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Autore: Lusio    17/10/2012    7 recensioni
A diciannove anni Quinn Lucy Fabray continuava a credere che tutto le fosse concesso, ma con le dovute conseguenze.
Noah Puckerman (ma preferiva essere chiamato Puck) voleva dare a sua figlia la vita migliore che potesse offrirle.
I Fabray volevano il loro posto nel mondo.
Gli Hummel-Hudson volevano scoprire il mondo.
Sue Sylvester voleva cambiare il mondo.
Dave Karofsky voleva una vita che fosse solo sua.
Rachel, Mercedes e Sugar avevano i loro sogni e le loro aspirazioni.
Mike e Tina volevano sposarsi nella terra delle grandi opportunità.
Blaine voleva raggiungere suo fratello.
Beth voleva stare in braccio a mamma Shelby.
Vite diverse che si incontrano in un unico destino. Un passato che ritorna. Una splendida nave che solca l'oceano. Un enorme blocco di ghiaccio alla deriva. Una data fatale.
14 Aprile 1912
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quinn Fabray, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Le voci dall’oceano

 

Quando, finalmente, anche i passeggeri di terza classe riuscirono a raggiungere i ponti superiori era troppo tardi; la maggior parte delle scialuppe erano già state messe in mare e si erano già allontanate lasciandosi dietro più di mille persone. I più fortunati erano stati quelli che avevano raggiunto il ponte lance dalle uscite secondarie, scortati dai marinai, ma i tre quarti di loro che erano rimasti si liberarono solo abbattendo i cancelli che li tenevano prigionieri in quella trappola d’acqua e gettandosi a rotta di collo verso le uscite. Tra questi c’erano Puck, Shleby e gli altri del loro gruppo.

L’acqua aveva quasi sommerso l’intera prua e adesso sembrava salire di livello più velocemente come anche l’inclinazione della nave che stava diventando sempre più precaria. Tra le persone rimaste a bordo, quelli che non si soffermavano sulle poche scialuppe rimaste, si spingevano verso la poppa sperando di resistere più a lungo in attesa di eventuali soccorsi mentre i più disperati si gettavano in mare aggrappandosi a sedie, sdraio ed altri oggetti finiti fuori bordo; molti di loro non sopravvivevano all’impatto violento con l’acqua gelida.

Usciti finalmente fuori, a causa delle situazioni e dei disordini, tutti i componenti del piccolo gruppo si ritrovarono presto separati gli uni dagli altri: Shelby, non appena sentì sulla pelle la fredda aria della notte, si mise a correre lungo il ponte affollato chiamando a gran voce “Beth! Beth!” subito seguita a ruota da Puck.

- Non aspettateci! – gridò ai suoi amici – Salite subito su una scialuppa!

Così i due sparirono alla vista di quelli che rimasero, i quali si ritrovarono a loro volta divisi: Mike e Tina vennero spinti dalla calca verso la poppa, lontano dalle ultime scialuppe rimaste; invece Rachel, Mercedes, Sugar e Blaine si ritrovarono proprio tra le persone che cercavano di salire sulla penultima scialuppa del ponte di destra. Quando avrebbero terminato con le imbarcazioni in legno, sarebbero passati ai quattro canotti più piccoli, che si trovavano a prua, due dei quali posti sopra il tetto della zona degli ufficiali. 

Tina e Mike vennero sospinti verso l’ultima scialuppa. Sebbene molti uomini cercassero di infilarcisi dentro, i marinai, anche con gran fatica, li buttavano fuori per dare spazio a donne e bambini. Con la buona occasione che si trovavano a portata di mano, Mike fendé la folla, approfittando della sua statura e della sua fluidità di movimenti, spingendo Tina davanti a sé. Arrivati davanti alla scialuppa, le diede un’altra piccola spinta per farla salire. Ma la ragazza si aggrappò ancora più saldamente al braccio del compagno.

- Avanti Tina, sali – la incentivò lui – Non perdere tempo.

- Vieni anche tu, Mike – disse la ragazza con decisione; non era affatto una preghiera o una richiesta.

- Non posso; adesso devono salire le donne e i bambini – replicò Mike, spingendola ancora e ottenendo in cambio il solo effetto di far puntare i piedi a Tina, che continuava a fissarlo con fermezza – Non preoccuparti, io me la caverò. Pensa a te stessa.

- Senza di te non vado – la sicurezza nella sua voce non lasciava dubbi sulla decisione che stava prendendo.

- Tina, per favore, non fare la bambina!

- Non sono una bambina! Sono una donna, sono libera di scegliere; e scelgo di rimanere con te.

- Adesso basta! Mi sono stufato!

Mike decise di lasciar perdere la gentilezza e con tutta la violenza e la rudezza che quel particolare frangente gli consentiva fece per gettare di peso Tina nell’imbarcazione; ma la ragazza lo prese alla sprovvista e con una forza che, forse, nemmeno lei pensava di avere, fece forza sulle punte dei piedi e si spinse a sua volta contro Mike, artigliandogli le braccia con la stessa violenza che lui aveva usato. Colto di sorpresa, Mike finì quasi per soccombere e ricevette il colpo di grazia quando Tina si tese ancora di più verso di lui catturando le sue labbra circondate da un leggero filo di barba. Il ragazzo si lasciò trascinare da quell’impeto che ricordava i primi giorni del loro primo ed unico amore giovanile, la loro fuga dal quartiere dei poveri della fredda città inglese verso il loro mondo ideale baciato dal sole dell’estate. La morbidezza che possono avere le labbra di chi è povero con al centro il sapore umido e ferroso della lingua palpitante come una fiamma.

