Sono ancora blu, intensi e scuri, abbacinanti. Anche se suo padre dice che diventeranno scuri, Cesira spera con tutta sé stessa che conservino quel colore meraviglioso e quell’espressione di stupore e curiosità che li contraddistinguono.
-Cesira, smetti di svegliare Anna.- brontola affettuosamente sua madre, passando lì vicino con la cesta del bucato. –Sennò poi non riesco a farla riaddormentare.
-Con me si addormenta sempre.- risponde Cesira con un sorriso, cullando la sorellina con dolcezza.
-Piuttosto, vai a recuperare le tue sorelle. Dovrebbero essere a giocare qua intorno.- commenta distrattamente la donna, prima di uscire dalla porta sul retro e raggiungere il marito.
-Promettimi Anna, che tu non mi farai impazzire come le altre tre indemoniate.- mormora Cesira, dando un bacio sulla fronte della piccola e adagiandola nella culla. La piccina sbadiglia, e subito cade addormentata. Cesira, soddisfatta, esce alla ricerca delle altre sorelline, Maria, Lilia e Adele, che stanno giocando a nascondino poco distanti dalla casa. Individuarle è facilissimo, viste le aureole di capelli biondi che brillano luminosi contro il sole. Cesira un po’ le invidia, perché a lei, purtroppo, l’infanzia è stata tolta a nove anni, quando ha dovuto imparare a prendersi cura di Lilia, la secondogenita, mentre suo padre non c’era e sua madre era incinta di Adele. Adesso Lilia ha nove anni, ma sta ancora giocando con le altre due sorelle, mentre lei deve badarle. Eppure vuole loro un bene dell’anima, e recupera l’infanzia perduta giocando con loro, che la venerano come una dea.
-Cesira, possiamo spazzolarti i capelli?- chiedono quasi all’unisono, assaltando la sorella maggiore con quella usuale richiesta. Cesira si mette a sedere sull’erba, sciogliendo i capelli, che le cadono lungo le spalle con onde disordinate, morbidi e lucenti come miele. Le sorelline impazziscono per i suoi capelli, li adulano in continuazione. A dire la verità, adulano tutto di lei. E non sono le uniche. Cesira è la bella di Sant’Anna. Tutti glielo ripetono in ogni occasione. E’ di una bellezza rara ed eterea, longilinea e delicata, nordica. La pelle è chiarissima come quella di sua madre, i capelli biondi come quelli di suo padre, e gli occhi di un magnifico verde chiaro, come quelli delle sue sorelle, che adesso le stanno spazzolando a turno i capelli con una spazzola da cui non si separano mai, e con cui lei le pettina, una per una, per poi fare un’elaborata acconciatura, a ognuna quella che preferisce.
Adele, l’ultima rimasta, ha appena finito di spazzolarla, quando scorge Milena arrivare a corsa dalla strada che scende a valle. La sua è una delle prime case del paese, non può evitare di essere la prima persona a essere informata su tutto ciò che accade fuori da Sant’Anna, quando arriva qualcuno dalla valle.
Chiama Milena, le sorride salutandola con la mano, ma il sorriso le muore in gola quando vede come la fissa.
-Che è successo?- domanda balzando in piedi e raggiungendola in pochi passi. Solo allora nota l’arrivo di Jole e Ilda, che sopraggiungono trafelate, piegate in due dalla corsa.
-Arrivano.- dice Milena, gli occhi sgranati dall’ansia.
-I tedeschi?- chiede lentamente, a voce bassissima, sperando ardentemente di sbagliarsi.
Lo sguardo di Milena però non lascia scampo.
-Avverti tuo padre, digli di andarsene nel bosco. Gli uomini non devono essere trovati.
-E noi invece?- chiede Cesira senza riuscire a controllare lo spavento.
-Noi siamo donne, anziani e bambini.- risponde decisa Milena. –Non ci faranno del male.
Se ne va in fretta, con quel suo passo risoluto e marziale, che la rende un po’ un modello da imitare per Cesira. Senza perdere altro tempo, raduna in fretta le sorelle e rientra in casa, chiamando suo padre ad alta voce. Lui si affaccia, con Anna in braccio e sua madre al fianco.
-Che c’è Cesira?
-Babbo, i tedeschi stanno arrivando, devi andartene.
L’uomo sembra invecchiare di dieci anni in un colpo solo. Perde colore sulle guance, rivolge a sua moglie uno sguardo indecifrabile.
-Babbo, che aspetti?- lo incalza la figlia maggiore. –Vattene, subito!
-Vai.- sussurra sua madre, prendendogli dalle braccia Anna. –A noi non faranno niente. Vai.
-Babbo.- la vocina di Maria è tiepida e timorosa. –Dove te ne vai?
-Da nessuna parte, tesoro. Sono qui vicino, nel bosco. Tornerò stasera, va bene? Voi comportatevi come si deve, e fate tutto quello che vi dicono Cesira e vostra madre.
Si inginocchia e allarga le braccia. Lilia, Adele e Maria ci si buttano a capofitto, abbracciandolo avidamente. Per quanto non sappiano cosa stia accadendo, intuiscono la gravità della situazione, e quindi è quasi con dolore che lasciano la stretta sulla camicia del padre. Lui si rialza, imponente, bacia sua moglie e deposita una carezza sulla fronte di Anna, poi abbraccia la sua primogenita, la sua giovane figlia adolescente.
