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Autore: Cassandra Morgana    17/10/2012    1 recensioni
Sullo sfondo chiaroscurale di un'Accademia d'Arte Drammatica con troppe maschere da indossare e una posta in gioco che sale, tre ragazzi si incontrano.
Elena vince il proprio mal di vivere grazie a un'amicizia speciale, al ritrovato coraggio di gestire i conflitti e a un forte altruismo; si scontra con Isa, la sua nemesi, voce contraria e complementare che cerca di tessere una storia opposta.
Andrea, ragazzo ambiguo e dalla lingua affilata, vuole recuperare la stima di chi, troppo tardi, si è reso conto di amare.
Gabriele imbroglia la propria depressione fumando spinelli, nutre sentimenti ambivalenti verso Andrea e gioca da burattinaio.
Tra pettegolezzi sussurrati, volontà opposte in rotta di collisione, ambizioni frustrate, gelosie, complotti sotterranei, storie di ordinaria omofobia, dark enigmatici, musicisti irascibili, ex amanti, amicizie inossidabili e amori taciuti, in una storia in cui ognuno vuole far sentire la propria voce, resta solo stabilire chi sia Cleopatra e chi il serpente che le insidia il seno.
[Storia sesta classificata e vincitrice del premio "Stile e scrittura più originale" al contest Chi è normale non ha molta fantasia - La storia più originale su EFP, indetto da Butterphil]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il bacio dell'aspide ~ la serie'
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Capitolo 47

Killing me softly

 

 

È paura, forse, ciò che ti riverbera addosso; è terra che frana sotto i piedi, grumi di tensione tra la mossa e l’iniziativa, tra uno sfregamento casuale dell’anca e un bacio sul collo. Un nodo di tensione che ti serra la gola, perché sai che stavolta non ci sono veli, non ci sono aspettative che ti spingono: l’ha detto anche lui. Te l’ha detto con gli occhi velati da un’eccitazione crescente, il respiro corto, il movimento sinuoso della schiena mentre gli sfilavi la maglietta e non ti chiedevi più il perché.

Non muove un passo, Andrea: si limita ad annuire, ad assecondare ogni sfioramento con un guizzo impercettibile del bacino, il battito che accelera e si impenna: paura di spaventarti, di rompere i cristalli e far fuggire il gatto.

Te l’ha detto con un sorriso impercettibile e le palpebre socchiuse: Derossi, il caso è tuo. Paura di rovinare tutto, più che astuzia studiata per poca voglia di collaborare, allungarsi sul letto e lasciarsi fare, cederti l’iniziativa, massimo tornaconto col minimo impegno.

Affondi il viso nei suoi riccioli di miele sparsi sul lenzuolo, in attesa che la vocina fastidiosa nella tua testa, che vorrebbe guidarti, si risolva a tacere: in fondo non c’è nulla di complicato, di inedito. Un ragazzo come te, che reagisce come reagiresti tu, stimolato in quel modo sadico e folle, la pelle tesa che scorre tra le dita; stessi impulsi epidermici, stesse risposte: tutto sta nel fingere che al suo posto ci sia tu, e goderti ogni respiro da dentro e da fuori fino al punto di fusione.

Distratto, giochi con i suoi capelli e con il bottone dei suoi jeans, perché non sai dove mettere le mani e lui non dà segnali: fissa un punto misterioso oltre i tuoi occhi e attende all’infinito. Un passo avanti, uno solo: non chiedi tanto, stavolta. Ma c’è ancora la paura che cristallizza i movimenti in uno stillicidio, la mano che indugia su di lui intorno alla cintura. E poi viene la notte.

Uno scatto improvviso da parte sua, un colpo di reni che ribalta le posizioni e ti lascia lì con il cuore in gola.

- Basta, Derossi – sussurra, lo sguardo che si perde e poi di colpo è di nuovo lì, lucido e sconvolto su di te a scavare tra le ombre sul tuo viso – Basta così.

