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Autore: Chaike    18/10/2012    5 recensioni
« Bene, è stato un piacere conoscervi. » disse il maestro Norton prendendo in mano la sua borsa « Ricordatevi di fare i compiti, perché è una regola importante svolgere sempre gli esercizi che si danno per casa. Fate i bravi con il signor Way, è un ottimo insegnante di matematica, anche se … Che rimanga tra noi … » sussurrò alla classe « È una persona noiosissima! » fece ridere i piccoli che però non erano entusiasti di dover aspettare il giorno seguente per assistere ad una nuova lezione di quel giovane uomo.
I piccoli Mike e Chester quel giorno non sapevano ancora che figura importante sarebbe poi diventata per loro quella persona, così importante e che avrebbe lasciato il segno dentro ai loro innocenti e piccoli animi. Le parole che avrebbe detto nel corso di quei anni sarebbero diventate fondamentali per entrambi, per crescere e soprattutto per capire.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chester Bennington, Mike Shinoda
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Note: Scusaaaate! Avrei dovuto pubblicare il capitolo ieri, ma una certa persona mi ha rovinato la giornata, che sarebbe dovuta essere felice dato che ho fatto due anni di fidanzamento col mio ragazzo. Peccato che lui se l'è vista bene di ricordarsene ._."
However, oggi ho preso il titolo da Breaking The Habit :3 (unica canzone dei LP che piace al mio ragazzo buhuhu *si dispera*). So che è un capitolo abbastanza corto, e sinceramente ne sono dispiaciuta é.è Ma sapete com'è, era la mia fase del 'blocco dello scrittore' v.y
Siamo alle prese con il pomeriggio/sera del loro primo giorno di scuola, e i nostri due piccoli eroi(?) stanno facendo i compiti assegnati dal maestro Norton (che alla fine ho descritto esteticamente come l'odierno Rob °-°). Poi si passa al loro secondo giorno di scuola, che però ho diviso in questo e nel prossimo capitolo.
Nonmipicchiateperloschifo.
Enjoy :3

Capitolo 2 – Memories consume


Parla di te stesso ...
Chester tamburellò in modo continuo e snervante sul foglio a righe vuoto con scritto solo il titolo del suo compito ‘Parla di te stesso’ che gli aveva affidato la mattina stessa il signor Norton, suo insegnante d’inglese, storia e geografia.
Erano solamente le quattro del pomeriggio quando il bambino si apprestò a svolgere il suo semplice dovere di studente, prendendo il suo nuovo quaderno ed una penna rossa per il titolo ed una nera per il testo.
Ma erano già quasi le sette di sera e lui non aveva ancora scritto niente.         
Cosa poteva scrivere di tanto interessante e che avrebbe fatto colpo? Nome, cognome, data di nascita? Banale.
Mi chiamo Chester Charles Bennington cominciò a scrivere lentamente e leggero sul foglio che si abbassava sotto il peso della punta a sfera della sua penna, finalmente mandando a quel paese tutte le seghe mentali che si era fatto sulla banalità di un testo informativo.
Ho sette anni e sono nato il venti Marzo del 1976, a Phoenix, Arizona. Mi sono trasferito a Los Angeles nell’estate del ’82 per il lavoro di poliziotto di mio padre.
Adesso avrebbe dovuto scrivere qualcosa riguardo alla sua famiglia, a suo fratello Brian, a sua madre e suo padre. Ma invece non lo fece. Saltò argomento, perché aver ammesso di avere un anno in più era troppo, soprattutto per il motivo del suo essere ancora in prima elementare, che alla fine era uguale del trasferimento.
La famiglia Bennington non si era trasferita solamente per il lavoro del padre, quello era solamente un motivo secondario. Ma Chester preferiva non dover toccare, nemmeno sfiorare quel sensibile argomento che ogni notte lo faceva penare nell’oscurità e negli incubi.
Durante il mio tempo libero mi piace girare per il mio quartiere, cantando senza preoccuparmi di essere sentito, non mi vergogno della mia voce. Mi piace tanto ascoltare la musica alla radio, se potessi l’ascolterei tutto il giorno. Il mio gruppo preferito sono i Depeche Mode, adoro People Are People.
Non bastava e lo sapeva. Aveva bisogno di un altro argomento che non lo avrebbe costretto a parlare anche della sua famiglia.
