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Autore: Mabelle    13/10/2012    6 recensioni
Non era amore, perchè sapeva che per loro due non ci poteva essere un’inizio, era gratitudine nei confronti di una persona che in poco tempo l’aveva fatto sentire parte di qualcosa, di un mondo che non accetta errori. Proprio per questo l’avrebbe ricordata per sempre, perchè le persone come lei non si dimenticano, le persone come lei non se ne vanno mai, ma restano. Lei sarebbe restata, per tutti. Ed ora toccava a lui rimanere per lei, perchè nella sua vita Sandy aveva visto tante persone andarsene e ritornare dopo tanto tempo solo per ricordarle che se ne erano andate. Lui l’avrebbe ricordata per sempre come la ragazza che scrive.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Vi consiglio di leggere la One-Shot ascoltando "Le Valse D'Amélie" - cliccate sul nome che vi porterà automaticamente alla canzone - 


The Elevator.


Percorreva lentamente il corridoio di quel luogo caratterizzato dal colore bianco: pavimenti bianchi, letti bianchi, banconi bianchi; ma si macchiava velocemente di rosso. Il rosso del sangue interrompeva quella purezza che alla mattina, per alcuni minuti, regnava in quell’edificio dove sapevi quando entravi, ma non quando e se uscivi.

Nell’ospedale ci nascevi, per alcuni giorni era la tua culla, la tua casa, ma poco dopo te ne andavi e non sapevi quando saresti tornato; ma nell’ospedale muori anche, è in quel luogo dove si disperdono i tuoi ultimi respiri, gli ultimi sguardi, battiti che si infrangono lungo le pareti e vengono respinte da quelle mura troppo forti per permetterti di sopravvivere. Le ultime cose che vedi sono tante persone intorno a te, ma dentro ti senti solo perchè sai che non ci sarà nessuno ad aspettarti, che te ne andrai così come sei nato: in silenzio, ma porterai affanno, movimenti svelti e bruschi di quelle persone che ti guarderanno un ultimo istante e forse per la prima volta nella loro vita avranno fede.

Per Harry era sempre un’angoscia entrare in quell’edificio, gli mettevano ansia tutti quei movimenti svelti, gli sguardi di sfuggita che devi decifrare e se sbagli potresti causare gravi danni. Ogni giorno percorreva lo stesso tragitto per raggiungere il suo amico Louis che era stato operato al ginocchio la settimana precedente. Ogni mattina lo stesso respiro profondo prima di entrare e di essere sovrastato dall’odore di disinfettante ed eccoli tutti, alcuni in camice bianco, altri verdi che non ti vedono, ti passano di fianco e tu ti domandi come facciano ad alzarsi ogni giorno con la consapevolezza che qualcuno morirà e nessuno potrà fare nulla.

Voltò diverse volte lo sguardo e le uniche cose che vide furono i carrelli, le barelle poste ai lati del corridoio per le emergenze e poi l’ascensore, il solito che prendeva per salire al piano di Louis, dato che la forza di fare le scale non ce l’aveva, ma quello sarebbe stato l’ultimo giorno perchè il suo migliore amico sarebbe stato dimesso, finalmente.. L’ospedale lo annullava, come se al suo interno lui, un povero essere umano, non potesse fare nulla e doveva solo osservare. Premette il tasto dell’ascensore e dopo pochi minuti vide le porte aprirsi, per la prima volta non lo trovò vuoto. C’era una ragazza, appoggiata contro una delle pareti di metallo, lo sguardo basso puntato sul suolo e lo alzò solo quando le porte si chiusero. Fu uno scambio veloce di emozioni, due paia di occhi chiari che si incontravano in un luogo buio, due visi pallidi che presentavano un leggero rossore sulle gote, le labbra secche di entrambi. Harry notò subito i capelli ricci, biondi, che le ricadevano sulle spalle e da lì non si muovevano, come se avessero trovato il loro posto. Il ragazzo si appoggiò alla parete opposta a quella della ragazza, ma prima premette il tasto per indicare a quale piano era diretto: quarto piano, la bionda non fece obiezione, così capì che anche lei aveva la sua stessa destinazione. L’ascensore cominciò a salire lentamente, come se fosse uno sforzo, come se ci fosse un peso alla base che lo trattenesse, Harry sentì dei cigolii, sfreghi metallici e poi più niente. Tutto si era fermata in quel piccolo parallelepipedo di acciaio, immobile come se avesse deciso di non continuare il suo tragitto. Harry premette insistentemente il tasto del quarto piano, ma nulla. Nessun rumore. Silenzio.

