Terzo Capitolo:
Il
risveglio
Guardavo mio padre
mentre leggeva un voluminoso libro antico.
La luce della
candela gli illuminava il viso dai tratti dolci, mostrando la pelle perfetta,
gli occhi verdi giallastri bellissimi e la lunga chioma mossa e aurea. Teneva la
testa leggermente inclinata, concentrato nella lettura, però, appena incrociò
il mio sguardo timido, fece subito un ampio sorriso e tese la mano destra, come
se mi volesse al suo fianco.
Mi alzai dal mio
posto di totale ombra e cominciai a correre verso di lui, anche se fu
completamente inutile.
Ogni passo che
facevo, si allontanava sempre di più, fino ad abbandonarmi nel più totale buio
e solitudine.
Dopo un attimo di
completo silenzio, si levarono le risate di alcune figure grigie che nel frattempo
mi avevano circondato. Esse mi schernivano, chiamandomi Mostro, Abominio persino Demone.
Effettivamente ero
una cosa che non avrebbe dovuto nascere, il frutto dell’unione fra uno
Shinigami e un Demone, eppure mi sembrava un accanimento fin troppo esagerato: insomma,
anch’io avevo dei sentimenti e loro -quei volti cinerei senza nome- me li
avevano calpestati come se niente fosse.
Però, al contrario
di ciò che pensavano, io non ero un ragazza debole (almeno caratterialmente).
Raccolsi ogni mio granulo di forza e scattai in avanti, pronta a far zittire
una di quelle tante sagome con un sonoro pugno in pieno viso. Purtroppo,
proprio quando stavo per reagire, la scena intorno a me si scurì
improvvisamente, diventando totalmente nera per qualche istante, finché non
aprii gli occhi.
All’inizio vedevo
unicamente delle figure sfocate intorno a me, poi quando mi abituai alla fioca
luce e sforzando anche un po’ di più la vista, quelle forme divennero più
definite.
Mi sedetti,
guardando il pollo Shinigami che era intento a divorare i biscotti a forma di
osso, i quali avevano riscosso abbastanza successo visto che anche la bambina,
seduta su una bara poco distante, li stava mangiando.
<< è
viva!>> esultò la ragazzina, correndo verso di me.
<< Cavolo...
ed io che avevo puntato il contrario>> bofonchiò il volatile <<
Ehm... va bene se ti pago con fiale di dubbia provenienza? Non ho spicci con
me>>
Lei frenò la corsa
e si diresse verso il gallo, cominciando poi a scuoterlo come se si trattasse
di uno di quei porcellini-salvadanaio. Con un tintinnio acuto, caddero al suolo
talmente tante monete e pacchetti di banconote che restai esterrefatta. Nella
mia vita non avevo mai visto così tanti soldi tutti assieme.
<< Violet, lasciami!
Quelli sono miei, li ho guadagnati onestamente!>>
poi, accorgendosi forse dell’enorme sciocchezza che aveva detto, continuò
<< Insomma... a voi non interessa come li ho guadagnati! Siete soltanto
delle vecchie megere>>
Sospirai e poi sobbalzai,
notando soltanto in quel momento che mi trovavo in una bara.
Un brivido di
freddo mi percosse la schiena: c’era mancato pochissimo alla mia morte.
Non tardai
ovviamente a balzare fuori dal luogo del mio futuro ultimo viaggio. Futuro
remoto, spero.
Scostai i petali
color cobalto dalla mia lunga chioma, notando con orrore che era... candida
come la neve appena caduta.
Okay, devo
ammetterlo, non ero bionda naturale infatti usavo l’henné per colorarli, però
c’era un motivo ben preciso sul perché me li tingevo. Insomma, con i capelli
della mia vera tonalità sembravo tale e quale a mia madre (tranne per gli occhi)
e visto che lei era un demone, volevo assomigliarle il meno possibile.
