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Autore: Marti Lestrange    19/10/2012    9 recensioni
— STORIA REVISIONATA IN DATA O5/O7/2O2O —
❝Rabastan non ricordava nemmeno più come tutto era iniziato. Forse dopo uno dei loro scontri, quando la morte aveva sfiorato i loro corpi e annebbiato le loro menti. Forse dopo una di quelle piovose giornate di fine estate, quando il caldo si appicca alla pelle e vecchi presagi affiorano in superficie solo per riportarti sul fondo del loro abisso. Forse, tutto era iniziato con uno sguardo❞.
[ oneshot what if? con protagonisti Rabastan Lestrange e Marlene McKinnon ]
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Marlene McKinnon, Rabastan Lestrange
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
- Questa storia fa parte della serie 'RABASTAN LESTRANGE — head of the serpent'
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[storia revisionata in data 05/07/2020]
 

 

Titolo: "Born to die”;
Rating: giallo;
Genere: angst, malinconico; 
Tipo di storia: oneshot; 
Personaggi: Rabastan Lestrange, Marlene McKinnon;
Avvertimenti: crack pairing; what if?
Situazione scelta: numero 7, amore tra un ODF e un MM;

 


 

 

Born to die

 

 

 

“Feet don’t fail me now
Take me to the finish line
All my heart, it breaks every step that I take”.

 

 

Rabastan non ricordava nemmeno più come tutto era iniziato. Forse dopo uno dei loro scontri, quando la morte aveva sfiorato i loro corpi e annebbiato le loro menti. Forse dopo una di quelle piovose giornate di fine estate, quando il caldo si appiccica alla pelle e vecchi presagi affiorano in superficie solo per riportarti sul fondo del loro abisso. Forse, tutto era iniziato con uno sguardo. 

 

 

 

 

Gli occhi di Marlene a volte erano azzurri. Azzurri come quel cielo splendente di sole, limpidi e senza misteri, chiari e lucidi, candidi. 

Gli occhi di Marlene a volte erano grigi. Grigi come il cielo in tempesta, grigi di nuvole cariche, grigi come l’inverno e la pioggia sui tetti.

«Gli occhi sono il riflesso dell’anima», gli diceva sempre Marlene.

«E cosa vedi riflesso nei miei?» chiedeva Rabastan guardandola dritta in volto.

Marlene gli rispondeva sempre allo stesso modo: «Vedo solo nero.»

 

 

 

 

“Come and take a walk on the wild side
Let me kiss you hard in the pouring rain”.

 

 

La prima volta in cui Rabastan aveva notato Marlene, lei era il nemico, una stupida strega sprezzante del pericolo, circondata dai suoi altrettanto stupidi compagni. 

Combatteva bene, Marlene. Fin troppo. Quegli occhi azzurri erano il suo baluardo contro il male, la sua bandiera, il suo marchio. Te li piantava dritti addosso, senza darti la possibilità di evitarli, senza darti scampo.

Rabastan aveva sempre evitato quegli occhi. Lo sguardo di lei gli era sempre scivolato addosso come fumo, un’inconsistente nebbia opaca. Non gli era mai importato niente di ferirla. Non gli era mai importato niente di ucciderla. 

La seconda volta in cui l’aveva vista, qualcosa si era incrinato, come il vecchio suono di un pianoforte scordato, e il cuore di Rabastan aveva emesso un’unica, alta nota sconosciuta: aveva perso un battito. Il suo cuore aveva vacillato per un solo secondo, facendolo fermare, la bacchetta a mezz’aria e la voce di suo fratello Rodolphus che lo chiamava alla ritirata. Le urla di Marlene, accasciata ai suoi piedi, tremante, ancora gli riecheggiavano nella testa, insieme alla sua stessa voce che gridava «Crucio».

