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Autore: Ely79    18/10/2012    2 recensioni
Mala è la cartografa dell'aeronave Zenobia, ma la sua mente è ben distante dalle rotte e dalle mappe. I suoi pensieri sono rivolti all'ultimo giorno di scuola di Ester, sua figlia, ed alla sorpresa che le ha preparato. Ma il viaggio riserverà qualcosa anche a lei...
Storia prima classificata al "Miscellaneous - Un altro Diabolico Contest" indetto da Releeshahn.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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II - Mater et filia
Aleena

II – Mater et filia1

Era arrivata in leggero anticipo, nonostante avesse perso tempo a rimirarsi in una vetrina nella Piazzetta del Titano, stentando quasi a riconoscersi. La sagoma a clessidra che normalmente il suo corpo sfoggiava era accentuata dalla rigida gabbia di stecche e lacci del corsetto che insisteva ad attentare alla sua respirazione.
«Chissà cosa dirà…» aveva mormorato mentre sistemava la coccarda sul capellino.
Più che alla figlia, il suo pensiero andava al padre di questa. Mala aveva tutta l’intenzione di mostrare quella sua nuova versione a Tancredi, a costo di farsi prendere in giro per il resto della vita.
Non si vedevano dall’estate precedente, quando per una manciata di giorni le rotte avevano concesso loro di riunirsi come una vera famiglia. In quelle occasioni tuttavia, c’era sempre un sottofondo lavorativo da cui non potevano liberarsi e che impediva loro d’azzardare slanci di quel tipo: la moda non era una priorità quando ci si trovava in navigazione tra le nubi o si contrattavano partite di merce nel suq di Damasco.
Nell’attesa che i grandi battenti si aprissero, Mala venne avvicinata da un’altra donna. Era Benedetta, la madre di Cristina, la migliore amica di Ester. Una donna allegra e loquace, sempre sorridente anche sotto una grandinata, abituata a lasciare i giudizi in un angolo. Non avrebbe potuto essere diversamente, dato che lavorava come donna di servizio presso uno dei più rinomati bordelli della Repubblica.
«Dodici anni. Ma ti rendi conto? Ieri gli davano la poppata e oggi succhiano al seno della vita» proclamò entusiasta, arricciando una ciocca bionda attorno all’indice.
Man mano che i capelli si attorcigliavano, la sua espressione cambiava, sfumando in un cupo avvilimento.
«Cielo, mi sento vecchia» sospirò, fingendo di cercare conforto appoggiandosi alla spalla della cartografa.
Mala tentò di ridere, emettendo poco più che qualche rantolo.
«T-ti prego… B-Be… nedetta… non far-rlo… non rie-sco» e indicò il corsetto boccheggiando.
Indispettita dal colore livido che stavano assumendo le labbra della navigatrice, Benedetta fece un piccolo passo indietro, quel tanto da permetterle d’infilarle una mano sotto la giacca senza che nessuno dei presenti la notasse. Sfilò un poco la camicetta e individuò svelta le asole incriminate.
«Oh, tesoro, ma chi diavolo te l’ha messo? Un fachiro?» allentando con movimenti esperti i lacci del busto.
«No… un dannatissimo mamba isterico» ansimò, sentendo finalmente l’aria tornare nei polmoni.
«Ah, il Capitano. Mi spiace, mia cara. Più di così non posso fare. Dovresti toglierti tutto e non penso proprio che questo sia il luogo adatto a certi spettacoli» si scusò, risistemando la giacca e la tornure di pizzo.
«Concordo, ma grazie comunque, Benedetta. Va già molto meglio» sorrise, tastando con circospezione il costato attraverso la stoffa rigida, in cerca di costole fratturate o fuori posto.
Aveva la strana impressione che il torace avesse preso una forma diversa.
«Guarda al lato positivo: la sua poca dimestichezza con la biancheria intima ti ha consentito di passare il tempo concentrandoti su qualcosa come il restare in vita per tua figlia, piuttosto che su altro».
«Vale a dire?»
Benedetta non ebbe modo di replicare: la risposta si palesò a pochi passi da loro.
C’era un gruppo di donne, in gran parte balie e servette, intente nell’ossequioso ascolto di una di loro.