Torreggia su di te, accosciato in corrispondenza dei tuoi fianchi, le gambe divaricate, il torace liscio che riluce appena sotto il chiarore dorato della tapparella semiabbassata. Il guizzo impercettibile di un sorriso sullo zigomo contratto: ora ti faccio vedere.

- Basta negarti a me! – sospira – Basta farmi morire così…

È la soluzione che aspettavi, che temevi, che hai rimandato all’infinito. Fa male, fa male lui, un ago conficcato sotto la pelle, perché è l’unico momento in cui è veramente sincero, veramente lui, in cui il sipario cala e si porta dietro la sua razionalità. Perché Andrea mente sempre, mente anche quando vuole dirti la verità, e quando mente ride, e gli occhi lo tradiscono. Ma la sua pelle che va a fuoco, gli occhi lustri, il turgore del suo sesso dentro quei jeans troppo stretti, il respiro che grida e freme sulle tue labbra, quello è reale e inequivocabile. È il suo linguaggio più sottile e autentico.

- Andre…

Forse il controllo ti ha abbandonato quando è andato via il sole e avete smesso di fissarvi negli occhi, una sinfonia di ombre tra un gemito e l’altro e le sue labbra avvitate alle tue. Un vero bacio, i denti che grattano impietosi contro le labbra aperte, spingono la tensione al limite, scavano voragini in fondo al petto. Questo è quello che sono in grado di fare, Derossi. E poi riprende a sorridere – il tocco delle sue labbra testimone, i muscoli del viso che si tendono.

Ti intrappola tra le sue gambe, le anche incollate alle tue, e oscilla strappandoti un sospiro.

La celebre scopata da vestiti che lo rese tristemente famoso. Vorresti scoppiare a ridere, e in fondo non ci sarebbe nulla di male, perché le labbra continuano a cercarsi, a inghiottire frazioni di respiro, a giocarsi ogni singola boccata d’aria.

L’hai sempre voluto: il desiderio così disperato da scolpirsi a fuoco nella carne, da inciderti la pelle a morsi. L’hai voluto quando sembrava un miraggio, una situazione destinata a beffarti al girone d’andata, a sputtanarsi all’infinito, a scivolare sempre più verso il punto di non-ritorno. Ma non glielo dirai mai, che l’ultima volta te la sei cavata così, intrappolandolo sotto di te e prendendoglielo in bocca fino a fargli perdere i sensi, solo per la paura che fosse lui a toccarti, a farti vibrare, a scartarti dal tuo guscio di autocontrollo. Era bello non sporcarsi le mani, non affrontare l’incognita – la paura di farvi male, la paura di vivere.

Quella che chiunque può descrivere come la sensazione più assurda e devastante dell’universo, è solo lo strappo della coscienza che va alla deriva, che cede al languore, i sensi che si appannano e si confondono. È il fatto che racchiuda in sé un frammento di dolore, la malinconia del distacco.

Lui invece è nel suo elemento, le mani che vagano su di te, sui bottoni della camicia che per poco non cedono alla sua furia, al suo desiderio irrazionale di esplorare. Il suo tocco di velluto che si inabissa, segue strani percorsi, disegni astrusi sulla pelle, sulla muscolatura contratta.

Non credevi sarebbe stato così: uno strattone dopo l’altro, un brandello di lucidità come fumo negli occhi, le lenzuola stropicciate strette tra le dita. Andrea che si scosta i capelli dal viso e si china su di te, sempre più in basso, sempre più in là oltre la barriera sottile dei boxer attillati.

- Derossi… sei mio – mugugna, e deglutisce a vuoto – Lascia fare a me.

Il tuo regno, Andrea. Il tuo regno per rendermi parte del tuo personale delirio.

Perché sarei schizzato via, se non fossi stato tu. La tensione sarebbe diventata panico, il panico un incubo da cui affrancarsi, e da lì guadagnare la via d’uscita col respiro bloccato in gola e mettere più chilometri possibili tra noi. Lontano dallo strofinio insopportabile di due epidermidi di diversa temperatura, da fitte di dolore che covano sotto la cenere.

