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Autore: Ale666ia    10/10/2012    2 recensioni
Un mondo in putrefazione.
O sopravvivi o sei uno di loro.
Genere: Angst, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Quella mattina se ne stava andando in giro -come al solito senza una meta precisa- per il paese.
Conosceva a memoria il posto: non si era mai spostato da lì, da quando era nato. Vedere la propria culla conciata in quel modo fa un certo effetto.
Il tempo minacciava pioggia, c'erano delle nuvole immense e grigie che si estendevano fino a perdersi nell'orizzonte. Non riusciva a vedere la fine di quel temporale che tuoni e fulmini in lontananza andavano preannunciando.
Decise di entrare nel mercato locale. Magari avrebbe trovato qualcosa di sfizioso da mettere sotto i denti. Ne dubitava, visto che dalla morte del proprietario quel posto non aveva ricevuto più alcun rifornimento di cibo, ma tanto valeva la pena tentare: almeno avrebbe occupato un po' del suo inesauribile tempo libero.
Entrò, la mano sul calcio della pistola perché la prudenza non è mai troppa. Non che avesse paura, in quel momento, ma era un riflesso istintivo. Sapeva di non avere nulla da temere all'interno di quel piccolo edificio perché nessuno era entrato lì dentro da un sacco di tempo.
Cominciò a camminare tra gli scaffali, passando le dita sui supporti in plastica, facendo sì che la polvere si andasse a sistemare tra le invisibili scanalature dei suoi polpastrelli. Si fece strada tra scatole di cracker scaduti e verdura ammuffita (i cracker se li mise sotto braccio, tanto per scrupolo).
Quanti ricordi!
Gli venne in mente quella volta in cui lui e il fratello se ne stavano seduti dentro al carrello della spesa, circondati da sacchi colmi di cibo più alti di loro. Stavano aspettando che la madre tornasse, era andata a prendere qualcosa che si era dimenticata di prendere. Ad un certo punto Shannon si era alzato in piedi, e siccome il carrello era stato lasciato accanto al banco dei surgelati, si era sporto per controllare quali prelibatezze conteneva il box. Jared seguì il suo esempio: stavano cercando di capire se quello era un gelato al latte di riso o al latte di soia, quando il mondo si capovolse all'improvviso, ed entrambi rovinarono a terra, battendo forte le ginocchia sul pavimento.
Avevano rovesciato il carrello. Un po' per la paura, un po' per i sensi di colpa, erano scoppiati a piangere all'unisono talmente tanto forte che la madre era sbucata di corsa da uno degli scaffali più lontani... Poi il ricordo sfumava nel nulla.
Ora il banco dei surgelati era vuoto. Non c'era nulla, se non uno strato di polvere, insetti morti, ragni vivi e ragnatele. Così come tutto il resto del locale, dopo tutto.
Riuscì a trovare delle scatolette di fagioli messicani non ancora scadute, e se le mise intasca.
All'improvviso, la luce bianca di un fulmine illuminò tutto.
Tra poco avrebbe cominciato a piovere a dirotto.
Decise di sbrigarsi, non poteva continuare a perdersi nei ricordi, cosa che gli accadeva sempre più spesso, ultimamente. Diede un ultimo sguardo in giro, in caso ci fosse qualcos'altro da raccattare, ma ormai le provviste scarseggiavano... Scarseggiavano per davvero. Preferiva non pensarci, ma sapeva, nel profondo, che sarebbe arrivato il fatidico giorno in cui avrebbe dovuto contare solamente sull'orto di casa. E allora le sue scorte di cibo si sarebbero drasticamente ridotte.
Non c'erano più neanche le sementi, nell'emporio locale. Erano state utilizzate tutte. Certo, avrebbe potuto piantare qualche melo, qualche pesco, qualche pero. Ma poi? Sarebbe vissuto di frutta dolciastra, ci sarebbe riuscito? Si sarebbe rassegnato a sentire sempre lo stesso sapore sulle papille gustative?
Sicuramente lo avrebbe fatto, ma la sua vita sarebbe sprofondata sempre più nel pozzo nero dell'oblio. La sua alimentazione si sarebbe ristretta ancora di più, facendogli desiderare che la sua vita finisse presto, sempre più presto.
Un rumore di pioggia giunse alle sue orecchie, e si voltò di scatto, maledicendosi mentalmente: si sarebbe bagnato completamente, lungo la strada per tornare a casa. Viveva a circa cinquanta metri dal posto, ma l'acqua cadeva in modo torrenziale. Il suolo la assorbiva avidamente.
Uscendo dal locale, si soffermò un attimo sotto il piccolo porticato, stringendosi nella logora giacca di jeans che indossava, poi cominciò a correre.