Se quello non fosse stato un modo per vivere, Mike avrebbe tanto voluto morire con quelle sensazioni in petto.

Quando si staccarono erano lontani dalla scialuppa, dalla paura che li circondava, da tutto il resto; erano ritornati in quel loro mondo ideale per non lasciarlo mai più.

- Rimango con te – disse Tina aggiustandogli i capelli scomposti.

- Vinci sempre tu – disse Mike prendendole dolcemente la mano.

 

* * *

 

Quando Quinn aveva detto a Kurt della licenza che davano agli uomini di salire sulle scialuppe sull’altro ponte, il timore del ragazzo era che altri avrebbero potuto sentirlo e, di conseguenza, precipitarsi nella medesima direzione per precederli in quella possibilità di salvezza. Certo, era un pensiero egoista, ma c’era poco da essere solidali con gli altri in quel momento.

Senza perdere tempo, ritornò dal padre e dal fratellastro e li mise al corrente di quanto Quinn gli aveva detto, con poche spicce parole per evitare che altri li sentissero e li portò verso il ponte di sinistra. Purtroppo per loro, le manovre di imbarco da quella parte erano più veloci e quando arrivarono stavano caricando l’ultima scialuppa. L’ultima per quel ponte.

Allarmati da ciò, aumentarono rapidamente il passo, l’unica fortuna era che non ci fosse la stessa calca del ponte di destra e questa è la cosa più ironica e più triste.

- Potremo salire anche noi? – domandò subito Burt col cuore in gola al marinaio addetto all’imbarco.

- Mi spiace, è rimasto posto solo per un’altra persona.

Quando bisogna decidere, sapendo che si deve scegliere tra la vita e la morte di più di una persona, è questa la cosa più difficile che possa capitare e quello che un genitore non vorrebbe mai gli si presentasse.

Burt voltò il viso sbiancato e quasi invecchiato di colpo solo per vedere lo smarrimento di Finn e il terrore di Kurt; ma il primo trovò la forza di fargli un cenno con gli occhi indicando il più giovane di loro. Il padre non poté nascondere un egoistico sollievo a quella concessione. Afferrò saldamente Kurt per le spalle e lo sospinse verso la scialuppa.

- Kurt, vai tu – disse.

Ma il ragazzo, come destatosi di colpo, si divincolò dalla presa del padre, cercando di ritornare indietro.

- Papà, no! – esclamò – Fai salire Finn!

- Smettila di voler fare l’eroe – replicò Burt, esasperato, sostenuto da Finn.

- Fai salire Finn! – ripeté Kurt, ostinato – La fuori c’è già Carole. E’ meglio se va lui.

- Posso cavarmela anche a nuoto – reagì Finn, deciso a non sembrare debole, sebbene la paura lo stesse attanagliando allo stesso modo di Burt e Kurt – Sono giovane e robusto, sono sicuro di poter resistere all’acqua fredda.

- Anche io sono giovane, cosa credi? – Kurt afferrò il braccio di Finn, stringendoglielo fino a fargli male – E’ meglio se sale papà – gli sussurrò a pochi centimetri dall’orecchio.

- Che state borbottando? – fece Burt, recuperando il figlio – Non perdiamo altro tempo. Kurt sali!

- No, papà! Vai tu! Sei malato, non resisteresti in acqua.

- Io qui non ti lascio – gridò Burt, stringendo la sua presa sulle braccia di Kurt, negli occhi una tempesta di rabbia, paura e frustrazione.

- Papà, hai sentito Finn: siamo giovani, abbiamo più possibilità di farcela se cadiamo in acqua. Tu hai avuto dei problemi di cuore, solo lo shock dell’acqua fredda potrebbe esserti fatale – si svincolò dalla sua presa per poi afferrargli il colletto della camicia – Ho perso una madre; non voglio perdere anche un padre.

- E io ho perso una moglie e non voglio rischiare di perdere anche mio figlio – replicò Burt mentre una lacrima scivolava lungo la guancia piena.

- Burt – si fece avanti Finn, sostenendo il fratellastro adesso – c’è mia madre lì fuori. Non voglio che rimanga da sola. Io e Kurt vi raggiungeremo, a nuoto o aggrappati a qualcosa se è possibile ma ce la caveremo.

- Signori non possiamo più aspettare! – esclamò il marinaio esasperato, dando l’ordine che la scialuppa venisse calata in mare.

- Benissimo, allora! – urlò Burt, ormai al limite – Allora resteremo tutti e tre qui!

Più che dalle parole del padre, Kurt fu più colpito dalla vista di quell’ultima scialuppa che, ancora pochi minuti e sarebbe sparita dalla loro vista. Fu come un riflesso condizionato. Quasi non capì come era accaduto né come ci fosse riuscito. Fatto sta che un momento prima suo padre era davanti a loro, il volto arrossato e fremente per la collera, e quello dopo era nella scialuppa malamente sostenuto dal marinaio e da uno dei passeggeri imbarcati, la collera spazzata via dallo sbigottimento. Kurt sentiva i palmi delle mani che gli dolevano e che pulsavano per la troppa forza che aveva messo in quella spinta inaspettata tanto per il padre e Finn, rimasto indietro a guardare, stupito, quanto per lui stesso.