-Ti voglio bene babbo.- borbotta Cesira abbracciandolo più forte che può. Lui ricambia la stretta con affetto, le scarruffa i capelli e scioglie la stretta, per poi uscire e sparire tra gli alberi del bosco dietro casa.
 

Il rumore degli scarponi e le urla dei tedeschi sono mostruosi. Genny viene trovata nella sua stanza da letto, con Mario stretto tra le braccia, sveglio e vigile, muto come un pesce. Un tedesco punta addosso a entrambi una mitragliatrice, e comincia a sbraitare parole senza significato. Per loro è solo una serie di suoni strani, terribili, cacofonici. Però Genny capisce il linguaggio del corpo, e soprattutto quello dell’arma che le viene puntata alla testa. Si alza dal letto stringendosi al petto il bambino, che sta fermo e sembra apparentemente tranquillo. Lei sa che ha paura, ma Mario è intelligente, sa che non deve lasciarsi spaventare, e soprattutto, deve stare calmo e cercare di passare inosservato. Il tedesco continua a urlarle addosso, facendosi precedere e puntandole il mitra tra le scapole. Genny cerca di non inciampare nei suoi stessi piedi, ed è difficile non farlo, visti gli scomodi zoccoli di legno che indossa.
Esce dalla stanza e trova davanti altri soldati che la costringono a seguire un percorso obbligato, giù per le scale, che scende di corsa, fino alla stalla, dove è stata ammassata già molta gente. Lì Genny posa a terra Mario, spingendolo rudemente dietro la porta.
-Mettiti lì dietro e non farti sentire.- lo ammonisce severamente.
Mario obbedisce, rapido ed efficiente: si nasconde nello spazio angusto tra la porta e il muro, là dove nessuno può vederlo. Genny invece caracolla addosso alle altre persone stipate nella stalla, solo donne, vecchi e bambini, che urlano, piangono, chiedono di uscire. Fa in modo che Mario riesca a vederla, così da tranquillizzarlo. Non le importa cosa sta succedendo, ha occhi solo per suo figlio, che adesso la guarda terrorizzato ma fedele alle sua raccomandazione. Le urla dei paesani si mischiano a quelle dei tedeschi, tutto diviene confuso e sfocato, mentre le lacrime bagnano il volto di Genny. Mario non vede che lei, ma lei vede e sa quello che sta per accadere: i tedeschi buttano la paglia all’entrata, e poi col lanciafiamme appiccano il fuoco. Le urla si fanno più alte, più disperate, così strazianti che vorrebbe gridare anche lei, per il caldo insopportabile, il dolore che prova nell’essere stritolata in mezzo a tutti gli altri che cercano invano di buttarsi sul fondo della stalla, spingendo i più esterni verso il fuoco. Il fumo sta già saturando la poca aria disponibile, e dilaga ovunque, lambendo anche i suoi piedi. Genny tenta come può di indietreggiare, ma quando il tedesco che ha appiccato il fuoco intercetta il suo sguardo, colto proprio nell’attimo in cui si posava sullo stipite della porta, e seguendolo sembra intuire che qualcosa si nasconde lì dietro, lei dimentica il caldo soffocante, gli strilli di paura degli altri bambini, i pianti delle donne, il fumo che le incendia i polmoni e la paura della mitragliatrice.
L’unica cosa di cui le importa è proteggere suo figlio, in qualunque modo le sia possibile.
Ed è con la forza della disperazione che in un attimo si sfila lo zoccolo di legno, duro e pesante, e sotto gli sguardi offuscati di chi ancora riesce a vedere in mezzo a quel fumo nero e divoratore, lo scaglia addosso al soldato tedesco, tremendamente vicino alla porta, colpendolo sulla schiena. Lo sente, il suono duro dello zoccolo contro l’uniforme impeccabile del soldato, e quasi gli si offre quando quello si volta con due occhi gelidi e vuoti, spaventosi, e le scarica addosso quasi tutti i colpi della mitragliatrice. Il dolore è immediato e lacerante, il sangue schizza dappertutto. Genny muore nell’istante in cui crolla addosso a chi le sta dietro, ucciso dagli stessi proiettili che hanno perforato la sua carne. Muore con l’azzurro glaciale dell’occhio del soldato tedesco impresso nella testa, ed è contenta che non sia il castano scuro e caldo di quelli di suo figlio, perché sarebbe stato un destino troppo crudele morire guardando Mario, il suo piccolo, solo e incassato tra porta e muro, alla mercé delle fiamme. Ha a malapena il tempo di scorgere la sfocata figura del solato che se ne va senza guardare cosa c’è dietro alla porta, fissa il soffitto fumoso con occhi vacui per una manciata di secondi, poi spira senza emettere un grido.
