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Autore: Echo90    15/10/2012    4 recensioni
Non esiste paradiso, per chi è morto scontando la sua pena sulla terra. Ma. Ma adesso avrebbero avuto l’eternità per loro e avrebbero dimorato in ogni pianta, in ogni foglia, in ogni goccia fresca di rugiada, in ogni rivolo d’acqua che veniva giù dai monti scoscesi. Ora sino alla fine del tempo e dello spazio. Cenere alla cenere. E quella foto mezza ricoperta di terra sarebbe diventata polvere ma il luccichio dei loro occhi innamorati sarebbe rimasto per sempre. Nell’aria satura dell’odore di pioggia, nell’alba che più d’una volta guardarono assieme dopo aver fatto l’amore, nella fiamma di ogni candela che avevano acceso in quel luogo le notti in cui avevano paura.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Blaine/Kurt, Brittany/Santana, Quinn/Rachel
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Entrarono.

Ogni porta sembrava una barriera. Come la porta della stanza dei medici, dove Rachel raccolse le sue cose –di fretta- gettandole nella sua sacca alla rinfusa. Quinn la guardava, appoggiata allo stipite della porta e quando la sentiva sospirare la dottoressa chiudeva gli occhi e non si voltava. Avrebbe tanto, avrebbe tanto voluto piangere lasciandosi stringere, ma non poteva, perché Quinn la guardava e doveva apparire forte, doveva esserlo per lei che l’amava tanto e tanto aveva sofferto.

In silenzio.

Mentre lei si ostinava ancora a rimanere con suo marito, stretta nel limbo, e fra le lenzuola di quel letto in cui i sospiri di lui penetravano nella propria coscienza come rovi appuntiti.

Nella stanza degli infermieri Quinn aprì il suo armadietto  e le parve di essere tornata indietro nel tempo, al liceo, quando l’armadietto di Rachel era ancora vicino al suo e sentiva i baci che Finn le lasciava sulla pelle fra una lezione e l’altra come promemoria. Quasi volesse ricordare a tutti che lei fosse sua e di nessun altro.

“Ancora buon compleanno, amore”. Aveva detto un giorno.

Poi lo chiamarono e lui, entusiasta, dimenticò di salutarla. Ora Rachel le dava le spalle mentre lo guardava sparire in un manipolo di giocatori di football. Lo esaminò per l’ultima volta, poi con sguardo duro si voltò verso il suo armadietto armeggiando con la combinazione.

Quinn aveva preso a sudare, smettendo improvvisamente di rovistare fra i propri libri e, Dio, le mani le tramavano talmente tanto che non sarebbe riuscita a stringere un bicchiere d’acqua fra le dita, nonostante avvertisse urgente il bisogno di bere.

Strinse la catenina che portava al collo “fai che vada bene” si disse “fai che...” e il cuore sembrava un ariete pronto ad aprirsi un varco nel suo petto “...vada...”

Con la coda dell’occhio guardò Rachel. La vide sorridere mentre tendeva la mano per afferrare qualcosa dentro il suo armadietto.

Dovette aver pensato che fosse un regalo di Finn, perché quando lesse il biglietto si portò la mano sinistra alla bocca, spalancando gli occhi.

La bionda deglutì e fece per voltarsi, quando quella giovane che te teneva il suo cuore in mano la chiamò, sfiorandola –per la prima volta senza parlare. E fu strano pensare che Rachel Berry avesse perso la voce, tanto da non riuscire a pronunciare il suo nome come se esso le si fosse incastrato da qualche parte nelle viscere, ferendola.

“Quinn”. Sussurrò finalmente.

“Quinn”. Ancora. “QUINN!” Continuò finchè lei non si fu fermata. E di nuovo “Quinn” finchè non si fu voltata.

Vide Rachel guardare il gattino di peluche che le aveva regalato e il bracciale d’oro bianco che portava a mo’ di collare. Era bello, delicato, luminoso come lei. Ed era troppo poco, e allo stesso tempo molto più di quanto avrebbe potuto permettersi: aveva lavorato come babysitter ogni sera sino a notte inoltrata, aveva camminato a piedi cercando di risparmiare il denaro necessario per la benzina. Ma non era ancora abbastanza, e non sarebbe stato abbastanza nemmeno se le avesse dato tutta se stessa.

Ma se stessa era tutto quello che aveva.

E all’improvviso si sentì maledettamente in colpa perché, chi valeva quanto lei, cioè quanto un soldo bucato, avrebbe fatto bene a non nascere.

“Vorrei... uccidermi...” Esordì Quinn senza guardarla.

“No... no.”

“...e farmi sotterrare sotto tre metri di terra, come minimo.”

“Hei, smettila...”

“Di far cosa, dimmelo, Rachel?”

Silenzio.

“Io non... io non lo sapevo.” Sussurrò e si chiese perché, Dio del cielo, si sentisse così... così.

“Beh, ora lo sai.” Disse la bionda, dolcemente. Ma non riuscì a sostenere il suo sguardo, e le voltò le spalle.

“Quinn!” Non si sarebbe girata, non avrebbe permesso a nessuno di vederla piangere, specialmente a lei.

“Grazie.”

Quando rispose la voce di Quinn era inclinata, come se stesse per cadere, per rompersi in mille lacrime. Prese un profondo respiro, il più profondo che aveva.

“Il g-gattino era seduto su una l-lettera. Hai visto? Leggila se ti va. O strappala. Anche se. Beh, non credo di potermi rendere più ridicola di così. Sono patetica.” Tirò su col naso, asciugandosi gli occhi con il dorso di una mano. “E’ una femminuccia secondo me. Forse dovresti darle un nome...”