C’è sempre quel particolare momento, nel rapporto che c’è tra un genitore ed un figlio, in cui i loro ruoli si invertono e il figlio si fa genitore per prendersi cura di quest’ultimo. Non è un regolamento di conti né un ricambiare un favore; è semplicemente amore.

“Comprendimi papà. Ti voglio bene”.

- Non preoccuparti papà. Ce la faremo – gli gridò Kurt vedendolo sparire assieme all’intera scialuppa, mentre li chiamava disperato, cercando in tutti i modi di districarsi dalla presa di chi gli impediva di risalire a bordo del Titanic.

A riscuotere Kurt, stavolta, ci pensò Finn che gli strinse delicatamente una spalla.

- Kurt, dobbiamo cercare di andarcene da qui.

- E come? – gli chiese Kurt mentre una triste consapevolezza copriva i suoi occhi – Non ci sono più scialuppe.

- Dall’altro lato ne sarà rimasta qualcuna.

- Lì non ci faranno mai salire. Non quando ci sono ancora tante donne e tanti bambini.

“Potresti passare anche tu per un bambino e salvarti, se solo volessi” pensò Finn mordendosi le labbra per non lasciarsi prendere dall’ansia – Intanto ritorniamo al ponte di destra; poi vedremo cosa fare. Magari riusciamo ad infilarci in una di quelle in mezzo alla confusione.

O magari, come Kurt aveva fatto con suo padre, Finn pensava di fare lo stesso con il fratellastro, ma presto. La nave si stava inclinando pericolosamente e questo rendeva sempre più difficile muoversi; ogni tanto si vedeva qualcuno scivolare giù, nell’acqua che saliva sempre più velocemente, divorando quel gigante di ferro. Fino a quel momento, sotto le urla e le grida di tutte le persone ancora sul Titanic, si poteva sentire ancora l’orchestra che suonava, inarrestabile e invincibile; ma quando il ponte si inclinò ulteriormente, il piccolo pianoforte messo fuori assieme agli altri strumenti, perse una nota, ne sbagliò un’altra e ne perse un’altra ancora, fino a che non scivolò giù, inghiottito dalle acqua nere ancora illuminate dalle luci della nave, con il pianista che cercava disperatamente di afferrarlo. Perso un componente, quelli che erano rimasti non ressero a lungo. Cadde il violoncellista, cadde il secondo violinista, il più giovane, cadde anche il primo violinista, caddero tutti uno dopo l’altro, aggrappati ai loro strumenti che fungevano come inutili salvagente. Il direttore d’orchestra ebbe solo il tempo di legarsi in vita i suoi spartiti prima di raggiungere i suoi compagni.

Ormai quello che regnava sull’intera nave non poteva più chiamarsi “confusione” o “caos” e “panico totale” non poteva lontanamente esprimere quello che regnava incontrastato in quel piccolo frammento d’oceano. Tanta era la gente che Finn non riusciva a vedere dove si trovassero le ultime scialuppe e incominciava a disperare che ce ne fossero ancora; non sapeva che c’erano ancora dei canotti, due dei quali erano già stati messi in mare.

Si voltò, sperando di trovare un aiuto in Kurt… ma non lo vide. Dietro di lui, di fianco a lui, davanti a lui c’erano solo sconosciuti. Kurt non c’era. Lo aveva perso.

“No! Ti prego, no!” pensò disperato vedendo da lontano una donna che scivolava lungo il ponte con un urlo.

Senza arrendersi a quello che sembrava l’inevitabile, Finn corse spingendo chiunque gli capitasse sotto mano, chiamò Kurt a gran voce per ritrovarlo.

 

* * *

 

Lasciati da Puck e Shelby e separati da Tina e Mike, i componenti rimasti del gruppo, Blaine, Rachel, Mercedes e Sugar si erano ritrovati davanti ad una delle ultime scialuppe rimaste, anche se non lo sapevano. Molti ancora speravano che tutti sarebbero usciti vivi da quel disastro, anche se era meglio essere tra i primi.

Con i marinai che tenevano lontani gli uomini, le ragazze si infilarono in mezzo a quella muraglia di braccia: Rachel e Sugar che tenevano Mercedes in mezzo a loro per paura che non la facessero salire perché di colore; Sugar trascinò con loro anche Blaine, tenendolo per il polso. Rachel, con un saltò, si ritrovò sulla scialuppa, traboccante di donne e bambini e qualche signore che cercava di non farsi notare, seguita a ruota da Mercedes e mentre faceva lo stesso anche Sugar, quest’ultima si sentì tirare indietro, tanto che fu costretta ad aggrapparsi ad una signora seduta lì vicino per non cadere fuori bordo. Voltandosi, videro che Blaine veniva spinto indietro da uno dei marinai.

- No! Fatelo salire! Fatelo salire! – gridò Rachel, non riuscendo però a farsi sentire in quell’accozzaglia di voci che si sovrastavano a vicenda.  