Quando abitavo a Phoenix avevo un cane, un pastore belga, si chiamava Beer perché il suo pelo aveva il colore di una birra bionda. Sembrava un cane stupido, ma non lo era, faceva il finto tonto solo per farmi ridere. Ma un giorno scappò di casa, ed io stetti davvero male per tanto tempo.
Un nodo soffocante e fastidioso gli si formò in gola poco prima che il naso gli frizzasse.
Pensavo di averlo perso per sempre, appesi tanti manifesti per la città con la sua foto e la mia via per chi l’avesse trovato e sarebbe stato così gentile da riportarcelo.
Cancellò la parola ‘riportarcelo’ per sostituirla in ‘riportarmelo’.
Non accennò nemmeno il fatto di essere stato aiutato dal fratello maggiore ad appendere le foto segnaletiche del suo fedele amico.
Un giorno una signora bussò alla porta di casa accompagnata da una giovane ragazza, quando aprii notai che legato al guinzaglio aveva Beer, che appena mi vide mi saltò addosso leccandomi e facendomi le feste. Ma subito dopo notai anche che la signora aveva degli occhiali da sole sul naso, e non perché fosse una giornata soleggiata, ma bensì perché era cieca.
Gli occhi gli bruciavano sempre di più, portandogli quella sensazione di continui singhiozzi in arrestabili.
Decisi di lasciarglielo nonostante fossi così affezionato, lui fu il mio unico e vero migliore amico.
Incrociò le braccia sul tavolo, buttandoci disperatamente la testa in mezzo, singhiozzando infrenabile e lasciando che le lacrime gli bloccassero il naso e che si calassero dolcemente e umidamente sul suo immacolato viso che abbozzava un rosa pallido sulla pelle macchiata da lentiggini.
Era dura ogni volta ricordarsi del suo fedele cane, della sua perdita per la sua troppa generosità. Quando accadde quello, quando dimostrò il suo lato gentile e positivo, all’asilo comprese che non tutte le persone si merito la sua carità e la sua bontà.
E di gente che non se ne meritava ne era circondato, tutti branco di marmocchi capaci solamente di farlo soffrire per la loro gioia e per il suo dolore.
Con ancora le lacrime agli occhi ed i singhiozzi dentro al suo petto, chiuse il quaderno, ripose le matite dentro l’astuccio, rimise tutto il materiale scolastico nella cartella e filò in camera da letto, dove non c’era nemmeno Brian, che era in giro per i parchi del quartiere come ogni giorno alla stessa ora.
Ma per la prima volta, quel giorno Chester non scese con lui in strada com’era solito fare, saltellare tra i pezzi di vetro verdi delle bottiglie di birra rotte, cantando ai passeri ed ai vecchi alberi con le cortecce incise dai nomi delle coppiette che erano passate di lì.
Solo a loro donava particolarmente la sua voce, perché loro non erano essere umani, peccatori, bugiardi, traditori, usurpatori. Gli alberi e gli uccelli non avevano fatto mai niente contro di lui, erano gli unici che non lo tradirono e mai ne avrebbero avuto modo.
Si lasciò cadere sul suo piccolo letto, rimbalzando sul materasso, e subito allungò la mano umida alla ricerca del suo fidato amico: il cuscino.
Prima era una cane, poi degli alberi e dei pennuti, infine un cuscino. I suoi migliori amici non erano mai delle persone.
Appena lo trovò con la sua mano, riemerse il viso dal materasso e lo affondò nuovamente nell’involucro di piume d’oca, lasciando libero sfogo ai suoi gemiti di dolore che risuonavano come tuoni e alle lacrime che scendevano come la pioggia estiva.
Non si preoccupò di essere sentito, dato che non c’era nessuno a casa come al solito. Suo padre era in commissariato oppure in giro per la città con la volante, sua madre a lavorare in un negozietto in fondo alla via.
Come ogni volta, adorò il suo fidato amico ricoperto dalla stoffa azzurra, addormentandosi accompagnato dal dolce tintinnio dei piccoli campanellini scoloriti rilegati ed uniti tra loro con un bracciale nero attorno al suo polso sottile.
Il suo oggetto-ricordo della sua felice infanzia che a lui sembrava fosse già finita.

Mi chiamo Michael Kenji Shinoda, ho sei anni e sono nato l’undici Febbraio del 1977 a Los Angeles.