 

Milena sta camminando in silenzio, insieme ad altre cinquanta persone. I tedeschi li stanno scortando verso Vaccareccia, nessuno sa perché. Quando sono arrivate nel cuore del paese, lei e le altre due ragazze hanno avuto a malapena il tempo di lanciare l’allarme e mettere in fuga gli uomini, prima che arrivassero i tedeschi. Erano molti, tutti alti, biondi e giovani, di bell’aspetto e tranquilli, quasi rassicuranti, se non fosse per i mitra stretti tra le mani. Subito li hanno radunati nella piazza, mentre qualcuno di loro è entrato nelle case circostanti a svegliare chi ancora dormiva. L’aria si è riempita della loro parlata strana, così dura, spezzata, militaresca. Hanno trascinato all’aperto vecchi mezzi svestiti, scalzi e infreddoliti, senza neanche dargli il tempo di svegliarsi del tutto. Anche le donne sono state portate in piazza con i loro bambini assonnati, che si sono aggrappati alle gonne delle madri cercando di mantenersi svegli. Chi non si è sbrigato a raggiungere il gruppo al centro della piazza è stato afferrato per un braccio e spinto senza alcun riguardo. Jole, che ha cercato di sgattaiolare via per avvertire loro madre, impegnata a rigovernare le bestie, è stata schiaffeggiata da un graduato tedesco, che l’ha fatta rovinare a terra. Il sangue le è uscito dalla bocca macchiandole il colletto candido del vestito.
Adesso le sta camminando accanto, silenziosa e preoccupata. Non può fare a meno di guardarsi alle spalle, forse spera di vedere sua madre, da cui l’hanno separata così brutalmente, ma ovviamente lei non arriva. Il singhiozzo di Jole, i suoi occhi lucidi, vengono ricacciati dal suo tentativo di darsi un contegno, raddrizzando le spalle e tornando a guardare avanti, in silenzio come i tedeschi hanno imposto. Quelli marciano loro a fianco, guardandole in modo strano ma senza toccarle, forse troppo concentrati sul loro compito per poterle molestare, ma Milena non riesce comunque a tollerare quegli occhi azzurri e quei volti dai tratti affilati che la scrutano come se fosse un’animale. Di riflesso, cerca di rientrare nel folto del gruppo di paesani, stringendosi a Jole e Ilda,  sottraendosi come può allo sguardo del soldato tedesco che le cammina al fianco. Vorrebbe aiutare gli anziani, o consolare i bambini che avanzano sconsolati e impauriti perché li hanno separati dai genitori, ma non può infrangere il silenzio ordinato dai tedeschi, o il minimo che può subire è un’altra gragnola di schiaffi e un calcio nello stomaco al sapore di scarponi chiodati.
Il sole è alto nel cielo, e loro si riscaldano come possono, scalzi e leggeri nei loro abiti mattinieri. Qualcuno ha a malapena avuto il tempo di gettarsi uno scialle sopra il pigiama o la camicia da notte. Lei è una dei pochi a essere vestita di tutto punto.
Tuttavia Milena è abbastanza tranquilla, i Tedeschi non faranno del male a quelle persone indifese, non c’è nessun uomo giovane tra di loro, e sa che sono gli uomini che stanno cercando. Per questo non ha esitato ad avvertire Stefano appena è arrivata in paese, riuscendo miracolosamente a convincerlo a fuggire nel bosco, quando lui, brutto cocciuto, insisteva per restare con lei.
-Vattene, lo sai che io sono al sicuro!- aveva sbottato al colmo dell’esasperazione.
-Milena, non posso lasciarti qui, con la preoccupazione che tu possa essere picchiata, violentata e ammazzata.
-Devo cercare mia madre, avvertirla. Stefano, per l’amor di Dio, scappa. Se ti trovano è te che ammazzeranno. Oppure ti porteranno in Germania. Ti supplico, vai con gli altri uomini nel bosco.
Glielo aveva detto con un tono così denso di implorazione e dolore che lui non aveva potuto fare altro che assecondarla. L’aveva stretta ancora una volta, proprio come la notte appena trascorsa, e l’aveva baciata profondamente, con disperazione e amore.
La mano di Jole cerca la sua, e Milena la stringe forte, cercando di infonderle coraggio con lo sguardo. Mia sorella si spaventa per nulla, si ripete come una mantra, anche se la ferita sulle labbra non è proprio un nulla. E nemmeno le casse piene di munizioni che i tedeschi fanno trasportare ai vecchi -Milena sospetta che lo facciano apposta- è un nulla. Avanzano per circa dieci minuti, tra i bassi mugolii dei bimbi e i lamenti fiacchi degli anziani, mentre i tedeschi li continuano ad affiancare, con i mitra nelle mani e i nastri dei proiettili in bella mostra sul petto. Milena osserva che lungo il cammino ci sono altri gruppo di tedeschi e civili, anch’essi trascinati in strada in modo analogo al loro.