Blaine rimase fermo lì, pallido e tremante, lanciando sguardi disperati in direzione della scialuppa da dove le sue amiche lo incentivavano a saltare e raggiungerle, non sapendo che fare vinto dalla paura e dagli scrupoli nel vedere che altre donne, con i loro bambini attaccati al collo, cercavano di salire su quella piccola imbarcazione già fin troppo piena.

- Avanti, Blaine! – continuavano ad urlargli – Sali! Fai presto!

- Non fa niente. Non fa niente – mormorò Blaine, non riuscendo a farsi sentire, mascherando il panico dietro un fintissimo e traballante sorriso tranquillo, indietreggiando piano, lontano dalla ressa di gente, il petto che si gonfiava e sgonfiava d’aria in maniera convulsa, mentre i richiami di Rachel, Mercedes e Sugar si facevano sempre meno nitidi fino a sparire in quel mare di voci e rumori.

Senza aspettare altro, continuando a contenere le persone che ancora cercavano di saltare su quell’ultima salvezza, i marinai calarono la scialuppa piena di donne terrorizzate e bambini urlanti e uomini raggomitolati su se stessi. Le manovre erano molto più difficili stavolta.

Arrivati quasi a poca distanza dall’acqua una delle funi delle gru si inceppò; l’altra invece continuò la sua opera fino a che la scialuppa non si ritrovò con una parte sospesa a mezza altezza sul mare in maniera pericolante. Solo i richiami dei marinai coperti dalle grida di puro terrore delle persone a bordo avvertirono quelli che si stavano occupando delle manovre. Nonostante le luci ancora accese, il buio e il panico complicavano di molto la situazione, ma essere cauti non era per niente possibile: un solo sbaglio, un attimo di esitazione e le persone sulla scialuppa avrebbero rischiato la vita.

- Presto! Smuovete quella fune! – urlò Lightoller per poi cambiare subito il suo ordine quando, da sotto, delle grida ancora più forti gli portarono alla mente un possibile scenario di gente che si dibatteva, che finiva nelle acque gelate, della scialuppa che precipitava su di loro – No! Fermi! Fermi ho detto!

I marinai gli rivolsero eloquenti sguardi di impotenza. Adesso sì che veniva spazzato via l’ultimo brandello di coraggio e di autocontrollo di cui si vantavano gli inglesi.

- Che qualcuno ci aiuti! – saltò su uno dei più giovani, rivolgendosi a tutti coloro che correvano su e giù per il ponte, senza nessuno reale speranza di soccorso quanto di condivisione di una preoccupazione e di una responsabilità che, ormai, era diventata troppo grande per il solo staff della nave condannata. Ma nessuno, pur volendo, avrebbe potuto aiutarli. Erano troppo impegnati ad aiutare se stessi.

Lo stesso giovane marinaio, quasi impazzito per la tensione, afferrò la prima persona che gli capitò sotto mano, un ragazzone alto e ben piazzato che chiamava a gran voce “Kurt! Kurt!”.

- Vi prego! Ci serve aiuto! – disse il marinaio, trascinandolo verso la gru.

- No! Non posso! – tentò di liberarsi Finn, perché era di lui che si trattava – Devo trovare mio fratello.

- Vi prego! – continuò il marinaio, mostrandogli con un gesto, per quel poco che si poteva vedere nel buio, la tragedia che si stava consumando nella tragedia – Ci sono donne e bambini lì in mezzo!

- No! Dio Santissimo! – Finn non sapeva nemmeno a cosa fosse dovuta quell’esclamazione; in testa aveva solo un carosello di immagini di sua madre e di Burt sulle scialuppe, di Kurt che non riusciva nemmeno a focalizzare, come se fosse talmente lontano da non riuscire ad afferrarlo nemmeno col pensiero.

- L’accetta! Prendete l’accetta! – fu l’ordine di Lightoller.

C’era un’accetta, infatti, lì contro la parete di un interno, in una di quelle teche d’emergenza.

- Che qualcuno la prenda per tagliare la fune!

Le braccia del giovane marinaio erano troppo scarne per maneggiare quell’arnese, mentre le braccia dell’ufficiale erano troppo impegnate ad indicare ai marinai come sostenere la struttura per evitare che collassasse con risultati catastrofici. Finn doveva trovare Kurt; ma adesso c’erano anche le urla d’aiuto di tute quelle persone che sicuramente non sarebbe più riuscito a togliersi dalla testa.

“Un colpo ben assestato. Al massimo due. Non ci vorrà più di qualche secondo” pensò Finn, correndo verso la teca, frantumandola con un deciso colpo di gomito e afferrando l’accetta per poi dirigersi a passo deciso contro la fune inceppata – Levatevi di mezzo! – esclamò levando pericolosamente quell’arma di salvezza sulla testa, scansando il giovane marinaio e chi gli stava accanto, per poi abbatterla con un colpo secco sulla corda tesa che vibrò, facendo vacillare la scialuppa sospesa in maniera sbilenca sull’acqua, quasi ad imitare la nave che cercava di abbandonare. Un secondo colpo, poi un terzo; al quarto la fune si staccò violentemente, lasciando scivolare in mare la scialuppa senza gravi danni.