La veloce manina del bambino scivolava e scorreva liscia come l’olio sul foglio del suo quaderno d’inglese, svolgendo i propri compiti da bravo studente.
Vivo con mia madre Susan di trent’anni, mio padre Kenji di trentaquattro e mio fratellino più piccolo Jason, che va ancora all’asilo.
Mio padre è originario del Giappone, i suoi genitori furono tra i primi emigrati giapponesi che sbarcarono in America, al ritorno di mio nonno dalla guerra. Ma per tradizione ritornarono alla loro città natale per la nascita di mio padre, che però non poté fare la stessa cosa con me. Ed è per questo ha voluto affidarmi il suo nome giapponese, per ricordarmi sempre da dove provengo.
Ho un cane di nome Lucky che ha tre anni, proveniente dalla cucciolata della nostra vicina di casa, la signora Goldsmith.
Lui, a differenza di Chester, non aveva paura di ciò che scriveva, non aveva freni, poteva scrivere quello che voleva e non nascondere niente, dato che niente aveva da nascondere.
Il mio passatempo preferito è disegnare, mi piace molto farlo. Ogni volta che posso prendo matita e pennarelli e disegno qualunque cosa mi venga in mente. La mia mamma mi dice sempre che da grande diventerò un bravo artista, mio padre dice che sarebbe meglio che io studi e che diventi piuttosto un bravo medico.
Non aveva paura di parlare della propria famiglia, non se ne vergognava per alcun motivo, di fronte ai suoi trasparenti ed innocenti occhi di bambino vedeva la perfezione nel suo nucleo familiare. Non aveva scheletri nell’armadio.
Mi piace studiare, non capisco perché la maggior parte dei miei amici lo odino. Penso che conoscere le cose renda le persone migliori, odio l’ignoranza, è una caratteristica stupida ed inutile. A volte vado nella libreria di mio padre, nel suo ufficio, e prendo un libro di quando andava ancora a scuola. È così che ho imparato le tabelline!
« Mikey, tesoro, è pronta la cena! » la voce della madre arrivò dalla cucina alla sua stanzetta dove faceva i compiti.
« Arrivo! » urlò lui richiudendo il quaderno e riposandolo nel grande zaino rosso, blu e giallo, per poi correre giù e sedersi a tavola, dove tutto era già stato apparecchiato, dove suo fratello e suo padre lo aspettavano e dove la madre stava servendo l’arrosto ancora fumante.
Era bello avere tutto quel lusso, un buon cibo caldo, una famiglia che si amava, due genitori che si volevano ancora bene dopo quegli anni di matrimonio, un fratellino che adorava il fratello maggiore.
Vedeva tutto ciò come una cosa normale, dovuta. Gli era difficile vedere la situazione diversamente, pensare di poterla vivere, proprio come stava facendo Chester a sua insaputa.
 
Tredici settembre 1983, il risveglio di quel giorno fu uguale a quello di due anni prima a quella parte, sempre lo stesso abbaiare, sempre lo stesso cane, sempre la stessa vita di merda.
Sempre il solito mal di testa.
Sempre la solita voglia di morire.
Sempre la solita voglia di mandare tutto a quel paese e cercare qualcosa di meglio rispetto a quello che miseramente possedeva.
Invece Michael si risvegliò sempre docilmente dal calore ed affettuosità materno che la madre gli donava ogni mattina, sedendosi sul bordo del suo letto e richiamandolo sul più bello del suo sogno, cosa che lui detestava ma che subito scordava non appena vedeva il viso di sua madre.
Il mattino era sempre uguale per entrambi, non era mai cambiato.
Michael scese in cucina e ritrovò subito suo fratello con la radio accesa, mentre mangiava i suoi abituali cereali dai mille colori. Chester si fece la colazione da solo, mangiando a fatica i suoi biscotti da quattro soldi presi dal discount nella via affianco alla sua.
A nessuno dei due pareva strano quel risveglio, erano così abituati alla consuetudine di quei gesti che non si facevano domande. Per lo meno Chester non se le faceva, nonostante non vivesse in una situazione gioiosa; Michael si poteva permettere di non chiedersi niente.
Si lavarono e si vestirono, Chester da solo, Michael aiutato dalla madre. Ed eccolo di nuovo pronti alle otto e mezza per il loro secondo giorno di scuola.