Ero cresciuta con
una mentalità da Shinigami e per me era molto difficile accettare la verità di
non poter mai essere una creatura completa. Ero un Dio della Morte che per
combattere si serviva anche dei poteri demoniaci, perché, sebbene ogni volta ricevevo
una ramanzina da William e nei casi più gravi rischiavo anche di rimetterci il
posto, era nella mia natura. Seppur mi sforzassi di essere una Shinigami in
tutto e per tutto, quando combattevo non riuscivo ad utilizzare unicamente la
metà delle abilità, poiché avrei rischiato di rimetterci la pelle. Non ero
invulnerabile come i miei colleghi, (anche se avevo comunque delle resistenze
elevate) quindi mi veniva spontaneo utilizzare ogni mio potere sovrannaturale
pur di salvarmi dalla morte.
<< Volete
del tè?>>
Il becchino fece
capolino da una porta che, con molta probabilità, conduceva ad una sorta di
laboratorio. Portava un vassoio su cui erano appoggiati dei contenitori con
delle tacche sui lati, o almeno così credevo, perché avevo la vista un po’
annebbiata.
<< Io lo
bevo volentieri>> dissi mentre con lo sguardo cercavo le mie lenti. Dove
potevano essere andate a finire? Come minimo le aveva ancora fra le ali quel
volatile da padella.
<< Ti sei
svegliata. Era comoda la bara che ho fatto su misura?>>
<< Ehm...
sì... per essere comoda è comoda. Ma... sei stato tu a togliermi la
tinta?>>
<< Sì! Ti ha
anche cambiato l’abito! Il tuo era tutto rovinato e poi con quella tunica stai
molto bene!>> rispose la bambina.
Diventai bordeaux.
Dentro di me bruciava un sentimento misto fra imbarazzo e nervoso che sfociò però
in un mutismo irreale.
Fin da piccola non
avevo mai amato l’idea che qualcuno mi vestisse, infatti William quando voleva
farmi indossare degli orripilanti vestiti da bambina doveva sempre chiedere
l’aiuto di altri due Shinigami per tenermi ferma. Lui diceva che era faceva
tutto ciò per mia madre, infatti lei
avrebbe tanto voluto vedermi agghindata come una bomboniera ambulante. Io
invece ero convinta che lo Shinigami tanto fissato con le regole possedesse,
nel profondo, una mente sadica e bacata, simile a quella di Grell.
Insomma Will, colui
che si lamentava tanto dei Demoni, cambiava radicalmente opinione quando
parlava di mia mamma, come se in passato l’avesse conosciuta e... avesse
provato dei sentimenti.
Ovviamente questa era
fantascienza, poiché l’omino di ghiaccio non poteva provare emozioni. Mi aveva
presa con sé unicamente perché era stato un preciso ordine proveniente dai
piani alti, non di certo per misericordia.
Afferrai la tazza
di tè e poi, dopo aver aggiunto tre cucchiai di zucchero e tanto limone,
sorseggiai la bevanda assorta nei miei pensieri.
Non riuscivo a
comprendere l’atteggiamento di William T. Spears: si comportava
come un iceberg nei miei confronti, però appena mi mettevo in qualche guaio (e
ciò succedeva abbastanza spesso) o per recuperare un’anima impiegavo più tempo
del previsto, lui era sempre il primo a preoccuparsi (a detta di Grell); poi, ogni
volta che completavo un incarico, il pinguino gelido non perdeva mai l’occasione
per ripetere le regole che gli Shinigami dovevano rispettare e che nessuno di
essi rispettava.
Quanto avevo odiato quel libro di norme che lui
utilizzava come Bibbia. Normalmente i genitori leggevano ai figli le storie
della buonanotte, non le sanzioni da pagare se uno trasgrediva una legge.
<< Comunque, Shinigami dall’ascia bipenne, non
preoccuparti: fra te e l’asse da stiro la differenza è minima>> ridacchiò
il pollo.
Avvampai ancora di più tentando di mantenere la
calma, anche se la mia mano avrebbe voluto impugnare la falce e amputargli la testa.
<< Quindi non è che c’era tutta ‘sta vista>>
aggiunse poi, raccogliendo le banconote sparse sul pavimento.
Purtroppo i miei buoni propositi di mantenere un
minimo di autocontrollo vennero meno, così afferrai il gallo per la gola e lo
lanciai contro la porta del negozio. Sfortunatamente, suddetto uscio si aprì e
il volatile piombò contro lo sciagurato avventore.