Finn ebbe solo il tempo di lasciar cadere l’accetta sul ponte e voltarsi per ritornare subito alla ricerca di suo fratello quando, con un rumore stridente, sentì come una violenta sciabolata che gli sferzava l’occhio; l’altro capo della fune tranciata che si era tesa all’indietro in seguito al taglio.

Un dolore bruciante come una pugnalata; una nebulosa confusione; il terreno che gli mancava sotto i piedi; un senso di vuoto accompagnato da acuti strilli femminili.

Atterrò con uno schianto nella scialuppa che si allontanava, afferrato al volo da un gruppo di giovani donne che attutirono il salto che poteva essere fatale.

Quando riprese i sensi non riusciva a muoversi: il più piccolo movimento gli causava una fitta lancinante alla spalla e alla parte superiore della schiena, come una scarica elettrica. E un velo sanguigno gli oscurava la vista. Attraverso quel velo intravide con raccapriccio le luci del Titanic che si facevano piano piano, più lontane e più sfocate.

“No. Kurt. Devo trovare Kurt” pensò prima di cadere di nuovo nell’incoscienza, mentre il velo si faceva sempre più rosso fino a diventare nero.

 

* * *

 

I canotti A e B, gli ultimi mezzi di salvezza rimasti, si trovavano sul tetto di prua; e lì l’acqua arrivava alle gambe e il ponte era più inclinato e scivoloso. Mentre la maggior parte delle persone rimaste correva verso la poppa che si stava elevando al cielo stellato, alcuni disperati si erano ammassati lì per tentare un ultimo scatto di salvezza.

Ad un certo punto, Dave Karofsky aveva lascia la sua postazione presso le scialuppe per andare lì, dove poteva essere più utile: la sua terra natale gli aveva lasciato come retaggio di natura una certa resistenza al freddo; le sue braccia potevano quindi aiutare chi non lo era. Ma non era preparato all’impatto con l’acqua gelida. Soffocando imprecazioni tra le labbra serrate, si diresse verso il gruppo di marinai tra i quali c’era anche Lightoller che, con grandi difficoltà, cercava di tirar giù il canotto B; dall’altro lato il risultato era stato disastroso: il canotto A si era capovolto e si cercava inutilmente di rimetterlo nella posizione adatta mentre l’acqua saliva sempre più speditamente, sommergendo ogni cosa e ogni persona.

Riuscì a resistere in un primo momento, ma ad ogni movimento l’acqua si sollevava a schizzi colpendolo con tanti gelidi artigli e sentiva sempre più il calore che lo abbandonava. Alcuni dei marinai che gli erano accanto scivolarono via privi di forze, trascinate verso il fondo dal debole gorgo della nave che affondava. Dave, aggrappandosi allo sforzo, alla fatica dei suoi muscoli tesi per sostenere, assieme ai pochi rimasti, il peso del canotto, resistette con tutte le sue forze.

E l’acqua saliva sempre più, accogliendo su di sé, cento e cento persone che scivolavano lungo i ponti inclinati, alcuni persino da grandi distanze, trascinando con loro tutti quelli contro cui si scontravano.

Puck e Shelby stavano ancora cercando disperatamente Beth; l’avrebbero cercata anche sul fondo dell’oceano se avessero potuto. A loro fu fatale la corsa frenetica per ritrovare la bambina. Si scontrarono con la paura di altre persone come loro: smarrite, alla ricerca di qualcuno o di qualcosa, di chi amavano o di una qualsiasi salvezza. Ma la loro piccola Beth, l’unica che volessero trovare, non c’era. Setacciarono in lungo e in largo i ponti della nave, spesso ritornando in punti già visti, col pensiero ossessivo che magari avrebbero potuto ritrovarla proprio lì, dove erano già passati. Purtroppo, quando l’equilibrio sulla nave si fece più disagevole, risalire divenne un’impresa per loro che si erano pericolosamente avvicinati alla prua, completamente sommersa e quasi scomparsa sott’acqua; Shelby inciampò nella sua gonna e cadde e Puck, con le gambe salde a terra e le braccia che si tenevano al parapetto, si lasciò andare a sua volta per recuperarla. Si fermarono quando si ritrovarono tra la massa di persone che si accalcava sul canotto B.

Mentre l’acqua fredda toglieva loro il fiato e li faceva saltare come molle, Puck riuscì ad afferrare la donna urlante per il polso cercando di ritrascinarla verso il ponte; ma quei maledetti salvagente impedivano ogni movimento; Puck era sempre stato un bravo nuotatore ma con quel coso addosso non riusciva nemmeno a fare una bracciata, poteva solo fare leva con le gambe ma questo lo sfiancò e a ciò contribuì il freddo che gli intorpidiva i muscoli come se fossero stati tramutati in pietra. Allora, vedendo il canotto affianco a loro, vi guidò Shelby.

- Presto, sali! – le urlò, spingendola in mezzo alle persone che vi si accalcavano.

- No! No! – si dibatté lei – Dobbiamo trovare Beth!

- La troverò, giuro che la troverò – affermò Puck, sicuro delle sue parole – Ma tu sali. E’ inutile che rimaniamo tutti e due qui.

- No! Non me ne vado senza Beth! – strillò Shelby, cercando di svincolarsi.