Ma quella volta il padre di Mike non poté accompagnarlo come il giorno precedente, perché si era svegliato di malavoglia alle sette per poter essere in tempo al suo lavoro da impiegato in una azienda situata nel centro di Los Angeles.
Così, il piccolo dovette farsi accompagnare dalla madre, ovviamente a piedi, fino alla sua scuola dai muri gialli e sbiaditi a poco più di sei isolati di casa sua.
Chester invece venne accompagnato – a piedi pure lui – dal fratello maggiore Brian, che da lì in poi avrebbe dovuto sopportare ogni giorno, dall’andata al ritorno da scuola.
Uscì assieme a sua fratello un quarto d’ora prima del suo nuovo compagno di classe, dato che la loro casa era un poco più lontana di quella della famiglia Shinoda, che distava qualche isolato più in la della famiglia Bennington.
Camminava in silenzio e a testa bassa, come era solito fare, come se si vergognasse di sé stesso, cosa che infondo provava. Il fratello non cercava mai di iniziare una conversazione, sapevano entrambi che sarebbe stato un tentativo vano dato che erano troppo diversi.
Già, nonostante fossero fratelli, sangue del loro stesso sangue, erano totalmente disuguali, sia nei gusti, nel modo di ragionare e di vivere. E in più Chester credeva che secondo suo fratello la loro situazione familiare andasse bene lo stesso, che non stesse andando a rotoli come invece stava accadendo.
Dopo un bel po’ di minuti di camminata e di quiete, Chester avvertì una presenza di fronte a sé. Non che fosse chissà cosa, capì solamente che c’erano due persone di fronte a lui, che erano appena usciti dalla recinzione in paletti bianchi in legno della loro casa perfetta.
Alzò appena lo sguardo per vedere chi fossero, anche se in realtà non gli interessava veramente conoscere l’identità di quei due individui, ma alzare la testa e vedere chi fossero era una cosa automatica.
Non ci avrebbe creduto nemmeno se Dio fosse sceso dai cieli alla Terra per dirgli che era la pura verità.
Riconobbe il grande zaino colorato che ricadeva sulle piccole spalle del bambino di fronte a sé, con i capelli a caschetto inconfondibili.
Con la testa fece uno scatto indietro, in tempo per vedere la casella della posta immacolata della casa dalla quale la donna ed il bambino erano appena usciti, segnata con il cognome Shinoda scritto perfettamente.
Il cuore gli batté istintivamente forte, come se davanti ai suoi docili occhi di bambino avesse di fronte il suo più grande idolo.
« Mike! » squittì il bambino, facendo svegliare di soprassalto l’altro piccolo che si era perso nei suoi pensieri.
Quest’ultimo si girò di scatto nell’essersi sentito chiamare, ma già aveva riconosciuto la voce che l’aveva sentito evocare.
Sulle labbra di entrambi si mostrò un enorme sorriso che molto probabilmente non se ne sarebbe andato via per fino al loro arrivo a scuola, nella classe, seduti ai loro banchi.
Il piccolo dalla cartella un po’ rovinata nonché da poveracci accelerò il passo fino ad arrivare a fianco al suo amico, così come Chester sperava di poterlo chiamare. Almeno lui.
La madre sorrise vedendo suo figlio aver fatto subito amicizia con un suo compagno, anche se un po’ infastidita dall’effettiva povertà dell’altro bambino, che si notava subito dai suoi vestiti e dalla sua cartella di qualità scadente.
« Hai fatto il compito d’inglese? » chiese il piccolo Mike, il primo che riuscì ad aprire un dialogo con Chester, il bambino che mai e poi mai aveva parlato con qualcuno tra le vie delle città.
« Sì, sì. » rispose lui.
« Di cos’hai parlato? » chiese innocentemente, non sapendo di aver fatto irrigidire d’un colpo l’altro bambino per una domanda che secondo i suoi parametri era inopportuna.
« B-Beh … Di un po’ di cose … » rispose evasivo « Tu? »
« Della mia famiglia, del mio cane, della mia passione per il disegno … »
« Davvero ti piace disegnare? » chiese Chester nel tentativo di evitare qualsiasi altra domanda su quel tema.
« Sì! È la cosa che più adoro fare, mi fa tranquillizzare e liberare da ogni piccolo pensiero … »
Continuarono a parlare del più del meno, se avevano visto la sera prima l’ultima puntata dell’ennesimo mecha che li appassionava, di come gli sembravano i compagni di classe a prima vista dato che ancora non li conoscevano bene, eccetera.