«Perchè ci siamo fermati?» la voce della ragazza tremava, l’avvertì come un sussurro, poi si voltò verso di lei e la vide, le mani appoggiate al freddo metallo come se si stesse sorreggendo, le gambe unite e sembrava che da un momento all’altro sarebbero cedute e non avrebbero più potuto sorreggere il suo corpo seppur esile e minuto.

«Non lo so. Suppongo che ci sia un guasto.» il ragazzo si appoggiò nuovamente alla parete, cercando di mantenere la calma.

«Un guasto.» ripeté la ragazza sempre con voce tremante. La sentì respirare velocemente, come se la mancasse l’aria, la vide mordersi il labbro e sfiorarsi i capelli continuamente.

«E’ tutto okay?» le domandò, sperando di calmarla.

«Sì, sì - lo guardò con espressione preoccupata, uno sguardo terrorizzato - no, non è tutto okay. Soffro di claustrofobia.» e in quel momento capì il comportamento nervoso della ragazza, quei continui movimenti e tocchi. Non sapeva cosa fare, se non sperare che l’ascensore ripartisse.

«Premo il tasto d’emergenza.» schiacciò quel cerchio giallo con all’interno la forma di un campanello dall’allarme, tirò fuori il cellulare: non c’era campo.

Il suo sguardo si posò nuovamente sulla ragazza e non poté non notare che il suo stato di ansia era aumentato, continuava a sfregarsi le mani, mentre i suoi occhi erano persi in un’espressione di terrore.

«Io mi chiamo Harold, ma i miei amici mi chiamano Harry.» interruppe il silenzio, sperando che parlando l’avrebbe calmata, ma per alcuni minuti non ricevette risposta.

«Non mi piace.» ammise la ragazza, Harry aggrottò la fronte.

«Il mio nome?»

«Harry.»

«Puoi chiamarmi Harold, allora.» sorrise debolmente, ma la ragazza non cedette e mantenne la sua espressione di preoccupazione.

«Io mi chiamo Sandy.» aggiunge la bionda e questa volta sorrise anche lei, come se volesse scusarsi della piccola offesa che gli aveva procurato.

«Sandy, perchè non hai preso le scale dato che soffri di claustrofobia?»

«Io...io non ho abbastanza forze.» non capì quella risposta, gli parve così criptica ed enigmatica.

Harry si sedette per terra, le gambe gli dolevano e gli girava leggermente la testa, ma era calmo, sentiva di poter gestire la situazione, almeno per un po’.

«Perchè sei qua, Harold?» gli domandò la bionda, sedendosi accanto a lui, notò che i suoi movimenti erano lenti e sulla sua fronte si facevano spazio piccole rughe di espressione che segnalavano il dolore e la fatica che stava provando per compierli, ma una volta seduta scomparvero.

«Il mio migliore amico è stato operato al ginocchio, oggi lo dimettono. E tu, Sandy?»

«L’ospedale è diventato la mia seconda casa, ormai vengo qua così spesso e so che prima o poi non ne uscirò più. Questo mi spaventa, sai.»

«Sei qua per un controllo?»

«No, sono venuta per restare fino alla fine.» rispose Sandy con un tono di voce così limpido che lo spaventò, tanto da farlo riflettere su quell’affermazione.

La ragazza, nonostante tutto, si era calmata, non del tutto naturalmente, ma stava cercando di controllare la sua respirazione, a volte si faceva prendere dal panico e cominciava nuovamente a torturarsi il labbro, a muovere velocemente le mani fra di loro, spostare lo sguardo da un punto all’altro, picchiettare il piede.