Invece non c’è altro. Nient’altro che il tocco umido della tua bocca, un soffio insopportabile dove potresti farmi cadere il deliquio, implodere su me stesso, tenermi in sospeso tra la veglia e l’incoscienza e un languore così intenso da intossicarmi.

Andrea continua a sorridere, una risata silenziosa inframmezzata da inspirazioni profonde. Si morde il labbro, gli occhi socchiusi, una fitta di piacere improvvisa come una frustata.

Ma questo è il tuo mondo, Nicoletti: dovresti trovarti a tuo agio.

Forse vorrebbe persino cercare sollievo, ma non sarebbe carino. Preferisce concentrarsi su di te, scorrere lungo il ventre e l’interno coscia, indugiare verso l’inguine con dita di piombo, torturare con i denti l’elastico dei boxer. Accostarsi e assaltare senza preavviso.

- Andrea…! – solo il suo nome sulla punta della lingua, che riecheggia nella tua mente svuotata, i denti che si serrano sulle labbra per trattenere un grido, perché la porta è chiusa a chiave, ma le pareti sono di polistirolo e non si può mai sapere chi passerà lì per caso.

Ci sono solo le sue labbra che scorrono senza soluzione di continuità, la lingua che guizza, uno schiocco improvviso sul tuo corpo indifeso.

Non l’avresti detto. Che non avrebbe fatto male. Che non avresti più avuto davanti agli occhi il suo sguardo che si posa ovunque tranne che su di te, l’indifferenza distillata; il tradimento insopportabile di qualcosa che per un attimo ti aveva riportato in vita, ma che, tempo due giorni, ti si era già negato, trasformando la speranza in veleno crepitante dentro le ossa, lividi sotto la pelle e delusione da smaltire. Andrea che ti sputtana con gli amici, Andrea che si fa sollazzare da Neri, e poi tu che raggiungi Neri e gli sputi in faccia ciò che pensi di quelli come lui, e lui che prova a comprare il tuo silenzio, e da lì in poi il buio e le lacrime. Svanite in un battito di ciglia, in una risata protratta a lungo, in un’attesa sfiancante, nel contatto febbrile delle sue labbra che si chiudono sul tuo sesso.

Non l’avresti detto che sarebbe stato oggi, incastrati in un intervallo di tempo qualunque – proprio adesso, e non mesi fa, quando la ferita era fresca e superficiale, quando ancora non ti eri sporcato, quando riuscivi ancora a guardarlo in faccia, a desiderarlo e a morire per un luccichio in più dentro i suoi occhi – che lui finalmente fosse per te.

Non l’avresti detto, che avresti perso il controllo, che saresti collassato con lui, che lo sfioramento decisivo sarebbe stato un grido dall’eco infinita, un guizzare di scintille, e avrebbe lavato via tutta l’angoscia, l’amarezza, il rancore.

Non l’avresti detto, che il contatto più intimo sarebbe stato persino sopportabile, lontano dall’imbarazzo, dall’impulso alla fuga. Invece i tasselli, contro ogni aspettativa, continuano a incastrarsi. Vorresti piangere e al tempo stesso perderti, sparire nel suo lavorio instancabile di mani e di labbra che frugano nella coscienza, che si rigirano a piacimento ogni respiro, ogni palpito improvviso.

Mi stai massacrando. E resuscitando. Trattenendo per un lembo di stoffa sottile.

Le ombre danzano sulla parete, mentre lui si stacca da te e ti afferra per i fianchi – ma forse è solo la tua sensazione. Pronto a trascinarti nel suo abisso di irrazionalità, ogni cellula che urla di volerti.