Senza farsi problemi, Puck spintonò da ogni parte chi si trovava davanti, fino ad arrivare ai bordi del canotto e sollevò Shelby, che continuava a dibattersi forsennatamente per quanto le permettesse il salvagente, e fece per appoggiarvela dentro. Quando accadde.

Un’onda, generata forse da una qualche fuoriuscita dalla parte sommersa del Titanic, si abbatté su di loro. Il canotto B si capovolse finendo alla deriva con giusto qualcuno ancora aggrappato ad esso; tra loro c’era Shelby.

Altri, come Puck e Dave furono trascinati dalla parte opposta. Storditi dall’impatto, molti non riuscirono a muoversi, e in alcuni stava già per sopraggiungere l’ipotermia. Puck, invece, scorse Shelby aggrappata alla scialuppa da lontano; e, sbracciandosi, cercò di raggiungerla anche se ad ogni movimento che faceva aveva sempre l’impressione di indietreggiare.

All’improvviso un crepitio sinistro e profondo sovrastò le urla delle persone in acqua, seguito dai sostegni del primo fumaiolo che si rompevano. Dave ebbe l’impressione che il fumaiolo giallo dalla sommità nera si allungasse verso l’alto e si facesse sempre più grande fino a coprire il cielo stellato sopra le loro teste. Non si accorse nemmeno di cosa realmente stava accadendo, come tutti gli altri, come Puck che cercava inutilmente di nuotare via. Accadde tutto in una frazione di secondi.

“Papà” pensò Dave inconsciamente.

Poi, il fumaiolo si abbatté su di loro generando un’altra onda che spazzò via tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze, comprese le persone che si erano aggrappate alla scialuppa capovolta. Anche Shelby venne sbalzata via, lontana, nell’oceano buio.

 

* * *

 

Kurt sapeva che stava per morire. Tutti lo sapevano ma, come è logico, nessuno si rassegnava a questa idea; se non c’era più possibilità di salvarsi, si poteva solo cercare di ritardare quel momento: senza più scialuppe restava solo la poppa dl Titanic che saliva lentamente verso l’alto, verso l’atmosfera meno umida del cielo. E si radunavano tutti lì, pigiati gli uni su gli altri, con pochissimo spazio per muoversi e persino per respirare. Kurt si sentiva stretto al punto da avere l’impressione di essere sollevato per essere espulso da quella massa come un tappo di bottiglia che salta; la sensazione peggiore che potesse provare, quella di sentirsi impotente e senza forze, quasi soffocato da altri che versavano nelle sue stesse condizioni.

Aveva cercato Finn dovunque ma senza alcun risultato: come voler cercare un ago specifico in un pagliaio. Non aveva più nemmeno il salvagente che aveva lasciato chissà dove poco prima di vedere Quinn. Quanto tempo era passato da quel momento? Poco, eppure sembrava che fosse passata un’eternità. E in quel momento provava la dolorosa sensazione che il tempo fosse passato troppo in fretta; un minuto prima era ancora a casa sua, con suo padre, Carole e Finn, e quello dopo cercava di farsi largo tra una folla impazzita dalla paura, su una nave che affondava, per raggiungere il parapetto, per riuscire di nuovo a respirare, per cadere in acqua, per poter avere gli occhi liberi e riuscire a fuggire alla fine per un solo minuto in più.

Quando era più piccolo gli dicevano che se si era buoni si andava in Paradiso, dopo la morte, mentre i cattivi finivano all’Inferno, ma chi gli assicurava che esistesse veramente una vita dopo la morte? Era questa la sua paura più grande in quegli ultimi istanti; non il Titanic che trascinava con sé, nelle profondità dell’oceano innocenti e non, non il pensiero dell’acqua fredda che avrebbe fermato il suo cuore in pochi minuti, ma la paura di chiudere gli occhi per sempre e trovare solo il nulla, l’assenza di pensiero e sensazioni. A che serviva morire se non avevi la certezza di poterti riunire alle persone che amavi quando sarebbe giunto il momento?

“Mamma”, Kurt la vide, con i capelli castano chiaro che alla luce del sole parevano rossi, e gli occhi che erano i suoi stessi occhi e il sorriso che portava marchiato nel suo cuore. Sapere che l’avrebbe vista non appena avesse chiuso gli occhi avrebbe reso tutto più sopportabile. E la mancanza di certezza lo tenne aggrappato alla vita con tutte le sue forze.

Con un grande sforzo riuscì a mettere una mano sul legno del parapetto; ma i suoi muscoli erano talmente stirati e doloranti che quando si rilassò un istante per lasciar riprendere fiato al suo corpo, sentì il peso delle persone attorno a lui gravargli addosso e spingerlo via.

“Ecco, ci siamo” pensò, già vedendosi scivolare lungo il ponte per poi scontrarsi con l’acqua; ma una mano salda gli afferrò il polso riportandolo contro il parapetto, al quale Kurt si tenne stretto con entrambe la mani.

Alzò lo sguardo per vedere chi gli aveva concesso quei minuti in più (ringraziarlo sarebbe stato assurdo ma uno sguardo non costava nulla) e vide due occhi dorati, arrossati per il pianto come dovevano essere anche i suoi. Le labbra di quel ragazzo tentarono di stendersi in un sorriso tremante e vacillante.

- Andrà tutto bene – parve dirgli – Andrà tutto bene.