Arrivarono presto davanti all’entrata della scuola pullulante di bambini con i propri genitori che aspettavano l’apertura del cancello principale. Il tempo del loro viaggio dal loro incontro nella via della casa di Mike era durato così poco per loro che gli sembrava quasi uno scherzo essersi ritrovati davanti a scuola con così tanta rapidità.
Si guardarono in giro furtivi a destra e a sinistra, cercando i loro compagni da qualche parte. Infatti scorsero entrambi Ashley, la bambina che il giorno prima era coperta da un vestitino rosa appariscente, mentre quel giorno ne aveva uno simile ma giallo come il sole, affianco alla loro compagna di classe che ancora non conoscevano il nome, ma che quel giorno aveva un completino verde come il prato a differenza di quello azzurro smorto del giorno precedente.
Dall’altra parte videro Leonard, il bambino di colore, con la madre abbastanza corpulenta che aveva gli stessi capelli neri rilegati tutti quanti in tante piccole treccine, alcune però tinte di biondo.
Gli altri ancora non li avevano osservati bene così tanto da poterli riconoscere tra la folla di bambini che a mano a mano si accalcava sempre di più verso l’entrata.
« Mamma, quanto manca? » chiese Michael alla madre, impaziente di entrare nell’edificio.
La madre si alzò una manica tanto da scoprire solamente il polso, dove spuntava un bracciale di cuoio nero con in mezzo un piccolo orologio con la stanghetta sei secondi che non si fermava mai.
« Qualche secondo e vi aprono. » sorrise al figlio.
« Ci rimettiamo ai posti di ieri, vero? » chiese il bambino a Chester che lo guardò stupefatto.
Non si aspettava così tanto interesse sulla sua presenza da parte di quel suo nuovo compagno, non si era mai immaginato che avrebbe proposto una scelta comune. Non gli era mai capitato di scegliere assieme a qualcuno che non fosse della sua famiglia, perché abitualmente a nessuno importava la sua opinione, tanto meno la sua presenza.
« V-Va bene. » risposi il piccolo attonito, non realizzando nemmeno che si fosse nuovamente piazzato in prima fila.
La solita e vecchia campanella suonò dall’interno dell’istituto, avvertendo i bambini che potevano pure entrare e che da lì a cinque minuti le lezioni sarebbero cominciate.
« Ciao Mikey, fai il bravo, mi raccomando. » stampò sulla fronte del figlio un bacio, chinandosi abbastanza per arrivarci, data la sua bassa statura « Ciao Chester, mi raccomando: cerca di sopportarlo! E se non ce la fai più, hai il diritto di dirgli di starsene zitto. » il bambino un po’ riccioluto rise, mentre quello dagli occhi a mandorla fulminò la madre per avergli dato del logorroico.
I due piccoli cominciarono a correre senza freni verso l’entrata, passando veloci come fulmini tra gli altri alunni della scuola che li guardavano dubbiosi e non capendo come riuscissero ad essere così agili a passare in mezzo a tutti senza urtare nessuno.
Entrarono dentro ritrovandosi i primi studenti che riempivano il lungo corridoio semi-vuoto che conduceva alle scalinate per i piani superiori, cosa che sinceramente a nessuno dei due interessava, in quanto per raggiungere la loro classe bastava arrivare al fondo del corridoio e girare a destra dove si sarebbe trovato un altro corridoio con le varie classi, una affianco all’altra.
Non smisero di correre per un momento, non sentivano la stanchezza e tanto meno sentivano lo sbraitare del bidello che li chiamava disgraziati per la loro eccessiva vivacità. Ma anche per le rigate nere che lasciavano le loro scarpe con sotto una suoletta di gomma scura.
Ormai era diventata una gara tra di loro, arrivavano a strattonarsi e a cercare di tenere dietro l’altro afferrandolo per la maglietta e tirandolo indietro. Quando arrivarono all’angolo, dove avrebbero dovuto girare a destra e correre verso la loro classe che si trovava nella penultima aula, fra poco Chester non fece sbattere il piccolo Michael contro il muro dopo uno spintone abbastanza forte.
Ma quando il più piccolo si trovò a costeggiare il muro color pisello si mise solamente a ridere e a cercare di recuperare terreno, cosa che gli risultò troppo difficile perché Chester aveva aumentato più che poteva la sua velocità, nonostante avesse una cartella grossa quasi il doppio di lui sulle spalle.