Arrivati a Vaccareccia, i tedeschi ricominciano a impartire ordini e spintonare, Milena e Jole vengono divise, sua sorella rimane con Ilda, ma la chiama ad alta voce, urla di spavento, piange debolmente. Lei, Milena e altre cinquanta persone vengo spinte in una vecchia stalla da cui sono state fatte uscire le vacche, in mezzo agli escrementi delle bestie e alla puzza rancida della paglia sporca. Sono troppi, in uno spazio troppo angusto. Vengono pigiati gli uni sugli altri, urlanti, spaventati, sofferenti. I vecchi e i bambini non sono abbastanza alti, non ce la fanno a immagazzinare aria a sufficienza, già si sentono mancare e invocano il nome dei loro cari, i bimbi chiamano i genitori, le donne strillano e se li stringono al petto, anche se non sono i propri figli. Chi può li solleva e gli restituisce un po’ di respiro. Milena è compressa sul fondo della stalla, vicino al muro e fra altre cinque persone. Annaspa alla ricerca di aria e chiama sua sorella ad alta voce, sperando di ottenere risposta, sovrastata da altre cinquanta voci che strepitano e piangono disperate. Lo hanno capito tutti che le intenzioni dei tedeschi non sono quelle che pensavano e speravano. 
Improvvisamente un soldato chiude la porta della stalla. Dentro cala un silenzio innaturale, rotto dai respiri ansanti di tutta quella povera gente. Qualcuno dice di aver sentito caricare le armi, qualcun altro ordina di restare calmi, ma Milena si chiede come si possa star calmi in una simile situazione, con i piedi sprofondati dello sterco di vacca e il terrore che le attanaglia lo stomaco facendole venire voglia di vomitare.
Poi la porta si riapre, e chi si trova in prima fila scorge il varco di luce esterna che inquadra una mitragliatrice puntata dentro la stalla, proprio contro di loro. Un soldato tedesco entra di nuovo, muto e pratico, si fa largo tra il gruppo di gente, che si apre come un sipario per lasciarlo passare, terrorizzata anche solo dall’idea di un contatto con lui. Quello raggiunge il fondo della stalla, vicino al punto in cui si trova Milena, e controlla che nessuno sia nascosto nella mangiatoia. Non guarda nessuno negli occhi, anche se nessuno di loro cerca il contatto visivo con quelle pupille agghiaccianti. Milena vede gli occhi di chi le sta premuto addosso: stralunati, stravolti dal terrore e dallo sgomento. Qualcuno piange senza ritegno, qualcuno continua a invocare il nome di qualche famigliare, qualcuno prega. Milena no, non prega, non si abbatte, anche se percepisce il pericolo. Si alza sulla punta dei piedi, cercando di individuare la testa bruna di Jole o quella ramata di Ilda.
Non appena il soldato esce dalla traiettoria dell’arma, la mitragliatrice apre il fuoco su di loro. I colpi si susseguono a raffica, investendo la prima fila e trapanandole le orecchie. Il caos regna ovunque: le urla hanno raggiunto un livello allucinante, il fumo e il fuoco che si attacca alla paglia cominciano a impregnare l’aria, l’odore del sangue le riempie le narici. Caduta la prima fila, il tedesco con la mitragliatrice si accanisce sulla seconda, mentre altri soldati lanciano bombe e legna infuocata. Vogliono seppellirli vivi, in una bolgia infernale fatta di fuoco e di sangue. Tutto intorno è il finimondo, una sequenza di immagini impazzite: qualcuno cerca di scappare, Milena vede chiaramente sua sorella Jole che cerca di guadagnare l’uscita. La mitragliatrice le spara addosso, come il tiro al piccione.
Cade a terra, grondando sangue, la lunga treccia ancora intatta e lucente.
Milena non riesce a urlare, la sua mente è mostruosamente lucida. Sa che sta per morire, ma non riesce a reagire al dolore che la tiene bloccata. Poi percepisce un dolore lancinante alle gambe, ai fianchi, alle braccia. Guarda in basso e vede che c’è sangue ovunque sul suo vestito azzurro. Lo sente fluire dal suo corpo e crolla in terra, sapendo che morirà dissanguata. Vicino a lei c’è Ilda, riversa con gli occhi aperti e vitrei. Milena si trascina accanto a lei, l’abbraccia forte, sente altri colpi al ventre, altre bombe e urla, capisce che è finita. Si sente riempita di piombo, tutto è più nitido, il dolore va oltre ogni immaginazione. Le sembra di essere al di là. Vede prati e cose irreali negli occhi vuoti della sua amica, e capisce che non morirà, non subito almeno. I tedeschi lanciano altre bombe, ma poi si allontanano, lasciandosi alle spalle quella carneficina. Milena vorrebbe piangere, ma è il pianto vivo e concreto di alcuni bambini che attira la sua attenzione. Sono tre, nascosti dietro a un muro di corpi, che strillano e chiamano disperatamente le mamme. Milena li conosce: sono Mauro, Giulio e Lina. Tossiscono e hanno sete. Quando si accorgono che li sta guardando smettono di piangere e la fissano con un sguardo intenso, carico di attesa.
Milena grugnisce nello sforzo di mettersi a sedere. Con uno strappo violento si squarcia il vestito, e usa pezzi di stoffa per tamponarsi le ferite. Poi, facendo appello a tutte le sue forze, attraverso uno sforzo inumano, riesce a sollevarsi. Tutto intorno a lei vortica vertiginosamente. Il soffitto sembra caderle addosso, ma sa che non si tratta di una semplice illusione: sta per crollare davvero. Arranca verso i piccoli, che le si attaccano alle gambe con una fiducia indefessa. Il calore e gli scoppi, e l’odore di carne bruciata la devastano nell’anima, ma non si scoraggia neanche per un momento. Cerca tra le assi del muro una scappatoia, una tavola più debole delle altre, e la trova, le tira un calcio, non basta, ne tira un altro, ignorando il dolore che rischia di sopraffarla a ogni respiro. Alla fine quella cede e si spezza, rivelando l’accesso a una cucina. Immediatamente ci si infila dentro, aiutando i bambini a fare altrettanto. Il puzzo anche lì è intollerabile. Milena zoppica verso l’uscita, e viene investita da un sole accecante. Non li vede, ma gli spari impazziti dei nazisti riecheggiano da ogni parte. Scappare nel bosco, ridotta in quello stato, è impossibile. L’unica possibilità rimasta è nascondersi.