“No, non andrà bene. Ma, almeno, non sono solo. Non siamo soli” pensò Kurt, ricambiando l’accennato sorriso melanconico e afferrando la mano del ragazzo che lo strinse ancora di più a sé, mentre le persone si facevano sempre più numerose.

Poi, le luci del Titanic si spensero, acutizzando le urla delle persone rimaste a bordo.

Le mani di Kurt e Blaine si strinsero più forte.  

 

* * *

 

Quanto puoi sentirti impotente nel sapere che migliaia di persone vicino a te stanno morendo e non puoi fare niente per salvarle?

Quanto puoi soffrire pensando che una persona che ami sta gridando aiuto ma hai troppa paura per fare alcunché?

Come ti senti quando l’impotenza, la sofferenza e la paura sono un tutt’uno?

Chiedilo alle persone che, dalle scialuppe, assistettero agli ultimi momenti dell’ “inaffondabile” Titanic, le mani intirizzite abbandonate sui remi, le bocche spalancate in un urlo muto, gli occhi che non riuscivano a staccarsi dall’immagine della poppa della nave che puntava verso il cielo stellato, le sue luci ancora accese per mostrare, crudelmente, quella tragedia che si consumava di notte, il brusio e le grida che tradivano la presenza di centinaia di persone ancora a bordo.

Il fumaiolo che crollò, seppellendo sotto la sua fatale massa di ferro tante persone già finite in acqua non fu nulla in confronto al gran finale.

Ad un tratto, le luci vacillarono, lampeggiarono e si spensero, lasciando tutto al buio, illuminato solo dal tenue chiarore della luna e delle stelle e dei loro riflessi sulla superficie del mare.

Lo scenario si spostò dagli occhi alle orecchie, con quelle urla disperate che perforavano i timpani. Che vennero coperte da un rumore più forte e più profondo.

- Tutti i mobili stanno precipitando – dissero alcuni degli spettatori dalle scialuppe.

- Le caldaie stanno esplodendo – dissero altri.

Era troppo buio; non poterono vedere il Titanic, il “gigante di ferro degli oceani”, spezzarsi in due come uno stuzzicadenti; intravidero solo la poppa della nave abbassarsi per poi risollevarsi in alto, stagliata contro la luna, simile ad una lapide, spogliata dei suoi fumaioli, con grappoli di persone che si lasciavano cadere.

- E’ finita. Sta andando.

Una fila di oblò sparì sott’acqua, poi toccò a quella successiva e poi a tutte le altre, mentre l’acqua gorgogliava. Solo pochi minuti e non c’era più nulla. Il Titanic non esisteva più. Al suo posto c’era solo una macchia d’acqua schiumante. E quelle urla; le urla di chi ancora si aggrappava alla vita; quelle urla che non si poteva fingere di non udire. Urla che ti ossessionano a vita.

Le persone sulle scialuppe potevano tapparsi le orecchie, coprire quelle urla con il pianto, con il battere dei remi sulla superficie dell’acqua e per una di loro che sarebbe voluta ritornare indietro a salvare qualcuno ce ne erano dieci che avevano troppa paura per farlo. La maggioranza vince sempre anche a costo di vivere per sempre con un rimorso che non darà mai tregua.

Come quelle urla che sembrarono durare in eterno, a tratti come il frinire dei grilli, a tratti come il lamento sul Muro del Pianto, e poi sempre più deboli. Prima erano mille, poi cento, ora cinquanta, ora dieci, ora due, ora una e, infine, il silenzio. E quelle voci dall’oceano rimasero solo nella mente di chi non li aveva ascoltati.

Sono ancora lì, a invocare aiuto. A chiedere perché li hanno abbandonati.

 

* * *

 

- Si può sapere cosa stiamo aspettando?! – esclamò Sue Sylvester, stringendo il remo che aveva tra le mani con tanta forza da farsi sbiancare le nocche – Andiamo ad aiutare quelle persone!

Quella decisa affermazione, pronunciata con tono di comando, non incontrò certo, salvo alcune eccezioni, un consenso generale, soprattutto da parte del marinaio responsabile della loro scialuppa, aggrappato al timone come un animale ferito.

- No! – affermò quest’ultimo, con tono altrettanto deciso – Se andiamo in mezzo a loro, si aggrapperanno tutti alla scialuppa e ci faranno finire tutti in acqua. Così non si salverà nessuno.

- Questa poi! – saltò su Sue, piccata.

- Vi prego – si fece avanti Carole, bianca e con gli occhi arrossati – Non possiamo lasciarli lì, a morire; potrebbero esserci donne e bambini tra loro. Potrebbero anche esserci i nostri cari – continuò rivolgendosi alle altre donne a bordo, intontite dagli eventi, incapaci di reagire.

- No! Finché sono io al comando di questa scialuppa, si farà come dico io – quasi urlò il marinaio.

Quelle ultime parole ebbero il solo effetto di far imbestialire di più Sue che, lasciando andare il remo, si alzò e si fece largo tra le donne, avvicinandosi al marinaio.

- Ma che razza di marinaio ci hanno dato – disse, disgustata – Si metta lei ai remi e dia a me il timone, visto che non sa nemmeno come usarlo.