Perché adesso, Nicoletti? Perché adesso che tutto è perduto? Non c’è continuità, non c’è una sessione comune in cui riconciliarsi: perché se stai mentendo, se questo è solo il tuo ennesimo capriccio, il tuo giochetto da trascinare al limite, non meriti più un secondo del mio tempo, della mia vita; se sei stato sincero fino a questo momento, allora sono io che faccio schifo, perché non sono quello che sono, quello che pensi, che vedi davanti a te. Ti ho mentito e non esiterò a calare il colpo mortale, se lui avrà il coraggio di ripresentarsi qua dentro con la sua faccia da puttaniere bastardo.

Forse sono le menzogne che ci rendono simili: un intero castello di bugie.

 

* * *

 

- Alex? Tutto bene?

Patrizio indietreggia verso la porta, un peso sul cuore che sprofonda fino alla suola degli stivali. Forse è il caso di chiedere scusa e scavarsi con calma la sua fossa di imbarazzo.

Alex continua a fissarlo con quella strana smorfia. Poi, inaspettata, una risata piena che esplode senza preavviso e sconvolge ogni previsione, rimbalza lungo le pareti del corridoio e giù per le scale, sciogliendo la tensione impigliata nell’aria. È così bello quando ride…

- Scusami, Patrizio… davvero. Scusa – biascica, le lacrime agli occhi e la voce infranta da una selva di sussulti.

Patrizio si stringe nelle spalle: l’unico è attendere che la crisi passi. In un’altra situazione saprebbe cosa fare, come uscirne vivo, come chiarire la questione in un battito di ciglia. In un’altra occasione gli direbbe che la sua risata ha un che di trascinante: irradia una strana luce che parte dagli occhi socchiusi e investe le labbra tese, la bocca troppo larga su quel viso da folletto e un sorriso che ti rapisce lo sguardo.

- Fa ridere…?

Alex strizza le palpebre in un tentativo maldestro di recuperare il controllo; solleva la mano con indice e medio alzati, mentre boccheggia per riprendere fiato.

- Due cose… – esala, la voce spezzata.

- Eh? – Patrizio lo afferra per le spalle un attimo prima che, barcollando, perda l’equilibrio.

Strana creatura.

- La prima… Entrambi saremmo interessati a un’altra persona, se non sbaglio – sussurra, sbattendo le ciglia – Eppure ci siamo appena baciati. Tu muori per Nicoletti: negalo, se sei capace – ridacchia.

- Ma…

- Shh… – Alex soffia a due centimetri dalla sua faccia, gli occhi umidi impiastricciati di kajal – L’hanno capito le pietre!

- E tu? – incalza Patrizio – Chi è la fortunata… o il fortunato?

- Non la conosci. O forse sì… – Alex china lo sguardo, e tutta la sfrontatezza di un attimo fa si dissolve in un’indecisione bruciante.

- Loria? – azzarda – Così si dice.

- Già – Alex annuisce – Ma… non farti strane idee: non ho grandi chance. Non c’è niente in gioco.

Patrizio distoglie lo sguardo: è il suo turno di scoppiare a ridere, di cuore, stavolta. Ridono entrambi, come matti, cercando reciproco appiglio in un tocco casuale sulle spalle.

- Qual è la seconda cosa… che ti fa sganasciare?

- Se mi fai entrare te la spiego – gli sibila, diabolico.

Silenzio. La porta chiusa alle sue spalle con un colpo di mano e gli occhi verdi di Alex che si muovono su di lui, indecifrabili.

- Questo – prosegue – Ti sembra anche lontanamente un bacio?

- Abbi pazienza – lo interrompe Patrizio, le mani sui fianchi – Che pretendevi? Che ti sbattessi al muro, in attesa di una ginocchiata dove non batte il sole?

- Il rischio dà più sapore.

Alex scuote il capo con la faccia dell’uomo vissuto – e magari lo è, alla fine: magari, dietro quel musetto da pulcino bagnato, è una macchinetta. Sempre con quel sorriso tirato che gli taglia la faccia.

Dannato ragazzino.