«Sì, insomma, quello grande dicevo, adesso non so bene quale sia… comunque, quello lì, seguirà il suo desiderio e prenderà il posto di suo padre. Perché è questo che vogliamo e che vorrà anche lui, chiaro. Non potete capire quanto siamo orgogliosi, dubito che i vostri figli siano tanto giudiziosi. E le sorelle faranno ciò che vogliono anche loro, quando lo decideranno, perché intanto sono piccole. Oh, non mi ricordo esattamente quanti anni hanno… mi pare… sei? O nove? Sì, credo che quella di mezzo abbia nove anni. O dieci, qualcosa così. E la femmina piccola… ma ho anche una che non va a scuola? Oh, ma certo, certo che ce l’ho. La perla dei miei gioielli. Voi non potete capire! Lei ha… sette anni? Forse cinque. Ah, no, deve averne sei o sette, altrimenti non andrebbe a scuola. Lei certamente dovrà sposarsi con qualcuno d’importante, perché è così bella che sarebbe sprecata con un bottegaio qualunque. Almeno, io penso sia bella. Non saprei. Non l’ho mai guardata bene, ma sicuramente è così. Non potete capire quanto mi fa stare in ansia pensare di avere una figlia tanto bella. Chissà quanti hanno messo gli occhi sulla mia bambina! Non potete capire quanto sia orribile avere una figlia. E poi ci sono gli altri due maschietti, terribili e scansafatiche… ma perché ve lo dico? Voi non capite la mia situazione! Oh, è così difficile avere tanti figli! Ma è un dovere che le persone per bene devono fare, sono il simbolo di quello che siamo, devono renderci orgogliosi e ricambiare i sacrifici che facciamo per farli diventare qualcuno».
Mala inorridì a quelle parole, ma il monologo non era ancora finito.
«Per fortuna c’è il collegio, almeno le femmine stanno qui tutto il giorno. I maschi sono di là, nell’altra scuola vicino a San Francesco, perché non ce la farei proprio a gestirli da sola tutti quanti. Insomma sono… cinque? No… sei forse. Tanto non è che si paghi chissà che. No? Si paga? Ed è caro? Oh, queste cose io non le so, le sa mio marito. Penso, almeno. Non potrei mai lambiccarmi la testa in queste cose! Non si possono comprendere! E poi peggiorano solo la mia salute. Oh, ma perché mi è toccato tutto questo? Non ne ho abbastanza di tutto quello che già mi affligge? No, non dite nulla per consolarmi, vi prego, non potete capire! Voi non sapete cosa mi accade! Prendete oggi, per esempio: vestirmi perché dovevo per forza venire è stata una tortura. Oh! Sapeste che dolore alla schiena! E le braccia! Per non parlare delle caviglie… è un supplizio, non potete capire. E quelle inutili sguattere che non sanno fare altro che riempirmi di lividi mentre mi vestono. E non avete idea di che gusti orrendi abbiano! Devo dire sempre io che cosa desidero indossare! Se fosse per loro, quelle rare volte che la salute mi da un po’ di tregua per consentirmi di uscire, dovrei andarmene in giro combinata come una di loro! Devo fare tutto io! Io devo pensare a tutto, io che sono sempre afflitta da quell’orrenda emicrania… davvero, non potete capire!»
Mentre parlava, non guardava in faccia nessuno. Teneva gli occhi bassi o fissi su un punto imprecisato lungo le facciate dei palazzi, come se stesse recitando un copione con sé stessa.
«Se stai pensando: “questa ha le piume in testa”, sappi che sei in buona compagnia: lo dicono tutti qui».
In effetti, lo pensava davvero. Quelle ciance le avevano ricordato i discorsi dei suoi genitori, talmente ciechi e sordi da anteporre il prestigio della famiglia alla felicità della figlia. Non avevano mai tentato di capirla, di dimostrarle almeno un poco d’affetto. Ricordava quel ritornello applicato a ogni loro decisione “questo è tutto quello che hai sempre voluto” ma non c’era stata una volta in cui qualcuno le avesse domandato quali fossero i suoi sogni o le sue speranze.
«Ti dico solo che l’hanno soprannominata la Madonna del Pesce2» proseguì sottovoce Benedetta. «Non fa che lamentarsi, struggersi, soffrire, tutta pia e devota a nessuno sa cosa. Accusa tutti di non capirla, ma si spiega benissimo. Peccato che poi si contraddica sempre».