Come colto da una crisi di panico, l’uomo ebbe uno scatto improvviso e, con una mano, spinse via Sue che cadde addosso alle donne dietro di lei, lasciandola sconvolta e infuriata da quell’attacco.

- Non azzardatevi a muovervi! – urlò lui, la voce stridula per il panico – Sono io qui che da gli ordini e se oserete ancora contraddirmi non mi farò alcuno scrupolo a gettarvi fuori bordo – concluse, sicuramente non credendo nemmeno lui alle parole che aveva pronunciato, aggrappato al timone, terrorizzato.

Con le unghie che le straziavano i palmi delle mani, le lacrime di frustrazione che avrebbero voluto uscire dagli occhi, Sue riuscì solo a mormorare un “Vigliacco” ignorato da tutti, visto che suonò come un’accusa per quelli che non avevano reagito.

Carole non riuscì a staccare gli occhi dal punto in cui era sparito il Titanic e dove le voci si stavano spegnendo, il cuore che le faceva male come se ne avesse perso un pezzo.

 

* * *

 

Era tutto calmo e silenzioso attorno a lei, adesso. Non si sentiva più nulla; erano finiti i pianti, i lamenti, le urla, non si vedeva più nessuno muoversi.

C’era una tale pace, adesso. Ma faceva anche così freddo.

Shelby non sentiva più né i piedi e le gambe, né le mani e le braccia e tutto il resto del suo corpo, tutto era diventato di freddo ghiaccio. Anche lei non era niente più di una statua di bianco ghiaccio come tutte le altre che costellavano quel piccolo pezzo d’oceano.

Forse, riusciva a sentire solo un lieve dolore alle orecchie che le dolevano come due spilli che la infilzavano ai lati della testa. Ma poi anche il suo volto divenne insensibile; non aveva più orecchie, né naso, né bocca, e gli occhi puntati contro il cielo stellato solcato di nebbia, erano fissi come due macchie di colore dipinte sul vetro.

Un piccolo suono lontano proveniva dall’acqua , sotto i molti strati del suo salvagente. Il cuore che, debolmente, pompava quelle poche gocce di sangue rimaste.

Sperava che negli ultimi istanti, la sua mente corresse ai momenti più felici della sua esistenza, la sua infanzia, i suoi genitori, il suo primo vestito da ragazza grande, il suo primo amore ma la sua testa era completamente svuotata, insensibile, senza niente. Doveva aver perso anche il senso del tempo perché vide, ad un certo punto, attraverso i suoi inanimati occhi, il buio della notte diradarsi per essere sostituito da una tenue luce, ma non era del giorno, poteva ancora capirlo. Non era la luce  dell’alba. Eppure, era luce.

Il freddo si fece ancora più intenso, tanto da diventare bruciante e perdere il suo stesso significato e non essere più tale. Una nuova sensazione attraversò il suo corpo; non più freddo, né caldo. Semplicemente un nuovo stato a cui non avrebbe saputo dare un nome.

Delle mani la afferrarono e fecero per staccarla dal ghiaccio che teneva bloccato il suo corpo; non vedeva i volti di chi la sosteneva, eppure sapeva chi erano; avrebbe potuto pronunciare tranquillamente i nomi di ognuno se avesse potuto muovere la bocca.

“E’ il momento” quel breve pensiero la investì come un fulmine; riusciva di nuovo a pensare e a sentire ma senza usare la sua testa e il suo corpo. Sicuramente, tra un po’, sarebbe riuscita di nuovo a parlare.

Ma qualcosa la teneva ancora legata, un nodo di dolore che voleva sciogliere per sentirsi in pace.

Con fatica e lentezza si voltò in direzione del buio che stava per lasciarsi alle spalle, facendo più in fretta che poté, prima che anche il suo cuore diventasse di ghiaccio. E la vide. Era lontana da lì, la sua piccola Beth, in salvo, tra le braccia di chi l’avrebbe protetta.

- Grazie – poté dire senza usare le labbra.

E, sollevata, lasciò che quell’ultimo filo si staccasse e si lasciò andare.

Il buio alle sue spalle, la luce davanti a sé.

 

 

 

Nota dell’autore:

Da studi più recenti risulta che il Titanic si spezzò in un punto già sommerso dall’acqua; ciò spiegherebbe il perché solo due sopravvissuti parlarono di questo particolare, per poi non venire creduti da nessuno, visto che, complice il buio e la paura, nessuno vide la nave spezzarsi. Solo il ritrovamento del relitto nel 1985, confermò quelle uniche due testimonianze.

 

Non ho molto altro da dire.

Ci tengo particolarmente a questo capitolo perché è quello che mi ha dato più emozioni nello scriverlo, in particolare per le parti di Kurt, dell’ultima fase dell’affondamento e la parte finale.

Non mi è venuto bene come avrei voluto, ma ho fatto del mio meglio; la mia unica spina nel cuore sarà che per tutta la fanfiction ho messo troppe forzature. Non me ne vogliate, già mi sto odiando io.

Per il prossimo (ed ultimo) capitolo dovrete aspettare un po’ perché devo ancora terminarlo e voglio che mi venga bene.

Se volete mandarmi a quel paese mi trovate a questo indirizzo:   

http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Fatemi sapere cosa ne pensate.

Ciao a tutti ed un grazie a chi continua a seguirmi.

 

Lusio

  
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