Silenzio, altro battito di ciglia che corre sul filo. Le labbra di Alex che sanno di nicotina e di burrocacao gusto zero, si schiudono sulle sue in uno schiocco umido, percettibile il tanto che basta a inchiodarlo al muro, animare di nuova vita le farfalle che gli solleticano lo stomaco, rubargli il respiro con uno sfioramento casuale della lingua, un formicolio insopportabile lungo la schiena. Dalla punta delle labbra fino ai fianchi rigidi che cozzano contro il muro e contro il suo corpo premuto addosso. Le sue anche ossute e la cintura borchiata dall’apertura impossibile.

Aspetta e spera, Thompson. Continua a respirarmi addosso, le labbra spalancate sulle mie, partecipi di ogni respiro, pronte a scavarmi voragini sul cuore, plasmarmi contro la parete con il semplice attrito. Fammi male.

Patrizio sussulta, quando la lingua di Alex guizza sfiorando una corda troppo scoperta, il tintinnio del piercing al labbro come un brivido gelido. Bravo ragazzo: se siamo fortunati, riusciamo pure a non finire incastrati.

Lui continua a oscillare tra incoscienza e controllo: qualcosa, nel movimento frenetico della sua bocca, gli suggerisce che si sta divertendo, i muscoli della faccia che trattengono un sorriso di trionfo. Alex lo intrappola tra la parete e il suo corpo teso e riscrive per lui i confini di quella stanza, di quei secondi, di quell’ora di lezione ormai persa tra il solito disastro giornaliero, la fuga e il colpo di genio che ti ripulisce da ogni dubbio. Le mani di Alex che cercano le sue, guidandogliele intorno alla vita in una presa morbida.

Okay, sei contento: mi hai preso e reimpastato da zero, appianando ogni punta di lucidità in un guazzabuglio di vertigini e delirio; mi hai ridotto a un ammasso di cera liquida, una sagoma informe nelle tue mani; hai preso il ragazzo più grande e ci hai limonato duro fino a fargli girare la testa, fino a farlo spasimare per te. Bravo, dieci e lode. Se ti spingi fino all’orgasmo simultaneo, c’è il bacio accademico. Senza lingua.

Patrizio socchiude gli occhi. Lascia vagare lo sguardo sul suo viso, una visione sfocata di un bianco abbagliante che si increspa verso i bordi. Ha gli occhi chiusi immersi nella nebbia, il respiro affannoso che gli vibra addosso, e quasi rantola. Patrizio si scosta da lui il tanto che basta ad allentare la presa, scorrere con i denti lungo il labbro inferiore, mentre la mano indugia verso il ventre.

Andrea impazziva, quando facevi così. Quando lo sfioravi senza esplorarlo davvero, lasciandolo sospirare per un contatto più intimo che gli facevi sudare e implorare.

Lui invece per poco non ti frana addosso, incespicando nei propri piedi in un roteamento di fianchi azzardato. Un sospiro profondo, e finalmente riprendete a fissarvi negli occhi.

- Più o meno così… – sussurra, le guance scarlatte e gli occhi languidi, lasciando morire il suo bacio da manuale in un mugolio con annesso strusciamento a caso sulla mascella, le labbra che schioccano – Qualcosa del genere, intendevo. Con “un bacio”.

Ironia del cazzo che si sposa assurdamente bene con i suoi occhi scintillanti, le labbra lucide appena un po’ provate e il viso da adolescente navigato.

- Sei stato cristallino…

Silenzio. Quegli attimi di encefalogramma piatto che seguono l’esplosione dell’istinto. A dividersi da buoni amici qualche grammo d’ossigeno e le quattro mattonelle che vi fanno da supporto, eccitati da fare pietà, il respiro che graffia contro i polmoni. Il gelo della razionalità che fluttua tra voi come un fantasma, ma evita di prendere il via.

Patrizio si schiarisce la voce, le gambe molli che azzardano qualche passo avanti: se riesce a non stramazzare adesso, può fare qualunque cosa, tipo sollevare l’edificio a mani nude o dissuadere Basile dal rovinare quel bel volticino pallido.