Le gocce erano grandi, enormi, e si insinuavano lungo la sua spina dorsale facendo appiccicare tra loro stoffa e pelle nuda, creando un fastidioso senso di oppressione. Da terra si sollevava un leggero strato di polvere, destinato ad abbassarsi di nuovo entro poco tempo. Finalmente raggiunse la porta della propria casa e si rintanò nell'unico posto che considerava abbastanza sicuro da poter lasciare la pistola lontana da lui per qualche metro.
 
Si tolse in fretta i vestiti, eliminando quella sensazione di appiccicume dal suo corpo, e li mise a stendere su di un termosifone che non funzionava da molto tempo. Il cibo che aveva trovato lo mise all'interno della dispensa fissata sopra i fornelli, in compagnia di altre innumerevoli lattine e si sedette su una delle quattro sedie di legno che contornavano il tavolo.
La sedia su cui lui, quando tutto era normale, si sedeva per mangiare, per fare i compiti aiutato qualche volta dai genitori, qualche volta da Shannon. La sedia che lo aiutava a prendere i biscotti nascosti in un barattolo di vetro sopra al frigorifero, la sedia su cui si dondolava e da cui spesso cadeva, tra le risate generali e il suo imbarazzo sfociava in una furiosa richiesta di smetterla di ridere, smettetela, smettetela.
Fissava il vuoto. Non aveva di nuovo nulla da fare, ancora più di prima. Magari avrebbe potuto disegnare, sempre che non avesse perso il temperino, sempre che la matita non si fosse del tutto consumata. Questo pensiero lo rinfrancò un po', e così si diresse al piano superiore. All'interno di una scrivania nella sua camera conservava i fogli bianchi e tutto l'occorrente.
Più di una volta aveva lasciato perdere i supporti cartacei per dedicarsi alle pareti di casa, così spoglie. Quei muri bianchi lo facevano sentire ancora più solo, ed aveva cominciato ad abbellirli. Tracciava ghirigori senza senso, curve che si avviluppavano su loro stesse, onde del mare, carpe koi, come quelle che i filogiapponesi si facevano tatuare sulla pelle nuda.
Nello sgabuzzino aveva trovato alcune taniche di vernice non del tutto secca, qualche pennello, e si esercitava nella stesura del colore. C'erano arcobaleni che si estendevano lungo tutto il perimetro della cucina. Alberi stilizzati, alci, cani e gatti, volti umani lasciati a metà, strofe di qualche canzone che ormai non sarebbe più stata suonata da nessuno.
Evitava con minuziosa attenzione di imprimere sulle superfici che facevano sfogare la sua mente qualsiasi riferimento alla morte, alla depressione, alla solitudine.
Quegli animali gli tenevano compagnia, l'arcobaleno rischiarava le sue giornate. L'albero gli ricordava che da qualche parte in quel mondo, magari in una regione in cui il clima non era malvagio come lì, c'era un bosco popolato da volpi e farfalle, pini e larici che continuavano la loro vita come se niente fosse successo.
Comunque, fu proprio mentre saliva le scale di casa che notò qualcosa di strano. Più precisamente, quando i suoi occhi si posarono -per caso- sul vetro della finestra. Inizialmente non se ne accorse, ma c'era qualcosa, fuori.
 
Si bloccò improvvisamente. Avvicinò il viso al vetro sporco e impolverato.
Cos'è?
Strizzò gli occhi, le gocce di pioggia che cadevano lungo la superficie rendevano la visione ancora più difficoltosa. Sembrava un fagotto. Piccolo, grigio. Si muoveva. Subiva i colpi incessanti dell'acqua, e si muoveva.
Tese le orecchie, magari... ecco, l'aveva sentito.
Era un lamento.
Di nuovo il silenzio, e di nuovo il lamento. Un pianto di bambino, tipo, o comunque di qualcuno in tenera età. Eccolo, di nuovo.
No, il suo spirito altruista gli imponeva di andare a controllare di cosa si trattasse. Si immobilizzò nuovamente, mentre scendeva le scale di corsa.
E se...?
Scacciò subito quel pensiero, sbuffando. Come poteva aver pensato una cosa del genere? Loro di certo non avevano quelle capacità intellettive. Non avevano un minimo di intelligenza, non potevano tendere un agguato. A dire il vero, dubitava del fatto che loro avessero qualsiasi tipo di capacità intellettiva. Dopo essersi diretto verso la porta ed aver armeggiato con i vari lucchetti, uscì. Era a torso nudo, i vestiti li aveva lasciati sul termosifone. Chiuse la porta e si strinse nelle spalle. L'aria si era raffreddata parecchio, ma non importava. Magari era la volta buona che qualche malattia se lo portava via dalla faccia di questo triste mondo.
Il pianto, di nuovo!
Si diresse con circospezione verso la fonte del rumore, schiacciandosi alla parete. La pistola, comunque, ce l'aveva nelle tasche dei pantaloni. Per sicurezza.
Percorse il lato frontale della casa, svoltò l'angolo destro ed individuò il fagotto. Si avvicinò lentamente, mentre questo continuava a lamentarsi. No, non era un lamento umano.