<< Non si ferisce
una verginea fanciulla! Soprattutto in viso!>>
Quella voce mi fece
raggelare il sangue, perché era fin troppo familiare, fin troppo... Grell. Non
avevo altre parole per descrivere quel suono e soprattutto la personalità
dell’individuo che lo aveva prodotto.
Grell è un mio collega, un
essere piuttosto particolare, con dei lunghissimi capelli rossi come il sangue
e degli occhi verdi-giallastri da Shinigami nascosti dietro a degli occhiali
con una montatura del medesimo colore della chioma. Forse sarà stato per il suo
viso un po’ troppo effeminato, forse per il suo abbigliamento da donna o per il
fatto che spesse volte parlava di sé come se fosse una ragazza, però all’inizio
l’avevo scambiato veramente per una femmina.
Era stato uno shock
scoprire che in realtà si trattava di un ragazzo.
Mi ricordo ancora quel
giorno, il giorno in cui smisi di pensare che esistesse un solo Dio della Morte
sano di mente.
Da piccola mi piaceva bere
il tè con il pinguino di ghiaccio e, oltre alle solite discussioni tipo “come è andata la giornata” e “ricordati le regole degli Shinigami” ad
un tratto dissi: “Sai, oggi ho giocato
con le bambole con una signora molto simpatica. Si chiamava Grell
e sembra che si sia presa una cotta per te!”
William per poco non sputò
la bevanda nella tazzina.
“ Pandora... Grell non è una donna e ti consiglio di lasciarlo stare, non
è affidabile”
Ovviamente l’Iceberg -invece
di mantenere la sua freddezza da Siberia - poteva essere anche un po’ più delicato, ma in
questo modo non sarebbe stato lui.
Grazie a questo episodio
della mia vita, smisi per sempre di giocare con le bambole, dedicandomi invece
al disegno, a suonare il pianoforte e a studiare con serietà per diventare una
brava Shinigami (certo, come no).
<< Panda - Chan?>>
domandò il Dio della Morte.
<< Grell?
Che...>>
Capii subito il motivo
della sua presenza quando entrò un maggiordomo spilungone con i capelli corti
neri ( e se devo essere sincera, pure carino), seguito da un bambino vestito da
conte e con un occhio coperto da una benda.
Frederick, dopo essersi
ripreso dal volo, guardò in malo modo il servitore. Probabilmente si era
accorto dell’aura demoniaca che questo emanava.
Vidi il gallo sfiorare con
l’ala una delle provette, ma poi si bloccò e balzellò verso di me. Purtroppo
però, prima di riuscire a raggiungermi, venne afferrato per il collo da Grell,
ma a quel punto intervenne la bambina.
<< No, signore!
Quello è il nostro animaletto domestico, si chiama... ehm... Cocò>>
<< Questa palla di
penne ha osato ferire una fanciulla indifesa>>
<< Ma è stata la
mamma a trovarlo! E poi papà me lo ha affidato, dicendo di prendermene
cura>> disse la ragazzina, prendendo il pollo per le zampe.
Quando Frederick emise un
ululato soffocato per il dolore –perché i due stavano giocando a tiro alla fune
e la fune in questione era lui- il maggiordomo li richiamò all’ordine. Probabilmente
il conte era innervosito dalla scena e gli aveva chiesto di farli smettere.
Il gallo, cadendo su due
zampe, guardò in malo modo Undertaker che, nel frattempo, stava ridendo come un
dannato.
Io stavo bevendo
tranquillamente il tè, anche se mi scappò un risolino quando vidi il volatile
con le piume arruffate e una faccia da serial killer. Malauguratamente la mia
allegria svanì improvvisamente quando notai una rosa blu posata nella bara in
cui avevo dormito.
Un fiore che mi faceva
tornare in mente troppi avvenimenti.
Distolsi lo sguardo, per
posarlo poi sul volto del becchino. Per un attimo mi parve di intravedere delle
iridi verdi-giallastre sotto la folta frangia grigiastra. Erano fisse su di me
e, facendo scorrere gli occhi fin sulle labbra, notai la sua espressione
incredibilmente seria. Durò un attimo, perché quando si rivolse al bambino,
aveva già un ampio sorriso.
Il nobile spiegò perché si
trovava lì: voleva infatti avere dei dettagli in più sulla morte di alcuni ragazzini
londinesi.