Era il suo compleanno e oltre ai suoi papà solo due persone l’avevano ricordato.

Strinse il gattino al seno; e sebbene fosse freddo, sebbene non sentisse il suo cuore battere, pensò a quanto quello di Quinn dovesse essere caldo e che fosse caldo per lei –si sentì un po’ meno sola.

 

Aprirono la porta e Brittany trasalì. La colsero nell’attimo dolce in cui si guarda dormire la persona che si ama. Non dissero nulla, non ne avrebbero avuto il tempo. Sarebbero corse a casa di Rachel, avrebbero preso lo stretto indispensabile e sarebbero corse via, in una nuova casa. Forse in una nuova città. Quinn sarebbe giunta sin sopra il cielo a patto che quella piccola donna fosse rimasta con  lei, a tenerle compagnia.

“Brittany, Britt, dovete andare...”

La bionda si alzò di scatto.

“Non possiamo più coprirvi.” La sua voce tremava e in quel momento odiò se stessa per non essere in grado di fare qualcosa. Non era stata in grado di proteggere Rachel da quel matrimonio che le aveva –e le avrebbe- quasi uccise. Ne avrebbero portato per sempre le cicatrici, sul cuore. E ora Brittany e Santana.

“Britt, adesso Rachel controllerà che Santana stia bene. Poi la porterai a casa tua e noi faremo il possibile per aiutarvi. Ma ora dovete andare.”

Brittany annuì passandosi una mano fra i capelli. Non capiva.

Non capiva.

Non capiva.

Perché Dio permettesse che ora lei e Santana rimanessero da sole, ferite entrambe nello stesso modo e allo stesso tempo in modo diverso. Una nell’anima, l’altra nel corpo. Eppure l’avrebbe tenuta fra le sue braccia ogni notte per farla addormentare, per far sì che non sentisse più dolore. E le avrebbe dato da mangiare affinchè si rimettesse presto, anche a costo di togliere il cibo dalla propria bocca; l’avrebbe scaldata con il proprio corpo, se l’inverno si fosse fatto troppo freddo. La sua casa sarebbe diventata la loro casa e nei giorni in cui la neve avesse bloccato le porte e impedito di aprire le finestre, sarebbero rimaste sotto le coperte calde ad amarsi in qualunque modo Santana avrebbe desiderato essere amata.

Pensò queste ed altre cose: fu felice. Provò vergogna di se stessa.

 

Le lezioni erano appena finite e sebbene avesse tenuto quella lettera fra le mani per tutto il tempo, e avesse cercato, con ogni anelito di forza, il coraggio di aprirla, essa era ancora chiusa –e un po’ spiegazzata. Quinn la scrutava da lontano e pensò che apparisse tremendamente indecisa, e tremendamente bella. La vide non parlare, la vide non sciogliersi in uno dei suoi insopportabili –quanto adorabili- monologhi. Con nessuno.

Fece di tutto, di tutto, per smettere di osservarla, e sarebbe andata via se quell’idiota di Finn non si fosse avvicinato a lei schioccandole un bacio a tradimento sulle labbra.

Se ne sarebbe andata, se ne sarebbe andata davvero, ma il dialogo che seguì fra i due fu talmente surreale da inchiodarla al suolo. In quel momento fu dannatamente certa che un giorno Rachel avrebbe avuto ciò che meritava -ogni cosa bella.

Lui le consegnò una busta rossa, il suo regalo.

“Ho visto in tv la pubblicità di questi facoceri. Li puoi adottare per due dollari al mese. Li fai mangiare per un anno per poi sfamare una famiglia africana per un mese.”

Passarono attimi interminabili, durante i quali lei non disse nulla; poi lo ringrazio con un sorriso e gli lasciò un bacio sulla guancia, facendogli segno di non seguirla. Si allontanò piano, un passo dopo l’altro, sino a svoltare l’angolo. Poi corse, e non seppe neanche perché, nè ebbe il coraggio di chiederselo.

E mentre Quinn spalancava la porta dei bagni e si lasciava scivolare sul pavimento di uno di quei luridi cubicoli -perché non voleva vedere, per Dio!, non avrebbe mai più voluto vedere quell’idiota accanto alla sua donna- Rachel si sedeva nella stanza vuota del coro.

Lisciò la lettera con le mani, poi la aprì.

Lo sapeva, che i regali non contavano nulla, ma per la prima volta si chiese se e quanto Finn tenesse a lei. Coraggio, sussurrò a se stessa.

E lesse.

 

“Schifosamente banale” si disse. Sono solo una ragazzina scialba, stupida. E avvicinandosi allo specchio potè scorgere nei propri occhi verdi anche quanto irrimediabilmente fosse innamorata.

Poi la porta si aprì.

“Quinn...” non era preparata.

“Quinn...” no, non era preparata e forse non lo sarebbe stata mai. Né alla sua voce, né ai suoi occhi che la scrutavano attraverso lo specchio.

“Ti ho cercata ovunque...”

Teneva in mano la sua lettera aperta e la bionda avrebbe giurato che Rachel avesse pianto e che ancora si stesse sforzando di trattenere le lacrime. Il suo respiro era pesante, le nocche delle sue mani bianche, e lei avrebbe voluto baciarle, per sciogliere ogni dispiacere, per aprirle in una carezza.

Fu allora che lo vide, che lei indossava il suo bracciale al polso destro.

“Rachel, cosa...?”

“C’è scritto tua, per sempre.”

Quinn guardò in alto come se sperasse di vedere il cielo. Poi sospirò e annuì.

Poi sospirò.

E annuì.

 

***

Ci sente entro venerdì, ragazzi! Lasciatemi un commentino ;)

   
 
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