Rodolphus lo aveva strattonato per un braccio, intimandogli di lasciar perdere, ché non ce l’avrebbero fatta contro di loro, non quella volta. Marlene aveva smesso di gridare e Rabastan aveva sentito Bellatrix ridere, correndo lontano, il rumore di qualche incantesimo che ancora la rincorreva e che era riecheggiato nelle orecchie di Rabastan come un’eco lontana di dolori e rimpianti. 

Era rimasto lì a guardarla, a cercare uno straccio di possibilità, a sperare di averla ferita, ma allo stesso tempo aspettando di vederla rialzarsi, un bagliore sul viso e la sua solita impronta di orgoglio misto a incoscienza. Marlene si era mossa, si era messa a sedere quasi goffamente, ignara della sua presenza, ignara del mondo. Solo quando aveva alzato gli occhi - gli occhi color del cielo - aveva visto Rabastan, la veste nera sporca di polvere e bagnata dalla sottile pioggia che era cominciata a cadere, la bacchetta lungo il fianco, i capelli scuri spettinati e lo sguardo acceso. 

Rabastan aveva visto lei, la veste strappata, i capelli biondi sconvolti, le guance rosse di fuoco, il petto che si alzava e si abbassava, veloce e ritmico, spinto dal suo cuore impazzito e instancabile. Gli occhi color del cielo si erano spalancati su di lui, all’improvviso spaventati e inermi, senza più difese. La bacchetta di lei era volata lontano e giaceva chissà dove, invisibile e inutile. 

Marlene era indietreggiata, accucciandosi contro un vecchio muro di mattoni rossi, le ginocchia al petto e il respiro rotto. Aveva paura: in quel momento, Marlene aveva paura. Forse per la prima volta nella sua breve esistenza, aveva paura. Di morire, forse? Di morire sola, molto probabilmente. Paura di morire senza combattere, accasciata contro un vecchio muro muffito, sotto la pioggia e un cielo plumbeo, nuda e giovane, spaventata. 

Rabastan aveva letto il suo sguardo di cielo e vi aveva trovato la vita, proprio lui che infliggeva la morte. 

Una voce sconosciuta e sempre più vicina aveva cominciato a chiamare il suo nome:  «Marlene! Marlene!»

Rabastan si era voltato verso la strada di campagna alle sue spalle e poi era tornato a guardarla. Se lei gli avesse chiesto di farla finita e di ucciderla subito, lui l’avrebbe fatto. Avrebbe estirpato la vita da quel corpo pallido come si estirpa un’erba molesta. Avrebbe fermato quegli occhi di cielo in quell’istante, per sempre tremanti e lucidi, per sempre suoi. 

Le aveva rivolto un ultimo sguardo e poi si era voltato per inoltrarsi nel bosco, fitto di rami e alberi spogli, sospiri sopiti e attimi perduti. 

 

 

 

 

“Lost but now I am found
I can see but once I was blind”.

 

 

La terza volta in cui Rabastan aveva visto Marlene nevicava. Grossi e candidi fiocchi di neve cadevano lenti da un cielo color acciaio. 

Era diversa dall’ultima volta, Marlene. Aveva seguito i movimenti di lui con fare guardingo. I suoi occhi avevano evitato di incontrare quelli di Rabastan, timorosi di un contatto. Rabastan l’aveva cercata, invece. Aveva anelato un suo sguardo; aveva voluto addosso quegli occhi di cielo; aveva desiderato sondarli alla ricerca di un’ombra, di un velo che gli rivelasse quel lato segreto di lei che forse vi si nascondeva. 

Di nuovo scontri, luci accecanti, urla, incantesimi respinti. Di nuovo la morte, che passeggiava tra loro a viso scoperto, attenta e pronta a riscuotere la sua ricompensa. 

«Stupeficium!»

La voce di Marlene era risuonata nelle sue orecchie come un suono squillante di trombe. Lei e un’altra donna stavano combattendo contro Travers, che intanto rideva perfidamente. Si divertiva, Travers. Era tutto un gioco per lui: se perdi muori. E loro non avrebbero perso, no, non contro un gruppo di stupidi, intrepidi bambocci guidati da un vecchio barbuto, mossi solo dall’amore e dal desiderio di veder trionfare il bene*. 