Quando capì di cosa si trattasse, sgranò gli occhi.
Era un gatto, un gattino, un micio.
Non aveva contatti con qualcuno da più di due anni, e la consapevolezza di avere di fronte a sé un individuo, qualcuno in grado di interagire con lui, lo riempì di gioia. Il cuore pompò un enorme afflusso di gioia ad ogni parte del suo corpo, e lasciò perdere qualsiasi proposito di discrezione, anche quello più minimo. Corse verso il cucciolo, che continuava a lamentarsi, si inginocchiò di fronte a lui e si guardarono. Aveva gli occhi azzurri e splendenti, proprio come i suoi. Solo che Jared non li aveva più splendenti: i suoi erano gli occhi di chi ha già visto troppo, nel corso della vita.
Gli sorrise, un gesto che non faceva da molto tempo. Raccolse il micio da terra, era proprio leggero. Chissà dov'era finita la madre, chissà dov'erano i suoi fratelli e se ne aveva, chissà com'era finito lì. Se lo strinse al petto, cercando di ripararlo dalla pioggia. Il piccolo affondava piano gli artigli nella sua carne, era un po' spaventato. Jared lo rassicurò per quel che poteva.
Già provava per quel gatto un affetto immenso, già lo amava. Si rimise in piedi e fece per dirigersi verso la porta di casa. Ma raggelò. Perché c'era uno di quelli.
E lo fissava. Con la bocca semiaperta, i vestiti strappati cosparsi di sangue rappreso. Sangue nelle mani, tra le dita, sulle ginocchia, nei capelli incrostati di schifo e fango.
E quelle iridi. Dio, quelle iridi sanguigne lo fecero trasalire ancora di più, perché erano rosse, rosse come le budella che fuoriuscivano da quell'addome strappato.
Quello sguardo malvagio, quella posa da belva infernale.
Si guardarono. Il predatore era affamato. La preda non sapeva dove andare per mettere in salvo la propria vita, la sua e quella del gatto.
E fu proprio quest'ultimo a far riemergere entrambi dalla stasi temporale in cui stavano versando le cose: miagolò, il suono acuto di chi non capisce che una situazione è pericolosa.
Quel suono fu la goccia che fece traboccare il vaso, e la bestia di fronte a lui gettò un urlo sovrumano, e urlò così forte che entrambi i viventi si bloccarono con il terrore penetrato gelido fin nelle ossa.
Jared si riscosse proprio quando quel rumore infernale stava per finire, estrasse la pistola dalla tasca dei jeans, tolse la sicura, mirò e sparò un colpo. Ma il proiettile colpì il mostro al collo, e nonostante qualche goccia di sangue spillò dalla ferita, questo lo fissò con i suoi occhi morti, e ringhiò. Lo aveva fatto arrabbiare, e non poco. Sparò di nuovo, ma il colpo non partì, la pistola si era inceppata.
E Jared gelò, il gatto miagolò piano, e la bestia scattò verso di loro, trascinando sul terreno quei metri di intestino sporchi di terra.
In uno sprazzo di razionalità, Jared scattò dalla parte opposta. L'adrenalina gli facilitava la fuga, sentiva il mostro dietro di sé, troppo lontano per prenderlo ma troppo vicino per poter dire di essere in salvo. Si parò di fronte a lui la porta di casa prima di quanto immaginasse. La aprì di scatto, fece scivolare sgraziatamente il gatto sul pavimento e, balbettando parole senza senso, si affrettò a chiudere tutta quella terribile realtà che lo circondava fuori della porta di casa. Mentre chiudeva gli ultimi due lucchetti, sentì un colpo sordo che lo fece indietreggiare. Il mostro era lì, a pochi passi da lui, solo una porta di legno li divideva, ed ora ruggiva di frustrazione perché l'antipasto e la portata principale erano riusciti a mettere in salvo la propria vita.
Jared tremava.
Stavolta c'era andato molto, molto vicino.
Quando si girò e vide il gattino che lo osservava con i suoi splendidi occhi luminosi, dimenticò la paura appena provata, e un lume di speranza gli riscaldò il cuore.
Forse c'era ancora qualcosa per cui valeva la pena vivere, a questo mondo.
Ma il diabolico grattare di unghie sulla porta gli fece piombare nuovamente il cuore nell'abisso.
 
Cenarono assieme, seduti a terra. Al gatto diede dei cracker impastati nel liquido saporito dei fagioli in lattina. Non si era mostrato molto entusiasta, ma dopo aver capito che non ci sarebbe stato nient'altro, si rassegnò e divorò tutto in poco tempo.
Poi si addormentarono. Jared prese il gattino e lo sistemò sotto le coperte con lui. Gli fece appoggiare il muso sul suo avambraccio destro, e si scaldarono a vicenda.
Al mattino, Jared fu l'unico a svegliarsi, perché il gatto era morto durante la notte.
  
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