«Ogni volta che entro in un ospedale penso sempre che sarà l’ultima, che accadrà qualcosa che mi costringerà a rimanere qua, in un letto, ma poi i medici mi fanno un sorriso, di quelli falsi però, e mi dicono che ho tempo. Io so che non è così, che il tempo passa, e non aumenta, ma diminuisce.»

«Perchè dici così, Sandy?»

«Perchè è così, Harold. Almeno per me. Ti auguro di vedere meno ospedali possibili nella tua vita.» rise e così fece anche Harry. Era davvero strana quella ragazza che era seduta di fianco a lui, sembrava così timida all’inizio, mentre alla fine si era rivelata così piena di storie da raccontare, di sensazioni e di verità, e a lui piaceva ascoltarla. Aveva questa capacità di portarti all’interno delle sue parole e di fartele conoscere una ad una.

«Cosa fai nella vita, oltre che rimanere rinchiuso in un ascensore?» gli domandò, con quel pizzico di ironia che gli bastò per fargli capire che era veramente interessata alla tua vita, che voleva conoscere, che voleva sapere e lei avrebbe fatto lo stesso.

«Lavoro in una panetteria, forse andrò al college, ma non c’è nulla di sicuro. E tu?»

«Scrivo.»

«Canzoni?»

«No. Scrivo di me, di quello che sarei stata e che sarei potuta essere.»

«Magari mi farai leggere qualcosa un giorno.»

«Dubito che ci incontreremo di nuovo, Harold.»

«Non essere così pessimista, Sandy.» forse quella ragazza non era pessimista, ma realista. Forse stava vedendo le cose per quello che realmente erano, solo che ad Harry mancava quel piccolo di perspicacia per capire e rendersi conto di quello che stava accadendo. 

«Non respiro.» la ragazza cominciò a sventolarsi una mano davanti alla faccia come per farsi aria, respirava velocemente, gli occhi semichiusi.

«Stai tranquilla.» le disse, ma sapeva che tranquilla lei non poteva stare. Era come essere rinchiusi in una scatola, sigillata, non puoi uscire, sei costretto a rimanere lì, immobile, ogni movimento di costa uno sforzo in più, un gemito di dolore che si aggiunge agli altri, ti duole la desta, vuoi uscire ma non puoi. Non gridi, ma urli dentro di te. Ti devi liberare. Devi respirare. Devi sopravvivere.

Harry le si avvicinò cautamente e gli posò una mano sul braccio come per farle sentire che lui c’era, che doveva calmarsi perchè andare nel panico era sicuramente la scelta sbagliata.

«Non ce la faccio. Devo uscire. Aiuto.» deglutì rumorosamente, le labbra secche e le gote sempre arrossate.

«Inspira. Espira.» le ordinò Harry, Sandy obbedì. Continuava a ripeterle quelle due semplici parole, ma vedeva che si stava calmando, che stava di nuovo cercando l’equilibro e non la caduta. Sandy gli strinse la mano ed Harry fu colto improvvisamente da quel gesto, era stato uno scossa, tutto così veloce e in poco tempo, ma non represse quella stretta perchè sapeva che lei aveva bisogno di sicurezza e l’unico che poteva dargliela in quel momento era proprio lui.

«Perchè ci mettono così tanto?» gli domandò

«Molto probabilmente staranno cercando di capire dov’è il guasto. Dobbiamo solo aspettare.»

«Aspettare, certo. Sono preparata, io lo faccio da una vita.» le sorrise e lei ricambiò. La luce al neon dell’ascensore era debole, lampeggiava e ogni tanto scompariva.

«Questo ascensore deve essere molto vecchio.» aggiunse Harry, cercando di tranquillizzarla, ma non ci riuscì più di tanto.