Raggiunge i bambini, che la guardano in silenzio, con occhi sgranati. All’inizio Milena pensa di nascondersi nel forno, insieme ai piccoli, ma poi, istintivamente, ci ripensa, e decide di infilarsi nella caldana, tra la volta del forno e il solaio, portandosi dietro i bambini. La sofferenza è indescrivibile, ma non può fare a meno di abbandonarsi a un silenzioso pianto liberatorio quando vede gli occhi colmi di gratitudine e tenace fiducia dei tre bambini, rannicchiati addosso a lei.

 
I tedeschi non la smettono di sbraitare in una lingua che sanno benissimo che quei poveri contadini non riescono a capire. Cesira prova un odio bestiale nei loro confronti. Anche se li teme, non può fare a me o di desiderarli morti. L’hanno catturata quando, tornata indietro per cercare di mettere in salvo gli animali, -troppo preziosi per essere abbandonati- non è stata abbastanza veloce da evitare che quelli le puntassero addosso pistole e mitragliatrici. Quando l’hanno portata nel punto di raccoglimento, in mezzo alle case date alle fiamme, si è sorpresa vedendo sua madre e tutte le sue sorelle. Le aveva mandate avanti, perché non si erano affrettate?
-Cesira.- chiama debolmente la piccola Maria.
-Dimmi tesoro.
Le sorride. Si sforza di apparire calma, anche se il panico che regna intorno a lei non aiuta affatto.
-Che sta succedendo?
-Niente, Maria, stai tranquilla.- poi si china così da essere alla sua altezza, le prende una mano, mentre con l’altra chiama anche Adele e Lilia, fino a ora rimaste attaccate alla gonnella della mamma.
Bisogna approfittarne finché c’è abbastanza confusione da riuscire a passare inosservate.
-Qualunque cosa accada, dovete promettermi che non vi allontanerete da me e che non vi separerete. Restatemi sempre vicino, e se perdete di vista me o la mamma, o se una di noi ve lo ordina, voglio che scappiate, che corriate più velocemente possibile e che fuggiate nel bosco, nel punto dove è più fitto.
Le bimbe la fissano spaventate ma ricettive, e annuiscono subito quando chiede se hanno capito.
-Promettetemi che non vi arrenderete mai.- mormora ricacciando il nodo alla gola che la fa bruciare fastidiosamente. Le piccole glielo promettono diligentemente.
E poi i tedeschi sopraggiungono, strattonandola e facendole un male cane. Cesira vede il modo divertito con cui la guardano, uno di quei giovani nazisti allunga una mano guantata sul suo viso, e le asciuga le lacrime, sorridendole in maniera amichevole, ma che sul suo volto appare come una maschera grottesca. Cesira resta immobile, senza allontanare la sua mano, senza sfidarlo a guardarlo negli occhi, fantasticando di potergli staccare il braccio con la forza del pensiero. Il soldato le dice qualcosa in tedesco, lei non capisce e non risponde, lui passa una mano tra i suoi capelli caldi di sole estivo, e poi la sospinge verso sua madre, assestandole una pacca sul sedere e ridendo insieme ad altri nazisti.
Sua madre la stringe a sé con un braccio, mentre nell’altro tiene la piccola Anna, e la bacia sulla fronte.
Loro e un’altra trentina di persone vengono spinte contro il muro di una casa date alle fiamme, allineate in fila l’una accanto all’altra. Sua madre è in seconda fila, Cesira e le bambine sono in terza, attaccate al muro. Il tedesco che prima l’ha toccata, adesso è in piedi a gambe divaricate, con le mani sui fianchi, e sta impartendo ordini ai sottoposti. Un soldato arriva con una pistola, gliela offre. Quello la prende e la carica davanti a loro. Poi la punta alla testa del primo anziano a sinistra in prima fila e gli spara a sangue freddo. Le sue sorelle vedono tutto e scoppiano a piangere. Quello sposta l’arma alla testa della donna che stava accanto all’uomo e spara anche a lei. Vuole sterminarli a uno a uno. Cesira è terrorizzata, e istintivamente stringe una mano intorno al braccio della madre, che la copre con la propria, stringendola in una morsa convulsa.  Cesira si guarda intorno, affranta e agisce d’impulso: raduna le sorelle dietro di lei, addossandole al muro, facendo scudo col proprio corpo, mentre il tedesco, stanco di sparare alla tempia di altre venti persone, fa posizionare una mitragliatrice. Stavolta impartisce l’ordine di sparare a un soldato di grado inferiore, fermandosi accanto a lui e guardando le vittime di quell’imminente massacro.