«Quindi, tutto quello che vuole è qualcuno che l’ammiri
Benedetta fece spallucce.
«Chissà. Forse soffre davvero. O forse non ha mai provato un solo dolore autentico in tutta la sua vita e prende male tutte quelle piccole cose che ci vengono servite giornalmente sul piatto della vita».
«Siamo poetiche?» domandò Mala, senza riuscire a nascondere una punta d’amarezza nella voce.
Udire quei discorsi l’aveva profondamente infastidita.
«Colpa del professor Casali. Ieri sera ho dovuto tenergli compagnia fin quando Dalloyau3 ha potuto riceverlo. Chissà perché, quando è con quella francesina, non parla di filosofia e pensatori morti…» scherzò.
«Ci sei tu ad ascoltarlo» la stuzzicò l’altra, poco convinta.
«Sentissi solo lui… non hai idea dei gorgheggi! A che serve andare all’opera quando si hanno tanti cantori tutti insieme? E mai due volte la stessa aria! Poi la gente parla schifata di un mestiere così… artistico!»
Abbandonarono il discorso, sentendo i grossi cardini stridere. Da dietro le porte eruppe una torma di ragazzini di varie età, accompagnati da scampanellii forsennati e vani richiami da parte delle religiose.
Una ragazzina si fece strada tra i gruppi di alunni vocianti, camminando composta nella divisa scura del collegio. I grandi occhi castani puntavano dritto avanti, forse un po’ troppo seri e decisi per la sua età, ma scintillanti per l’allegria trattenuta. I capelli bruni avevano una sfumatura tendente al rosso, appena accennata, identica a quella della donna dinanzi cui si fermò.
Si scambiarono una lunga occhiata, studiandosi a vicenda. Mala non aveva mai visto sua figlia con indosso la divisa del collegio, sobria e composta, né Ester aveva mai avuto occasione di vederla sfoggiare abiti eleganti, degni di una nobildonna.
«Madre» salutò educata, facendo un breve inchino.
«Ester» rispose lei, imitandola.
Ad entrambe scappava da ridere, ma sapevano di dover resistere fintanto che tra i presenti si fossero aggirate le consorelle a dispensare i resoconti dell’anno scolastico. A loro toccò l’onore di essere informate direttamente dalla Madre Superiora, una donna altissima, asciutta, il volto rugoso macchiato dalla vitiligine.
«Veste inconsueta la vostra, signora Fioritto» commentò, le labbra tese da una smorfia insolitamente ostile.
«Signorina Cortinovis, veramente» la redarguì mentalmente Mala.
Lei e Tancredi non erano sposati, o almeno, non lo erano secondo le leggi delle società terrestri. I riti matrimoniali di Armada non erano riconosciuti fuori dai suoi impalpabili confini: erano considerati poco più che mere pagliacciate o attacchi alle civilissime società di città, a seconda di chi commentava.
«Ester si è dimostrata una fanciulla dotata e ricettiva, rispettosa ed educata. Non ha mai mancato di aiutare i compagni in difficoltà e di prestare servizio alla Santa Messa. Ha voti molto buoni in ogni materia, esattamente come ci si aspetta da una delle nostre allieve. Ne siamo compiaciute».
«Lo sono anch’io, Madre».
Avrebbe voluto essere un’affermazione carica d’orgoglio, ma la voce di Mala aveva un tono interrogativo. Non capiva perché la suora fosse tanto indispettita. Non l’aveva mai trattata a quel modo, anche quando aveva accompagnato Ester calandosi nel cortile della scuola direttamente dal ponte della Zenobia.
Mentre la monaca si accomiatava con fare sbrigativo, Mala vide passare la Madonna del Pesce. La guardò allontanarsi con l’espressione svagata e affranta di chi non ha una sola, vera preoccupazione nella mente. I figli, appena arrivati con una bambinaia, scorrazzavano chiassosi risalendo la via con le sorelle inseguite da un’altra balia, mentre lei, sola, avanzava con passo stanco in direzione opposta, l’aria dolente e rassegnata al nulla. Così simile a quella di sua madre, anni addietro.
«Mamma?» chiamò impensierita Ester.
Lei si riscosse, rivolgendole un grande sorriso mentre la prendeva sotto braccio.