Questa discussione sembrò
ferire Violet, allora –con il permesso del proprietario del negozio-
l’accompagnai nel laboratorio dove venivano abbelliti
i cadaveri.
Non era un posto molto
allegro, perché era una stanza cupa, con i muri su cui vi si trovavano delle
macchie rossastre e sparpagliate qua e là c’erano delle bare scoperchiate con
dentro i morti.
Recuperai un paio di
sgabelli e ci sedemmo. Dopo un lungo attimo di silenzio dove si sentivano soltanto
le voci in riverbero della stanza adiacente, finalmente si decise a parlare.
<< Io dovevo essere
una di quei bambini>> mugugnò << dicevano che non ero forte e poi
altre parole in una lingua strana. Allora ho iniziato a correre spaventata, ma mi
hanno seguito... e poi sono arrivata qui>>
<< Loro? Erano più
di uno?>>
<< Sì, circa quattro
o cinque. Erano tutti incappucciati, ma era come se li vedessi soltanto io...
non so come spiegarmi, perché anche quando quei signori richiamarono delle
spade gigantesche, i passanti continuavano a camminare normalmente >>
Calò ancora l’apparente
silenzio.
Non volevo insistere,
perché potevo leggerle negl’occhi lucidi una sofferenza ineguagliabile mentre
raccontava quell’esperienza.
<< Te ne
andrai?>> domandò ad un tratto chinando il capo per non mostrare le
lacrime che le scorrevano sul viso innocente.
Come faceva una persona
estranea a starle così tanto a cuore?
<< Probabilmente sì,
non ho più niente...>>
La piccola corse verso di
me e mi abbracciò.
<< Non abbandonarmi!
Tu e gli altri siete la mia unica famiglia...>> disse, singhiozzando.
Rimasi stupita a sentire
quelle parole, perché mi fecero tornare alla memoria ciò che avevo urlato a mio
padre in quel lontano giorno d’inverno.
Era finalmente giunta la
festa di Natale, la celebrazione che tutti i bambini aspettavano con ansia per
ricevere i regali dai loro familiari. Io mi ero svegliata alla buon ora e
correvo felice per casa, pronta a scartare il mio pacchetto.
Purtroppo, come unico dono
ricevetti una pugnalata al cuore. Nella scatola infatti trovai una rosa blu,
realizzata con pietre preziose, e un biglietto con scritto “Arrivederci, bambina mia”.
Guardando il paesaggio
candido fuori dalla grande finestra, notai quella figura longilinea
completamente vestita di bianco allontanarsi sempre di più. Si voltò solamente
per darmi un’ultima occhiata sorridendo, prima di svanire per sempre dalla mia
vita.
<< No, non
preoccuparti... io non ti abbandonerò>> mormorai.
Appoggiata alla ringhiera
in ferro dell’angusto balcone dell’appartamento del becchino, posto sopra alla bottega,
mi godevo la visione.
In teoria dovevo riposare,
perché le ferite che avevo riportato erano gravi, però il materasso che il
proprietario del negozio mi aveva gentilmente offerto era... duro come una
roccia. L’opzione “B” era quella della bara, ma il mio cervello si rifiutava categoricamente
di dormire nuovamente in una cassa da
morto.
Sfiorai la Death Scythe al mio fianco, poi mi concentrai ad osservare i suoi particolari: la
pianta rampicante di rose senza né fiori né foglie era in rilievo e si
attorcigliava su tutta l’impugnatura; un teschio candido era posto sulla parte
che congiungeva il manico alla lama, soffermandomi poi sulla corona di spine
che gli cingeva la fronte.
Era imbevuta di un colore
rosso cremisi con qualche screziatura nerastra. Il sangue del nemico che avevo
abbattuto.
Erano immagini che non
riuscivo ancora ad assimilare, perché non avevo mai incontrato una bestia
simile e dovevo ammettere che ucciderlo era stata l’impresa più difficile della
mia vita. Non esagero, in vent’anni o poco più non avevo mai rischiato di morire
in un combattimento.