 Poi viene aperto un fuoco di fila. Davanti a Cesira, uomini e donne cadono come marionette, senza neanche avere il tempo di urlare. Poi il fuoco devasta la seconda fila, ed è allora che lei spinge con tutte le sue forze, facendosi strada, aprendosi un varco tra le persone della terza fila e il muro della casa, seguita dalle sorelline che corrono come facevano poche ore prima, ma senza quell’aria giocosa. Corrono per salvarsi la vita, e tocca alla sorella maggiore proteggerle.
Il nazista con la pistola gli spara addosso tutti i proiettili, colpendo lei e Maria, che cade rovinosamente a a terra e strilla di dolore. Cesira è ferita al braccio sinistro, sa che è fuori uso, le provoca un dolore atroce, ma non esita a tornare indietro. Adele e Lilia sono immobili poco più avanti.
-Mettetevi al riparo!- grida furiosa, e le due si acquattano contro il muro di una stalla, nell’erba alta, mentre lei prende solleva Maria con l’unico braccio sano, mentre le urla dei tedeschi imperversano alle loro spalle.
-Svelte, qua dentro!-ordina alle altre sorelle, facendole entrare nella stalla, mezza distrutta da un incendio che imperversa su un fianco dell’edificio. Se proprio le vogliono inseguire, le inseguiranno nel fuoco.
Senza esitazione si sbatte la porta alle spalle e cerca un punto che non sia mangiato dalle fiamme e dal fumo, poi controlla le condizioni di Maria: è ferita all’addome, e sembra grave. Lei a ha gli occhi rossi e gonfi di lacrime, ma le confessa che la ferita non le fa poi molto male, che sta piangendo per Anna e la mamma.
Cesira l’abbraccia forte, e accoglie tra le braccia anche Lilia e Adele, rannicchiandosi su di loro per coprirle dal fumo, e per la prima volta dall’inizio di quell’incubo, comincia a pregare.
I nazisti si aggirano come cani famelici fuori dalla stalla, stanno decidendo se entrare o no. Alla fine decidono che probabilmente devono essere già morte soffocate dal fumo, o arrostite dal fuoco, e Cesira sente le loro voci che si affievoliscono. Aspetta ancora pochi minuti, quanti gliene sono concessi dall’incendio, che ormai minaccia di far crollare il soffitto, e poi si rimette in piedi, affidando Maria, che ha appena quattro anni, a Lilia, la quale la prende in braccio con uno sforzo e una determinazione encomiabile.
Cesira si riaffaccia fuori dalla stalla, guardando intorno circospetta. Dei tedeschi non c’è traccia, ma da lontano si odono altre urla e colpi di arma da fuoco.
-Uscite, svelte!
Le bimbe la seguono, reprimendo gli accessi di tosse per non farsi sentire, muovendosi scaltre nei loro vestiti nuovi, adesso logori, sporchi di sangue e di terra, irriconoscibili come loro, nere in faccia, coi capelli pieni di fango, di fuliggine, di sangue rappreso, e il verde dei loro occhi che si staglia splendente su tutto quel macello. Cesira le conduce davanti al muro dove si trovavano prima, e dove adesso i corpi dei morti sono a terra, buttati a caso, come un orrendo puzzle umano. Stanno per superarli, quando Cesira ode un vagito appena accennato. Anche le sue sorelle lo sentono, non è un’allucinazione.
Svelta, senza pensarci due volte, si getta tra quei corpi dilaniati, cercando febbrilmente, raggiungendo la terza fila e rabbrividendo alla vista di sua madre, il volto sfigurato e distrutto. Le braccia sono serrate intorno a qualcosa che si muove, un fagotto minuscolo, e Cesira le forza per riuscire a strappargli quel peso inconsistente. Si ritrova tra le braccia Anna, coperta di sangue, del suo sangue, che piange debolmente, quasi uggiolando. È ferita anche lei, ma lei se la stringe al petto e scoppia a piangere di gioia, baciandola e cercando di ripulirla come può dal sangue e dagli schizzi di materia grigia di altri cadaveri.
-Wohin gehst du?
Il grido del nazista schiocca nell’aria come una frusta, e il colpo di pistola manca Cesira per miracolo. Fa un balzo e supera uno, due, tre corpi inermi, guadagnando terreno, sentendo gli spari fischiare nell’aria circostante, ma continuando a correre a perdifiato, seguendo le sue sorelle nel bosco, verso la salvezza, senza mai fermarsi, anche quando sa che i tedeschi non le inseguono più da un bel pezzo. Corre finché i polmoni non stanno per scoppiare, senza neanche sentire il braccio che pulsa dolorosamente perché lo sta forzando col peso di Anna, corre insieme alle sue sorelle, alla piccola Maria, che è animata da una forza interiore feroce quanto la sua. E’ attaccamento alla vita, furiosa voglia di vivere, e Cesira l’asseconda, correndo fino a dover vomitare.
Soltanto allora lascia Anna a Lilia, si china e rigetta. Tutto il suo corpo è percorso da fremiti, le gambe stanno per cedere.