- Vieni – gli ingiunge, atterrando sul divano e tirandoselo dietro.

Il silenzio si raggruma contro i vetri, ma non sa di imbarazzo, di non-detto. L’assurdo sta nel fatto che Alex l’ha preceduto per una frazione di secondo e ha sciolto per lui la questione.

La verità è che dove qualcuno vede la variabile impazzita da rigettare e disprezzare, il capro espiatorio su cui rifarsi le unghie, l’emo dimmerda da spalmare contro il muro un giorno sì e l’altro pure, lui vede un cerbiatto che un bel giorno ha deciso di smarrirsi nella tana del lupo senza sapere a cosa stava andando incontro – dannate gerarchie del cazzo. Il ragazzo dai capelli viola che gioca a fare il figo, cerca attenzione sgranando gli occhi a due centimetri dal tuo naso e ti divora fino a mandarti in iperventilazione.

Alex calcia via le scarpe e si sdraia al suo fianco, una gamba penzoloni sullo schienale e la testa adagiata sul suo grembo – principino viziato fino all’ultimo.

- Posso, vero?

Patrizio scuote il capo e gli scosta i capelli arruffati dalla fronte.

- In realtà volevo ringraziarti – sussurra Alex, cercando la sua mano e portandosela sul petto – Per tutto. Per la stanza, per avermi… salvato la faccia. In tutti i sensi. Per volermi con te.

- Allora cerca di farti sbattere fuori più spesso – Patrizio ridacchia.

Se poi questa è la ricompensa.

È bellissimo stare così, senza nulla di speciale da dirsi. Il suo respiro che torna regolare, ignorando il turgore in basso, i lineamenti distesi, le dita che si intrecciano alle sue e non smettono di cercare l’appiglio fisico. Potrebbe cullarlo con il suo respiro e osservare all’infinito le sue palpebre che cedono e si fanno di piombo.

- Stai firmando la tua condanna, Lastella – sussurra con voce cantilenante.

- Falla finita!

- Sei sicuro?

- Quanto lo sono di chiamarmi Patrizio.

Sogghigna. Non aspettava altro segnale per spingersi con la mano oltre il bordo della maglia che si solleva a scoprire il fianco, il minuscolo tatuaggio nero su bianco. La sua pelle scorre sotto le dita, un fremito impercettibile. Si agita senza troppa convinzione, ma non cerca di impedirgli l’accesso. Ridacchia.

- Così mi fai il solletico e basta, eh…

Ancora qualche secondo.

La mano si inabissa in alto fino al petto e lo accarezza come un gatto. Il contatto freddo e improvviso con il celebre piercing al capezzolo che ha intravisto una volta per sbaglio e tanto è bastato a far precipitare verso il basso il suo ultimo neurone sano, esplode come una scossa sotto le dita.

- Ahi… – Alex si divincola.

- Che c’è?

- Niente… è che questo l’ho fatto da poco.

E si solleva la maglia sul torace glabro. Senza intenti equivoci, perché stavolta sembra chiaro come il sole, persino a lui, che ti tiene in pugno e non ha bisogno di fare le capriole per sedurti: gli basta scuotere le palpebre, respirare, esistere. La barretta di metallo luccica sotto la luce di metà mattina.

- Mi piace.

Come tutto il resto. Basta soltanto sforzarmi di mandare avanti una sottospecie di discorso per non sembrare un completo imbecille.

Alex socchiude gli occhi, allungandosi sul divano. Rilassato ai limiti del colpo di sonno.

- Mi stai fissando – gli soffia, a bruciapelo.

- Sarà che ci sei solo tu in questa stanza – Patrizio gli sfiora la guancia con il dorso delle dita, soprappensiero – E che… sei anche bello.

 

* * *

 

Alla fine ce l’ha fatta. A chiudere il giro della morte.

È stato bello perché, se morivi tu, moriva anche lui: sareste morti insieme, stretti in un abbraccio letale.