Rabastan non avrebbe perso contro Travers, non gli avrebbe dato modo di avere Marlene, non gli avrebbe permesso di vederla soccombere sotto di lui. Lei era sua. 

I membri dell’Ordine della Fenice* avevano cominciato a disperdersi, consci di una loro prossima e imminente disfatta. Marlene non gli sarebbe sfuggita un’altra volta, non le avrebbe permesso di sparire, inghiottita dalla luce e guidata dal coraggio. Non le avrebbe permesso di tornare alla sua vita, non quel giorno. 

Lei gli aveva lanciato uno sguardo, lucido e abbagliante: finalmente gli aveva concesso i suoi occhi, arresa e stanca. Per Rabastan era bastato. C’era dell’altro, in quegli occhi di cielo. Lui lo sapeva, l’aveva capito già da tempo, da quel loro primo scambio di occhiate, da quando lei gli si era mostrata così vulnerabile e impreparata, timorosa di morire sotto la sua bacchetta, ardente di vita e bruciante di speranza. 

Lo aveva capito anche quel giorno, mentre la neve gli vorticava intorno. Rabastan le era apparso al fianco e l’aveva afferrata con forza. Marlene gli aveva rivolto un’altra occhiata. Per entrambi era bastato.

 

 

 

 

“Tried to take what I could get
Scared that I couldn't find
All the answers, honey”.

 

 

Rabastan ricordava ancora ogni singolo dettaglio di quella lontana mattina umida. Stava seduto nella rigida poltrona sotto la finestra inondata dalla pioggia. Fuori, una Londra piovosa e grigia viveva la sua banale e noiosa routine Babbana.

Teneva la testa poggiata sul palmo della mano e osservava Marlene. Il suo corpo pallido era disteso tra le lenzuola bianche e stropicciate, un braccio oltre il materasso, le vene verdi in risalto sulla sua carnagione d’alabastro. Forse aveva sentito il suo sguardo, Marlene. Forse, quegli occhi scuri le avevano impresso un marchio di fuoco sulla pelle difficile da evitare. Aveva aperto gli occhi - gli occhi di cielo - e glieli aveva puntati addosso, grandi e curiosi. Quegli occhi avevano sempre il potere di attirarlo e smuoverlo, di sconvolgerlo e annientarlo. 

Rabastan l’aveva raggiunta a letto, fissandola. Le aveva carezzato una spalla nuda con un dito, seguendo la linea del suo corpo. Marlene aveva continuato a guardarlo. L’azzurro aveva lasciato il posto a quel grigio che Rabastan aveva cominciato a scorgere nel suo sguardo dopo uno dei loro incontri, come se le sue tenebre oscurassero i suoi occhi lucenti, contaminandoli. Quegli occhi di tempesta erano per lui, ormai lo aveva capito. Erano suoi. Riflettevano quel cielo piovoso e bagnato, appannato dal loro respiro e profumato delle loro essenze, impregnato dei loro odori. 

La piccola camera in penombra era debolmente rischiarata dal pallido chiarore diurno, che filtrava attraverso due sottili tende di un bianco ormai sporco. Rabastan non aveva mai prestato attenzione al luogo dei loro incontri fortuiti. Non gli era mai importato. Gli era sempre e solo bastato sapere di avere davanti almeno due intere ore con Marlene, con l’unica donna che lo avesse scosso nel profondo, facendo tremare le sue solide fondamenta fatte di rabbia e oscurità. Se lei tirava fuori quel piccolo frammento di luce nascosto nella sua anima tormentata, lui sapeva spegnere per un momento la luce di lei, attirandola nel suo profondo abisso e facendo emergere la tempesta. Gli occhi color tempesta vincevano contro il cielo azzurro. Almeno per un paio d’ore. Almeno per una parentesi proibita in una vita obbligata.