« HO VINTO! » esultò il bambino dai capelli boccolosi mentre metteva un piede nell’aula, segnando la sua vittoria, portando le braccia in aria ed aspettando che il suo amico, che di lì a poco sarebbe svenuto per il fiatone, lo raggiungesse.
« Non è giusto! » brontolò l’altro entrando in classe con sguardo basso e dirigendosi verso i due banchi infondo alla prima fila.
A Chester vennero i brividi quando vide l’amico sedersi e non correre verso banchi in fondo che ancora erano vuoti ed immacolati, cosa che lui non si sarebbe fatta mai scappare dalle mani.
E l’uggia aumentò quando si sedette a sua volta affianco al suo compagno che cercava di riprendere fiato dalla corsa, o per lo meno ci provava dato che il suo cuore batteva così forte che sembrava volesse esplodere.
Chester quasi non si ricordava l’ultima volta che ebbe corso in quel modo, sfrenato e finendo stramazzato sul banco in quel modo indecente e preoccupante, infatti sembrava che avesse bisogno di un defibrillatore. E non solo lui, anche Michael lo necessitava.
L’ultima volta che aveva corso in quel modo era stato quando abitava ancora a Phoenix, quando era ancora piccolo e spensierato, quando ancora non gliene fregava più di tanto dell’amicizia dei suoi coetanei che non gli volevano concedere, quando era ancora felice.
Ricordarsi i suoi momenti di felicità per lui era estremamente difficile, perché o non se li ricordava affatto, o non erano abbastanza nitidi da dargli un senso, oppure perché venivano semplicemente sopraffatti dai ricordi brutti ed infelici che lo assillavano ogni sera, quando doveva andare a dormire.
E quella volta riuscì a ritrovare quel tassello della sua felice memoria, di quando aveva compiuto da poco tre anni e scorrazzava per il giardino verde e pieno di cespugli dietro casa sua, assieme al suo fidato migliore amico Beer.
Era felice per qualche motivo che in quel momento non ricordò, forse perché in quegli anni non necessitava di alcun motivo per sorridere alla vita e a tutto quello che gli succedeva attorno. Quando voleva, lui si svegliava col sorriso sulle innocenti labbra di bambino e niente e nessuno sarebbe stato capace di toglierlo.
Si ricordò di stare a giocare con il proprio cane, di andare da una parte all’altra della steccata rossa del recinto di casa, mentre il cane, un cucciolo di grande stazza, lo inseguiva come un pazzo, cercando di afferrargli qualcosa che aveva in mano.
Il cane impazziva dietro di lui, abbaiava e lo inseguiva, cercando di capire che razza di oggetto avesse in mano, dato era capace di fargli rizzare le orecchie al suo suono.
Erano già passati dieci minuti e lui non smetteva di correre, finché l’oggetto cadde dalle sue piccole mani e posandosi sul prato verde con un tintinnio. Quel tintinnio che producevano i campanellini del suo bracciale che quel giorno usò per far impazzire il cane e farlo giocare assieme a lui.
Il bambino si risvegliò dalla sua catalessi, dopo aver abbandonato lo sguardo vuoto verso il muro alla sua sinistra e lasciato che la mente viaggiasse nella sua memoria amaramente consumata dall’infelicità.
In classe erano appena entrati Leo ed un altro loro nuovo compagno di classe di cui ancora non conoscevano nemmeno di nome, il quale si sedette negli ultimi banchi ancora vuoti.
Ma Chester non li aveva nemmeno notati, in quel momento a lui non gliene fregava niente di nessuno. Non li conosceva nemmeno, quindi non li doveva per forza salutare, andare da loro e chiedergli come stavano, se avevano fatto i compiti ed i soliti convenevoli.
« Ci voleva … » mormorò Michael sorridendo all’amico, soddisfatto per la corsa nonostante avesse appena perso la gara.
« Sì, ma hai perso. » ridacchiò vittorioso Chester, girando lo sguardo per vederlo.
« Domani ti mangerai la mia polvere. » alzò le spalle con un sorriso beffardo sulle labbra, cosa che in verità non gli si addiceva molto dato il suo viso da bravo bambino e non da teppista.
« Vedremo! » ringhiò con un ghigno deciso, cosa che a lui stava alla perfezione.
   
 
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