-Voi restate qui.- decide allora, esplorando la zona. C’è una specie di grotta nascosta sotto un dislivello nel terreno, incassata tra le felci e la radici di un albero. Sembra sicuro e decisamente lontano dai tedeschi. Non si sentono neanche più gli spari. Maria è madida di sudore, basta sfiorarla per sentire che scotta. Ha la febbre alta, è conciata malissimo. Per non parlare di Anna, che sembra in fin di vita.
-Vado a cercare papà e gli altri uomini. Non vi muovete, tornerò presto.
Annuiscono spaventate a morte, e Cesira sa che non vogliono restare sole senza qualcuno più grande che le rassicuri.
-Lilia, conto su di te.- mormora alla sorella di appena nove anni, la sua età quando ha smesso di essere una bambina. Lei la guarda dritta negli occhi, e Cesira capisce che anche lei ha smesso di esserlo in quel preciso istante.
-Trova babbo.- dice soltanto, e poi l’abbraccia.
 
 
Milena è sul punto di scoppiare. In quattro nella caldana stanno per morire di caldo. I tedeschi sono tornati indietro a mezzogiorno per verificare l’esito della loro opera. Sono arrivati anche in cucina e, pensando che qualcuno si fosse nascosto nel forno, vi hanno introdotto della paglia e gli hanno dato fuoco. Un calore insopportabile è arrivato fino a loro. I nazisti sono rimasti lì vicino per diverso tempo, Milena ne poteva sentire le voci concitate. Poi dopo circa sei ore, il silenzio è tornato così come se n’era andato. 
Milena decide di uscire a vedere se i tedeschi se ne sono andati. Esce prima lei dalla caldana e fa una ricognizione veloce della cucina: via libera. Allora fa uscire i bambini, disidratati e riarsi dal caldo.
Dal forno accanto provengono dei bassi lamenti. Quella che sembra essere una bambina, tanto è sudicia e ustionata, coperta da piaghe orrende, rotola fuori dal forno e piange tristemente, senza molto trasporto. Deve essere sfinita. Milena le chiede se è l’unica sopravvissuta. Sì. I suoi genitori sono bruciati vivi.
Moribonda, Milena arranca all’aperto. Il sole non è più cocente come a mezzogiorno, è tiepido, e illumina la campagna di mille colori. Milena è distrutta, sente solo di voler chiudere gli occhi, e quel che deve succedere succeda.
-Milena? Oh, buon Dio, Milena!
Qualcuno la sorregge, la chiama, sembra la voce di un uomo adulto, ma lei non vede e non capisce più niente. E’ sfinita, sta per svenire, o forse sta per morire. Non le importa più.
-Stefano, è qui, buon Dio, un miracolo! Stefano!
Qualcuno accorre, altre urla, altre imprecazioni, altre mani sul suo viso martoriato, e poi qualcosa di bagnato e salato, lacrime sulla sua pelle e parole dolci e ovattate.
Milena, amore mio.
 

Il muro è rimasto in piedi, bucherellato dai colpi delle mitragliatrici. I tedeschi se ne sono andati, e hanno lasciato dietro di sé una lunghissima scia di sangue e dolore. Cesira è tornata indietro a cercare superstiti. La speranza che la infiamma è come un fuoco che l’alimenta da dentro. Adesso che suo padre e gli altri uomini sono tornati, le sue sorelle sono al sicuro. Maria e Anna sono in un edificio adibito a pronto soccorso con altri feriti sopravvissuti alla strage, stanno ricevendo cure tempestive. Qualche paesano ha trascorsi medici. Sono stati franchi con lei e suo padre: Anna è in condizioni critiche, con ogni probabilità non supererà la notte. Maria è grave, ma qualcuno si arrischia a essere ottimista. Adele e Lilia, a parte qualche ferita superficiale, sono illese. Cesira ha un braccio che rischia di perdere, se non accetta di farsi curare, ma lei è stata chiara: finché non si fosse accertata che tutti erano morti davvero, non si sarebbe lasciata medicare.
E adesso sta cercando tra quei volti tumefatti e gonfi una traccia di vita, qualcosa che le permetta di aggrapparsi alla speranza, che le permetta di credere che la vita riesce davvero ad avere il sopravvento su ogni atrocità. Le hanno detto che è stata un’eroina, suo padre le ha pianto sulla spalla e ha ringraziato Dio di avergli dato quella figlia, di una tempra morale irriducibile, ma lei non crede in Dio, non crede più in niente, se non nella forza delle proprie mani e nella forza di volontà che la accende e la spinge a passare in rassegna un corpo alla volta, con attenzione maniacale. Dio non esiste, Dio non protegge, Dio non ascolta. Quando ha pregato, nella stalla devastata dall’incendio, non ha pregato Dio, ha pregato sua madre, affinché le desse la forza di sopravvivere per le sue sorelle. Ha pregato sé stessa, cercando di trovare il coraggio necessario per non morire di paura. Dio non c’è mai stato, e Cesira lo capisce soltanto adesso. L’unica cosa su cui si può contare è il sangue freddo e l’istinto animale che porta a lottare per sopravvivere. Essere spietati è l’unico modo per sopravvivere. Cesira vuole ardentemente riuscire a trovare qualcosa di buono tra quel cumulo di cadaveri, e quasi non crede ai suoi occhi quando, spostando il corpo maciullato di una donna, scopre, nascosto e mezzo schiacciato dal suo peso, un bambino minuscolo, può avere sì e no un anno, ferito, sporco di sangue….ma vivo. Si inginocchia, incredula, lo fa alzare attentamente col braccio sano. Il piccolo non piange, è troppo traumatizzato per riuscire a farlo.