 

 

 

 

"Can you make it feel like home, 
If I tell you you're mine".

 

 

Rabastan ricordava ancora che quel giorno era piovuto. Aveva indossato il suo mantello scuro ed era uscito fuori, in quella mattinata apatica e carica di presagi. Tutto era troppo innaturalmente calmo lì intorno, mentre dentro di lui si agitavano forze contrastanti. 

Lui e Marlene avevano appuntamento al solito posto, davanti a una vetrina spoglia di un vecchio negozio di giocattoli abbandonato, a metà strada tra due affollate vie Babbane.

La sua testa era inondata di parole, eventi e volti. Erano accadute troppe cose, in quegli ultimi due giorni. Troppi erano i fattori in gioco, troppe le persone coinvolte, troppe le vite appese a un filo. 

Rabastan non poteva permettersi di sbagliare. Non avrebbe potuto deludere il suo Signore, che aveva creduto in lui e in lui aveva riposto la sua fiducia, facendogli capire che eventuali errori non erano contemplati e non sarebbero stati perdonati, non più ormai. 

Lo aveva scoperto. Il Signore Oscuro aveva scoperto tutto. Le sue parole lo avevano scosso, demolendo ogni sua difesa e volontà. Voci, chiacchiere e bisbigli si erano rincorsi per gli spogli corridoi della sua cupa residenza. Si erano rincorsi senza mai raggiungersi. 

Rabastan non aveva prestato orecchio a quella voce dentro la sua testa, che gli aveva suggerito tante volte di mettere fine a un rapporto che era diventato malsano e pericoloso. Non aveva ascoltato la voce del destino, pronto a divorarlo, e aveva potuto solo accogliere la vivida minaccia che era risuonata in quella sala spoglia, eco di futuri e ben peggiori scenari di morte. 

La visione di Marlene lo aveva riportato alla realtà, a quel giorno piovoso e maledettamente opaco. L’aria era satura del forte profumo di erba appena tagliata e dell’aroma deciso del caffè, che riportava sempre Rabastan al ricordo di Marlene, vivido e forte. 

Marlene che camminava al fondo della via e si era fermata davanti a quella vetrina carica di ricordi obsoleti e giorni condivisi. L’aveva guardata, i capelli biondi e profumati di sapone sciolti sulle spalle, le mani affondate nelle tasche della giacca, il passo incerto. Osservava la folla intorno a lei, ignara della guerra che si stava combattendo, ignara del male e delle tenebre che incombevano agli angoli del loro mondo. Vivevano le loro pallide vite, riflessi opachi e sagome indistinte di un quadro appena abbozzato e mai concluso. 

Per un momento, Rabastan aveva desiderato afferrare la vivida sagoma che era Marlene e partire, sparire dal mondo fatto di atrocità e maledizioni per il quale si batteva e abbracciare dolcemente un caldo oblio fatto di loro due e una casa sperduta nella brughiera o arroccata in alto su un mare in tempesta o nascosta nel profondo di un bosco fitto e odoroso di mille giorni di luce e un futuro di speranza. Niente di quello che Rabastan aveva immaginato riusciva però a conciliarsi con la brusca realtà. La verità era che per lui e Marlene non ci sarebbe mai stato un degno epilogo da ricordare o futuri giorni di sole da vivere o fragranti momenti di pace conditi da risvegli odorosi di notti insonni e stellate. La verità era che loro due erano nati per morire in modo violento, dopo aver vissuto le loro vite rumorose e veloci senza mai pensare veramente al dopo, avidi e consunti e ubriachi l’uno dell’altra, reduci da giorni vuoti e spenti e notti tormentate ed eterne. 

Aveva guardato Marlene ancora una volta - ancora un attimo - solo per imprimere nella sua mente la sua camminata e il suo volto concentrato. Per imprimere nella sua mente la vita, compagna caduca di un cammino pericoloso. 

L’aveva guardata e poi si era voltato, allontanandosi da lei, le mani affondate nella tasche e la testa bassa mentre, al fondo di quella via, il cuore di Marlene batteva sperando. 