«Andiamo. La scuola è finita» e si avviarono verso l’aviostazione.
Salutarono a distanza Benedetta e Cristina, prese in disparte da un’altra monaca che pareva aver tutta l’intenzione di recitare con loro il Santo Rosario almeno un paio di volte.
Si nascosero in uno degli androni che passavano da parte a parte le basi delle case di Contrada Omerelli, lanciandosi l’una nelle braccia dell’altra, dimentiche del contegno richiesto dal Collegio.  
«Mamma! Mamma, mamma, mamma!»
«Tesoro! Tesoro, la mia Ester! Cieli e zefiri, quanto mi sei mancata!» singhiozzò Mala, sentendo il cuore stretto dalla sorpresa: la bambina che aveva salutato l’inverno precedente davanti alla scuola ora si stava trasformando in un’adolescente.
«Che te ne pare?» chiese, facendo una lenta giravolta per mostrarle l’abito.
Ester la esaminò a metà tra l’entusiasta e il critico, seguendola in strada e correndole intorno.
«Il pizzo! E le perline sulla borsetta! E… e quello!» trillò indicando il parasole.
«Manico in avorio e copertura in pizzo e seta. Non mi sono fatta mancare niente!» disse, ruotando piano l’ombrellino. «Allora? Qual è il responso?»
«Sei… sei strana! Se ti vedesse papà!» esclamò ridendo e improvvisando uno strano balletto.
«Strana? A me quella strana sembri tu. Che ti prende?» domandò perplessa, notando con quanta foga si agitasse e saltellasse.
Sembrava un automa con la condotta di alimentazione in sovraccarico o una scimmia ammaestrata. Per quanto fosse un tipo vivace, Ester non aveva mai amato prodursi in simili scene, proprio come suo padre.
«Possiamo alzare il passo, mamma?» domandò tutto d’un fiato.
Mala, di tutta risposta, si fermò, fissandola con enorme perplessità.
«Ma… come? E la nostra fetta di torta? Non la vuoi?» domandò, indicando la salita di fronte.
Era un rito che avevano istituito sin dal primo anno in cui Ester aveva cominciato a frequentare il Collegio delle Clarisse, sei anni prima. Ad ogni visita dei genitori, che fossero in coppia o uno alla volta, era d’obbligo una tappa in una piccola pasticceria lungo la Salita alla Rocca per mangiare insieme un dolce. Per Mala e Tancredi era uno dei tanti piccoli modi per chiedere perdono delle proprie assenze.
«Sì… sì, che la voglio. Però…» iniziò impacciata, guardando nervosamente attorno.
«Però? Ester, che c’è?»
«Mamma… questi vestiti…» disse, mordicchiandosi le labbra come se faticasse a trattenersi dal fare qualcosa di orribile.
La donna le fece cenno di proseguire, di spiegarsi, tuttavia la scolara era restia a parlare. Si strinse nelle braccia, passando una mano sul collo, strusciando un piede contro la caviglia, incapace di restare immobile persino con lo sguardo.
«Mi stanno facendo impazzire! Pizzicano!» sibilò infine esasperata, stringendo il braccio che avrebbe voluto grattare con forza. «Non so che ha fatto Coletta quando li ha lavati, ma non si possono portare! È dalla messa di stamattina che sembra che abbiamo le pulci tutti quanti! Padre Anselmo sembrava una biscia mentre ci dava la comunione!» piagnucolò.
Ed ecco anche spiegata la strana espressione della Madre Superiora: non la osservava con biasimo, stava morendo dalla voglia di grattarsi.
«Oh, beh, stando così le cose… al diavolo la torta!» esclamò, infilando il parasole sotto il braccio e sollevando la gonna quel tanto da sveltire la camminata. «Voglio levarmi questo coso di dosso prima di farlo a pezzi! Come diamine fanno queste matte? Vivono in apnea?»
«Secondo Cristina, sua madre respira solo di notte» ridacchiò ansiosa Ester, trotterellandole accanto.
«A me invece l’aria piace e voglio respirarla quando mi pare!»


1 Mater et filia: madre e figlia
2 nel libro “Iconologia” di Cesare Ripa, il pesce è fra gli attributi dell’ignoranza.
3 Dalloyau: è una rinomata pasticceria di Parigi, oltre che il nome di una delle sue torte con mandorle e meringa.
   
 
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