Allora è lei che lo attira a sé e lo abbraccia forte, scoppiandogli a piangere sulla spalla, versando tutte le lacrime che non è riuscita a versare quando ha visto sua madre morta. Ed è un tale sollievo sentire che anche lui si unisce al suo pianto, sapere che nonostante tutto riesce ancora a provare sentimenti di tristezza che lo identificano come essere umano, che Cesira lo solleva con entrambe le braccia e se lo mette sulle gambe, crollando a terra e circondandolo con tutto il suo corpo, sentendo le sue gracili braccia che si aggrappano intorno al suo collo e stringono forte.

Finalmente, quell’orrendo 12 agosto sta volgendo al termine.

 
Le onorificenze: per non dimenticare

Cesira Pardini: medaglia d’oro al merito civile
«Nel corso di un rastrellamento e del successivo feroce eccidio perpetrato dalle truppe tedesche, insieme alla madre, alle sorelle ed altri vicini, veniva catturata e messa al muro ma, sebbene ferita dai colpi di mitragliatrice, riusciva a spingere le sorelle al riparo in una stalla retrostante. Successivamente, dopo aver tolto dalle braccia della madre uccisa anche la sorella neonata, le conduceva tutte in un luogo più sicuro, nei pressi del quale, pur nuovamente ferita dai militari in ritirata, individuava sotto un cumulo di cadaveri un bambino in tenera età ancora in vita, e lo traeva in salvo. Luminosa testimonianza di coraggio, ferma determinazione ed elevato spirito di solidarietà umana. »
 
Genny Bibolotti Marsili: medaglia d’oro al valor civile
«Con istintivo ed amoroso slancio, anche se gravemente ferita, per salvare la vita al figlioletto che aveva nascosto, non esitava a richiamare su di sé l'attenzione di un soldato tedesco, scagliando sul medesimo il proprio zoccolo, ottenendo in risposta una raffica di mitraglia che ne stroncava la giovane esistenza. Nobile esempio di amore materno spinto fino all'estremo sacrificio.»
 
Milena Bernabò: medaglia d’oro al valor civile
«Sedicenne, a seguito di un rastrellamento, veniva condotta insieme ad altri compaesani in una stalla, riuscendo a sfuggire ai colpi di mitragliatrice sparati dai soldati tedeschi protetta dai corpi della sorella e di un'amica. Sebbene gravemente ferita, si apriva un varco attraverso il soffitto della stalla, data alle fiamme dalla furia nazifascista, e portava in salvo, con istintivo e generoso slancio, altri tre bambini destinati a morte sicura. Luminosa testimonianza di coraggio e di elevato spirito di abnegazione.»
 
I fatti narrati sono accaduti realmente il 12 agosto 1944 a Sant’Anna di Stazzema. Le storie di Genny, Milena e Cesira sono vere nei fatti essenziali, io le ho romanzate in quelli secondari. Il figlio di Genny, Mario, è sopravvissuto alla strage, ed è stato lui a raccontare il nobile gesto compiuto dalla madre in quel terribile giorno. La storia che io ho raccontato ha molte versioni, su internet si trovano facilmente. Alcune più specifiche di altre riportano che Genny era già stata gravemente ferita al momento in cui lanciò lo zoccolo, o che questo colpì il soldato nazista in piena faccia. Mario rimase otto ore nascosto dietro la porta, riportando diverse ustioni sul corpo ma uscendo vivo dallo scempio che fu messo in atto in quella stalla. La vicenda che mi ha ispirato a scrivere questa breve storia è proprio quella di Genny Marsili, che diede la propria vita per salvare quella del figlio. Le storie di Cesira e Milena, il loro gesto di altruismo, mi hanno incentivato a riflettere sull’umanità e sul valore di persone così straordinarie, che antepongono la vita degli altri alla propria, in un momento in cui l’egoismo è l’unico sentimento che rischia di prevalere. Nella mia storia Milena ha diciotto anni, all’epoca dei fatti la vera Milena ne aveva appena sedici. Anna, la sorellina di Cesira, è morta in ospedale. E' stata la vittima più giovane del massacro, e a lei è stata intitolata la piazza del paese. Sono le protagoniste della mia storia, ma in quelle circostanze non furono le uniche eroine: altri personaggi, che io non ho riportato, sacrificarono la propria vita in nome di un ideale di libertà, di solidarietà, di amore e di umanità, ed è ognuno di loro che ammiro per ciò che hanno fatto. Ho riflettuto molto sul caso o meno di scrivere su questi fatti, soprattutto perché cosa posso saperne io di cosa provarono in quel giorno infernale? La mia è solo la chiave di lettura di una ragazza della stessa età che avevano allora Cesira e Milena, una loro coetanea, che si è commossa fino alle lacrime quando ha letto le loro storie.
I sentimenti che provarono quel giorno, spero davvero di non doverli provare mai.
 

  
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