Harry pensava a cosa stesse accadendo al di fuori di quelle mura di metallo, magari c’era stato un incidente e alcuni medici si stavano dirigendo velocemente alla sala operatoria, oppure in quel preciso istante qualcuno stava morendo, magari un neonato faceva capolino nel mondo. Lui non lo sapeva, ma di una cosa era certo: al di fuori di quell’ascensore il mondo stava continuando, non si era fermato, a differenza loro. Forse era stato il destino a programmare quell’incontro, chissà, ma Harry era felice di essere lì e l’idea di riprendere la sua solita quotidianità lo metteva a disagio, era piacevole stare seduti accanto a Sandy e poter fare qualcosa, con qualcuno. Magari anche lei pensava lo stesso, probabilmente si chiedeva perchè proprio quel ragazzo, che cos’avesse di tanto speciale per entrare in punta di piedi nella sua vita, come mai proprio in quel momento, in quell’ascensore, quel giorno, a quell’ora, insieme a lei.

Poi accadde tutto così velocemente, la luce al neon si fece più intensa, si sentirono degli sfreghi metallici e degli ingranaggi ripartire, piano piano l’ascensore riprese il suo tragitto, questa volta con meno fatica ma si sentiva che era uno sforzo; Harry si alzò di scatto, Sandy lo guardò e capì, le porse la mano e la tirò su delicatamente. Sandy si sistemò i capelli, si sfregò le mani sui pantaloni e aspettò, Harry fece lo stesso. Le porte si spalancarono e videro lo stesso ambiente di prima, solo un po’ più calmo e tranquillo, come se anche loro avessero deciso di prendersi una pausa e rilassarsi.

Due figure si fecero spazio davanti a loro ed Harry dedusse dal loro abbigliamento che erano coloro che avevano fatto ripartire l’ascensore.

«Ci scusiamo per l’inconveniente. Il guasto era elettrico perciò ci abbiamo messo più del previsto.» 

«Non si preoccupi - intervenne Sandy - vi ringraziamo per il lavoro che avete fatto.» ci fu una stretta di mano per ricambiare il loro favore, Harry, dentro di sé, li ringraziò per averci messo così tanto tempo e permesso a lui di conoscere quella ragazza.

«Sandy...» la chiamò, si voltò. In quei pochi secondi che gli rimasero sentì dentro di sé il dovere di dirle “grazie”, di fermarla e di confessarle che voleva conoscerla, perchè sapeva così poco eppure c’era qualcosa in lei che non gli permetteva di lasciarla completamente: questo suo rivelarsi, ma non fino in fondo; questa sua capacità di ascoltare e darti la convinzione che lei nelle parole sapeva navigarci. Tuttavia, non fece nulla. «Buona fortuna.» le disse semplicemente, come se fosse la cosa più corretta. «Anche a te, Harold.» gli rispose, sorridendogli, per poi avviarsi verso il fondo del corridoio.

Scrollò le spalle e si diresse verso la stanza del suo migliore amico, ormai conosceva a memoria il numero e dove si trovava, troppe volte era passato di lì. Finalmente vide la stanza, affrettò il passo.

«Harry, finalmente!» esclamò Louis, il quale era seduto sul letto, già vestito e con la stampelle vicino a letto, pronto per andarsene.

«Scusa, ci ho messo un po’ ad arrivare.»

«Cosa è successo?»

«Uhm, niente, niente.» mentì spudoratamente perchè non aveva voglia di dirgli che aveva conosciuto una ragazza, ma non una ragazza qualunque, lei era Sandy, la ragazza che scriveva. Non poteva raccontargli dei suoi lunghi capelli biondi e ricci, gli occhi verdi tendenti al marrone chiaro, le gote rosse e le labbra sottili. Non poteva raccontargli che lei soffriva di claustrofobia e aveva avuto un attacco di panico. Non poteva raccontargli che quell’incontro lo aveva segnato. Non poteva raccontargli che avrebbe voluto rivederla, avrebbe voluto fermarla e alla fine non ce l’aveva fatta. Non poteva, non oggi e forse nemmeno domani. Perchè ci sono delle cose che sono solo tue, che ti appartengono e nessuno potrà mai capirle, semplicemente a volte è meglio tacere e ricordare dentro se stessi. I ricordi valgono più di mille parole.