 

 

 

 

Una settimana dopo

I giornali quel giorno erano terminati alle undici. Alla redazione de La Gazzetta del Profeta si stampavano febbrilmente altre copie dell’edizione del mattino. 

La notizia era trapelata quasi subito, dopo che un amico di famiglia aveva trovato la casa semidistrutta e fumante, ridotta a uno spettro, annerita e con il Marchio Nero aleggiante sul tetto squarciato, in un cielo nero e profondo. 

Erano stati uccisi tutti, i McKinnon, dal primo all’ultimo. I padroni di casa erano ancora in salotto, lui seduto in poltrona e lei accasciata sul tappeto scuro davanti al divano. Non avevano avuto modo nemmeno di sfoderare la bacchetta. La bambina più piccola stava sulle scale, l’esile corpicino stroncato in due dalla maledizione, la camicia da notte bianca stropicciata e i capelli castani opachi. Gli occhi fissi. Il suo fratellino più grande giaceva lì vicino, di fronte alla porta della sua stanza, una mano a cercare la sorella, la bocca semiaperta in un grido senza voce. 

Marlene era in ingresso, distesa sul freddo pavimento, in un'innaturale posa scomposta. I suoi occhi - quei grandi occhi color del cielo - erano spalancati e fissi. Una lacrima le rigava ancora la guancia. Un ultimo grido agghiacciante aveva dato fondo alla sua disperazione e aleggiava nella casa distrutta come una presenza imperitura e malsana. Il suo cuore si era nuovamente lacerato, questa volta per sempre.

«Cosa vedi riflesso nei miei occhi, Marlene?»

«Vedo solo nero. E tu cosa vedi nei miei?»

Una figura vestita di nero aveva osservato i resti di casa McKinnon, il porticato distrutto, la porta divelta, i vetri rotti, il fumo che saliva in spirali da un fuoco ormai spento, il Marchio Nero opaco e vibrante. Il volto di Marlene ancora gli sorrideva, sdraiata tra le lenzuola spiegazzate. 

«Ora c’è soltanto luce»

La figura scura si era voltata, lasciandosi alle spalle una scia di decadenza e morte.

 

 

"Choose your last words
This is the last time
Cause you and I, we were born to die”.
 



N.d.A.

  • Si fa riferimento all’Ordine della Fenice, guidato dal "vecchio barbuto", cioè Silente; 
  • Ipotesi, da me elaborata, che i Mangiamorte fossero a conoscenza dell’Ordine, guidato da Silente, anche attraverso le informazioni rivelate dalla talpa Peter Minus. Ovviamente sono tutte mie supposizioni. 
  • Le citazioni sono tratte dalla canzone "Born to die" di Lana Del Rey, che ha anche dato nome alla shot. Ho pensato a una possibile relazione tra Rabastan e Marlene, che ovviamente finisce in modo tragico. Ho immaginato un Voldemort che fa capire a Rabastan di aver scoperto tutto, senza parlarne direttamente, e gli fa anche capire quale sarebbe il modo per rimediare. Non sappiamo con certezza chi abbia assassinato i McKinnon, sappiamo solo che era presente Travers, quindi potrebbe anche essere stato Rabastan, per quanto ne sappiamo. 

 

 

Note finali: questo è il mio primo - e penso anche ultimo - esperimento con un’improbabile shot dedicata a Rabastan Lestrange e Marlene McKinnon. Nel contest, di Violet ho scelto la modalità "amore tra un membro dell'Ordine della Fenice e un Mangiamorte". Mi è subito venuto in mente [il mio] Rabastan e per l'Ordine... be’, mi sono rifiutata di pensare ad Alice Paciock, quindi ho scelto Marlene, che adoro. Non so cosa sia venuto fuori, se non un pout-purri di frasi angst e seriamente angoscianti. A voi l'arduo giudizio.

Marti ♥︎

   
 
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