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Autore: Ekerot    17/10/2012    0 recensioni
La Magia ha perduto la sua antica forza, nell'isola di Venàlius. O almeno questo credono gli Elfi. Eppure quando scoppia una devastante pestilenza nel Nord, non trovano altra soluzione che domandare aiuto all'Oracolo, che della Magia è la voce immortale.
Una storia al centro dell'Universo, tra Tolkien ed Ende. Dove si trovano tutti gli elementi classici della fiaba, dall'eroe alla missione per salvare il mondo, ma deformati attraverso lenti particolari...
Che le muse mi sostengano sino alla fine.
Genere: Avventura, Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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L'ORACOLO DEGLI ELFI







Parte I: L'ombra su Venàlius





Proemio

 

Erano entrambi inerti: pallido e rigido il morto, il medico assorto in totale meditazione. Sprofondato nella sua poltrona, con le mani conserte per stimolare la concentrazione, fissava con occhi muti un enorme tomo di pergamena, aperto alla sezione “Morti per cause ignote”; ogni tanto reclinava il capo, rilasciando i muscoli del collo, e restava così per qualche minuto. Poi, bussarono violentemente alla porta.

Il dottore aveva iniziato bene la giornata lavorativa. Verso le nove del mattino si era presentato il calzolaio, lamentando grossi dolori alla pancia; dopo qualche domanda risultò trattarsi di un’indigestione - addebitabile al pesce della sera prima o alle uova bevute a colazione. Gli venne consigliato di trangugiare una tisana di tiglio e di restare a riposo per qualche ora, saltando possibilmente il pranzo; sorridendo, questi fece giustamente notare che se non lavorava avrebbe mangiato ben poco.

Fino alle dieci non apparve alcun paziente, e allora si recò ad affrontare il giro delle visite; chiuse la porta dello studio, e tirò fuori da una tasca l’elenco dei malati: l’impegno più difficile era il parto della moglie del Signore, già in ritardo di dieci giorni rispetto alle sue previsioni. Per le strade della cittadina tutto era in subbuglio; nonostante fosse uno dei quartieri migliori, il tanfo delle fognature che emergevano al centro della strada era a dir poco asfissiante. Ma ormai ci aveva fatto l'abitudine (e comunque, prima di entrare nel palazzo, si strofinò addosso un unguento profumato per cancellare un po' del maleodore).

La casa del Signore era decisamente imponente: addirittura al centro si ergeva una torre di quindici metri, unica in tutta Atlas; al di fuori si presentava con un elegante giardino già in fiore ed un laghetto dove spesso veniva la famiglia a prendere un bagno. Il dottore, dopo avere pulito le incrostate cinghie delle sue calzature, spinse il cancello aperto ed entrò; un servo lo attendeva pregandolo di sbrigarsi; con un'impacciata corsetta si diresse nell'abitazione e si recò da solo - già conosceva la strada - nella sala del parto. La faccenda si risolse in circa tre ore, ma il dottore perse completamente la cognizione del tempo, bagnando di sudore la sua camicia come fosse una spugna; fu tutto un correre di qua e di là attorno al letto della Signora, che strillava in continuazione, chiedendole come si sentisse, asciugandole la fronte madida, e rabbonendo il marito impaziente del nascituro. Finalmente venne alla luce un bel maschietto, ma il dottore impallidì ugualmente, quando si accorse delle fattezze del neonato, nettamente dissimili da quelle del padre; si rammentò allora del servo, bello e bruno, che lo aveva atteso all'uscio. Al Signore, preso dai dubbi e già quasi infuriato, assicurò che uno scurimento della pelle poteva accadere soprattutto nei primi mesi di vita; il medico non volle continuare il dibattito e ricevuto l'onorario si allontanò in fretta dalla casa.

Dopo pranzo riprese una tranquilla giornata lavorativa allo studio: si avvicendarono nel pomeriggio almeno dieci popolani, come al solito ammalati di fame per cui non c'era altra cura che un bel piatto di carne; e lui non poteva dir niente tranne “Si riguardi questa settimana!”. Poi, mentre stava per smontare, ritornò il calzolaio accompagnato dai figli; stava veramente male questa volta: senza voce, labbra violacee, bianchissimo in volto, mani tremanti. Sulla pancia aveva un enorme bubbone rosso, pieno di liquido opaco, che emanava fetore; provò ad intaccarlo con un bisturi, ma dalla ferita sgorgò letteralmente un lago di sangue. Il dottore, preoccupato di un possibile contagio, non lo toccò più e la morte sopraggiunse alcuni istanti dopo, tra atroci agonie.

 

Quando si alzò per aprire la porta, osservò per un istante il morto: «Almeno le tue scarpe, ciabattino, almeno le tue! Che miseria!». E passò.

  
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