«Andiamo?» lo incitò Louis, afferrando le stampelle e raggiungendo la porta facilmente, Harry fece lo stesso e pensò che, molto probabilmente, mentre lui era rimasto rinchiuso nell’ascensore, Louis si era allenato con le stampelle.

«Dobbiamo passare per oncologia, firmare dei documenti al bancone dell’ingresso e poi ho finito. L’ascensore è fuori uso, altrimenti ci saremmo risparmiati quel reparto.» e Louis non sapeva che all’interno di quelle mure di metallo c’era stato proprio Harry, che lui era stato fermo per più di un’ora, con lei. 

Si mise di fianco al suo migliore amico, in modo che se fosse caduto l’avrebbero preso, Harry aprì le porte del reparto di oncologia ed entrò. Quello era il luogo della fine, il momento in cui tutto cessava e lui lo stava attraversando e si sentiva a disagio, era un po’ come dire “ehi, io sono ancora qua, non so se tu domani vedrai ancora l’alba” ed era orrendo tutto ciò. Era orribile sentirsi impotenti davanti a queste persone che stavano lottando pur sapendo che nella maggior parte dei casi avrebbero perso.

Voltò lo sguardo a sinistra, verso una stanza con la porta aperta, e fu come un richiamo, una strana sensazione e poi la vide. Distesa nel letto, una flebo al braccio, aveva gli occhi chiusi forse stava riposando e in quel momento capì tutto. Ecco cosa significava il suo aspettare, la sua fine, le poche forze. Lei era malata. Lei aveva il cancro. 

«Harry, tutto okay?»

«No.» rispose freddo il ragazzo. Non poteva lasciarla lì, sola, senza nessuno.

Louis non fece più alcune domanda, arrivarono al bancone dell’ingresso e compilò velocemente diversi documenti, dopo di che uscirono dall’ospedale. Per Harry quel gesto fu come voltarle le spalle, abbandonarla ed era assurdo perchè si conoscevano da poco più di un’ora, ma lei non si meritava questo, lei aveva bisogno di qualcuno che le raccontasse quanto fosse bello il tramonto d’inverno, dei girasoli che sembrano sorridere, di quanto sia buona la cioccolata, ma è più buona se a berla si è in due. E quel qualcuno era proprio lui: Harry.

Non era amore, perchè sapeva che per loro due non ci poteva essere un’inizio, era gratitudine nei confronti di una persona che in poco tempo l’aveva fatto sentire parte di qualcosa, di un mondo che non accetta errori. Proprio per questo l’avrebbe ricordata per sempre, perchè le persone come lei non si dimenticano, le persone come lei non se ne vanno mai, ma restano. Lei sarebbe restata, per tutti. Ed ora toccava a lui rimanere per lei, perchè nella sua vita Sandy aveva visto tante persone andarsene e ritornare dopo tanto tempo solo per ricordarle che se ne erano andate. Lui l’avrebbe ricordata per sempre come la ragazza che scriveva.











MABELLE.
Era da un sacco di tempo che non scrivevo os e devo dire che mi mancavano. Questa os è nata grazie alla lezione di italiano, dove io non ascoltavo la prof e quindi ho iniziato a pensare a questa storia, modificandola nel corso dei giorni fino a scriverla per esteso. 
Devi dire che era da parecchio che volevo scrivere una os su Harry, ma non era ancora il momento giusto per farlo, io non me la sentivo. Ad Harry ho voluto lasciare qualcosa di importante, non chiedetemi perchè, ma ho portato avanti questo pensiero per un po'. Con Harry volevo che la protagonista fossi esattamente io ed eccomi, sono io Sandy.
Spero davvero che vi piaccia e che vi emozioni come ha emozionato me nello scriverla. Tengo molto a questa os.
Ringrazio in anticipo chi leggerà. Per me è davvero importante.
Ora evaporo.
Love you.

Twitter: @xharrysbreath

  
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