Alla fine ce l’ha fatta, a chiudere gli occhi e spegnere il cervello, assecondare i suoi movimenti e avvolgerlo con tutto il corpo. Andrea si è sdraiato su un fianco, gli ha preso la mano tra le dita serpentine e se l’è stretta all’altezza dello stomaco, la schiena inarcata fino a sfiorarlo.

Alla fine ce l’ha fatta, Gabriele, a spingersi dentro di lui alla cieca, in cerca di qualche nervo abbastanza superficiale da incendiarlo tutto e farlo gemere, propagare fitte di piacere a ogni fibra del suo corpo.

Forse il momento in cui avete smesso di respirare, è stato quando gli hai piazzato una mano tra le cosce per centellinare con calma il suo delirio. C’erano un sacco di cose carine che si potevano fare.

- Gabriele…

- Va tutto bene?

Sì, no, forse.

- Scusa… – ha esalato Andrea, afferrandolo per la nuca e spingendolo verso il suo collo nella muta richiesta di un bacio, come un cucciolo a cui insegnare a mangiare dal piatto – È che… Dio, è da tanto che non lo facevo.

Ecco. Il suo modo personale di rovinare tutto. Fotogrammi confusi di lui che si scopa Neri o una delle sue amichette.

Zitto, per amor del cielo.

- Che… volevo fossi tu.

Idiota al cubo.

Poi, per fortuna, ha smesso di dire idiozie e ha cominciato a ondeggiare, a risentire della sensazione che tu fossi dappertutto. Dello sfioramento superficiale che annega in un piacere sordo.

La cosa più tremenda del sesso è che rovescia tutte le prospettive, intrecciando sensazioni di diversa natura. Il fatto di poterlo rivoltare sotto di sé in cerca del contatto che inneschi dentro di lui l’escalation da cui non si torna indietro, e contemporaneamente perdersi in lui, sentirselo collassare addosso e stringerlo in una morsa.

Poi è venuto il buio, il buio venato di esplosioni a tinte forti, e non è più stato in grado di decifrare nulla.

 

Andrea si volta verso di lui come se gli costasse un’immane fatica e lo circonda braccia e gambe, sorridendo con gli occhi socchiusi. Se lo stringe addosso come se non sopportasse la presenza dell’epidermide a far da barriera tra loro. Sospira. È quasi svenuto dopo l’orgasmo, ma adesso il sole ha ripreso a riverberargli negli occhi. Lui e il suo modo estremo di vivere qualunque cosa, di tuffarcisi a scatola chiusa: non c’è mai la sfumatura.

Cos’è stato a capovolgere tutto? Forse l’istante in cui ha deciso di farti impazzire artigliandoti i fianchi e immergendoti in lui in un perfetto avvitamento. Forse sono le lacrime sulle tue guance, un secondo di follia prima di venire: potevi solo dosare l’attesa, il brivido gelido tra le costole che segna il “dopo”. Aveva ragione: qualcosa avrebbe fatto male.

- Shhh… – Andrea si solleva sul gomito con quel poco di forza residua e gli prende il viso tra le mani.

Il tepore delle sue dita che lo fa trasalire.

- È tutto finito.

- Ho paura di rovinare tutto, Andrea – gli sussurra.

Non può trattenersi, tergiversare, le spalle scosse da sussulti e le mani di Andrea che viaggiano tra i suoi capelli, che se lo stringono al petto.

- Che succede?

Quella visione indistinta prima di addormentarsi, prima di crollare esausto tra le sue braccia, sognando di osservarlo ancora un po’ mentre cede alla stanchezza di un incontro infinito. Ma poi, per qualche ragione che non riesce a spiegarsi, l’incubo ha ricominciato a rimbalzargli nel cervello senza soluzione di continuità, una scheggia incastrata nelle carni. Si è svegliato con le lacrime che gli pungevano gli occhi e il desiderio di piangere, e un motivo che non vuole confessarsi.

   
 
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