Mi era già capitato
qualche scontro ostico, ma mai così. Nel mio piccolo mondo non c’erano di certo
serpenti piumati, esistevano soltanto Umani, Demoni, Angeli e Shinigami ( e
anche i Soul Reaper, però, per ora, nella mia testa avevano un ruolo
secondario); scoprire che poteva esserci qualcosa di diverso mi aveva lasciata
un po’ spaesata.
<< Ihihihi... una
ragazza non dovrebbe giocare con le armi>>
Mi voltai di scatto,
vedendo il becchino fermo sulla soglia. Mi stava guardando con il suo ormai
classico sorriso da far venire i brividi.
<< hai ragione,
Shinigami>> risposi, compiacendomi della sua espressione parzialmente
sorpresa.
<< Seriamente, sarò
pure mezza cieca, ma non così tanto da non accorgermi della tua natura>>
aggiunsi facendo un profondo sospiro.
Lui si avvicinò e appoggiò
i gomiti sulla ringhiera del balcone, osservando la Londra notturna. Ci fu un
attimo di pausa, di silenzio, di riflessione.
<< Sei una ragazza curiosa>>
disse senza distogliere l’attenzione dalla città << Mezzo Demone>>
<< E tu sei un
becchino bizzarro. Posso sapere il tuo nome?>>
<<
Undertaker>> rispose lui << Non hai sonno?>>
<< Sì... no... non
lo so. Stavo riflettendo. Sai, all’inizio ero venuta unicamente per sapere più
dettagli sulla morte del barone, per scoprire se erano stati più mostriciattoli
ad ucciderlo o soltanto uno...>>
<< ti
interessi ai cadaveri?>>
Lo fulminai con lo
sguardo. Odiavo profondamente le frasi con doppi sensi perché non sapevo mai
come rispondere.
<< Provo un profondo
rispetto per i morti, sì. Forse è per questo che ho trasgredito alle regole del
sacro libro, oltre al fatto che sul
momento la vendetta era il mio unico pensiero. Nessuno deve mettersi fra me e
il mio lavoro... anche perché riceverei una lunga lista di rimproveri da parte
del mio superiore>>
Fu allora che pensai al
probabile stato di William. Con indosso la sua camicia da notte azzurra a righe
bianche e le pantofole a forma di coniglio, stava sicuramente elaborando un malefico piano per punirmi.
Già, l’omino di ghiaccio
non si preoccupava di certo della mia salute. Grell diceva il contrario, ma io non
riuscivo a immaginarmi un Will agitato per una persona, soprattutto se quella
persona ero io.
Non era mio padre, anche
se in definitiva mi aveva cresciuto lui, era soltanto quello che prendeva e mi
metteva sulla via del bene. Tuttavia
riuscivo sempre a sgattaiolare lontano da quella strada perfetta, trascinandolo
involontariamente in enormi guai che poi era costretto a risolvere. Nei suoi
confronti ero sempre stata una ragazza indisciplinata e testarda, una palla al
piede insomma.
<< Comunque grazie
per tutto, Undertaker>> dissi sorridendo leggermente.
<< Hai un sorriso
inquietante>> bofonchiò Frederick, il quale si era appollaiato affianco a
me.
Diventai bordeaux per il
nervoso poi afferrai il pollo e lo scaraventai contro il muro della casa di
fronte.
Infine rientrai e mi
lasciai cadere sul materasso ad una piazza, ululando poi per il dolore perché
con la mia azione avevo rischiato di frantumarmi l’osso sacro.
Mi aspettava una lunga
notte insonne, quasi rimpiangevo il mio morbido letto con il mio coniglio di
peluche grigio. Era stato il primo e ultimo regalo di William per me, quindi
c’ero molto affezionata, anche se me lo aveva donato quando ormai avevo
compiuto la maggiore età.
L’espressione imbarazzata
dello Shinigami mentre mi consegnava il pupazzo era stata unica, epica.
Negl’anni a venire, ripensando all’avvenuto, avevo riso per non so quanti minuti,
forse anche per mascherare la gratitudine.
Abbracciai il cuscino in
penna, poi serrai gli occhi, cercando in tutti i modi di addormentarmi.
<< Buonanotte, demone>> sussurrò una
voce al mio orecchio quando ormai il sonno mi aveva trascinato lontano, un
mondo nero, un mondo apparentemente sicuro.
Fine Terzo Capitolo!