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Autore: Adoxia    19/10/2012    1 recensioni
'La paura non mi apparteneva.
O almeno, combattevo per non fare di essa una parte di me.'

Una Clove quattordicenne e un Cato quindicenne. Una Clato dall'inizio banale, che tralascia la superficialità. Una Clato cruda e macchiata di sangue. Sangue che sporca l'anima. Sangue di assassini.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cato, Clove
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Per te sanguinerei fino a seccarmi.
Capitolo IV


Generalmente, il mio risveglio mattiniero era piuttosto piacevole per un pratico quanto innegabile motivo: appena la luce filtrava dalle tende azzurre della mia camera, correva impertinente fino al mio cuscino, impaziente di farmi aprire gli occhi.
Ciò che mi rincuorava era la mia bocca, impregnata del sapore dolce e zuccherino dei biscotti comprati la Domenica, quando l’aria sapeva di frenesia e di cioccolato fuso.
Inevitabilmente, mi ritrovavo a sorridere come se mi bastasse poco per esser felice, ma appena riaffiorava l’alienante riflesso della routine quotidiana, improvvisamente mi sentivo turbata.

Eppure, quel Lunedì mattina, il sapore che mi riempiva corposamente la bocca non era l’aroma pregnante del cioccolato o della pastafrolla alle mandorle.
Schioccai la lingua e contrassi le labbra in una smorfia di disgusto quando mi resi conto che pioggia e terreno m’impasticciavano il palato.

Per un attimo rimpiansi di aver lasciato così bruscamente la mia villa, e con essa, tutte le comodità di cui disponevo, esattamente due mesi prima. Ma a breve sarei stata gettata in un’arena, avrei combattuto contro tutto, contro tutti, non avrei facilmente goduto del lusso di biscotti al cioccolato al mattino.
Quindi, non era del tutto tempo sprecato il costruirmi un rifugio nel bosco dalle fragili pareti d’argilla e un tetto di foglie secche quasi del tutto crollato. Dal foro creatosi riuscii a scorgere la distesa grigia e tersa d’umidità che era il cielo, quella mattina.

Un improvviso fragore smosse le gracili pareti della mia nuova casa, forse per la prima volta quella vera, e spalancai gli occhi quando un fulmine dalla forza devastante cadde con tutta la sua imponenza poche miglia lontane da me.

Nonostante il diluvio che imperversava e che prometteva di durare per tutta la giornata, non credevo affatto che l’avrebbero annullata. Dopotutto, tutti noi della Sala aspettavamo questa giornata, ed eravamo pronti anche all’Apocalisse, pur di sentire le lettere componenti il nostro nome tintinnare nell’aria come campanelli portanti onore e lodi. E tutta la grinta che avevo raccolto dentro me durante tutti questi anni stava per trovare sfogo nella vera sfida, nel vero duello, nel motivo per cui eravamo nati tutti noi, nel nostro destino, nella nostra vittoria, anzi, nella mia vittoria.

‘Mietitura’. Questa parola mi riempì la mente, elettrizzandola, e solo in quel momento mi resi conto di quanto stesse infervorando in me la voglia di partecipare.
Non avevo paura. Non dovevo averne.
Avevo tutto da dimostrare, niente più da perdere. La mia stessa vita, in quel momento, mi pareva non lo scopo per vincere, ma un mezzo. Un semplice mezzo portante gloria e onore al nostro Distretto, ancora e per sempre.
Non avevo paura. Non dovevo averne.

Ero pronta. Me lo sentivo nelle ossa, nel respiro accelerato per l’eccitazione, nel ricordo degli anni spesi ad allenarmi per questo evento. Sapevo di esser pronta. Sapevo di poter vincere la 74esima edizione degli Hunger Games. Io me ne convincevo! E più queste parole mi rimbombavano in mente, più l’impulso d’assassina montava dentro me, e più mi sentivo pronta, forte, imbattibile, instancabile.

Presi i coltelli macchiati di fango, rendendoli impeccabili per l’occasione, accarezzandoli, rivolgendomi a loro come se fossero stati i miei veri alleati fisici, come se non esistesse un ‘tributo maschio’.
Mi alzai, scrollandomi di dosso le ultime fastidiose tracce di terreno, e mi incamminai verso il Palazzo di Giustizia del mio Distretto. La Mietitura sarebbe iniziata entro pochi minuti.

Durante il breve tragitto, il pensiero che ci fossero già volontari mi balenava in mente insistentemente. Ma la procedura al 2 era leggermente diversa rispetto a quella degli altri distretti.
Noi sfornavamo macchine da guerra, ragazzi pronti ad uccidere, disposti a tutto pur di ricevere l’onore di sentir gridare a gran voce il proprio nome alla Mietitura. E sì, venivano estratti nomi dalle due grandi bocce di vetro agli estremi del palco eretto proprio davanti l’edificio portante del Distretto. Ma c’erano sempre volontari. E allora i due si ritrovavano a scontrarsi, ma se colui che era stato estratto avesse voluto semplicemente evitare questa soluzione drastica, allora avrebbe ceduto il proprio posto. Di solito non accadeva mai.

Al 2 c’era sangue ancor prima di finire nell’Arena. Ma erano tradizioni, le nostre tradizioni, delle quali il Distretto andava fiero, trasmettendole di generazione in generazione, guadagnandosi la fama del ‘Distretto più brutale di tutti’.
Sapevo che, ad ogni modo, mi sarei ritrovata a ferire inevitabilmente, quella mattina.
La cosa peggiore, era che non avevo la benché minima idea di chi sarebbe stata la sfortunata ragazza che avrebbe avuto il coraggio di confrontarsi con me.
Probabilmente non mi conosceva, o non aveva idea con chi aveva a che fare; magari l’illusa provava ad auto convincersi di riuscire a battermi.
Ah! Che seccatura.

Ho sempre odiato perdere tempo. E sapevo che quella mattina avrei reso le cose il più rapide possibili, godendomi i miei applausi, il mio momento, il mio momento!
Era tutto perfetto, tutto estremamente lineare come avevo calcolato.
Eccetto un minuscolo, eppure fondamentale dettaglio.

C’era solo un unico nome che volevo che venisse estratto dalla boccia dei ragazzi.
E se la fortuna non fosse stata dalla mia parte, o se quel ragazzo non si fosse fatto avanti, poco sarebbe importato: lui mi avrebbe accompagnato nell’Arena come ‘tributo maschio del Distretto 2’, costasse ciò che costasse. Ero disposta anche a sabotare io stessa l’estrazione pur di far uscire il nome di Cato da quella fottuta boccia di vetro.

Ogni gioco ha le proprie regole.
Quelli erano i miei Giochi, i miei Hunger Games.

E spettava a me, soltanto a me, dettare le regole, giocare per vincere.

***

La tempesta imperversava e i miei capelli non smettevano di gocciolare, bagnando ancor di più i vestiti già grondanti e fracidi d’acqua e fango.
La mia vista era offuscata sul palco poco distante da me e dal gruppo di quindicenni come la sottoscritta, eppure il mio udito era ben puntato sulle grandi casse acustiche e sulla voce squillante e fastidiosamente acuta di Janet Cavendish. Una delle abitanti di Capitol City più influenti e fedeli a Snow.

Anche quest’anno il noioso filmato prodotto dalla capitale padroneggiava l’attenzione di tutti i presenti , mentre i ragazzi fremevano d’eccitazione, tutti impazienti per il momento vero e proprio della Mietitura: l’estrazione dei coraggiosi tributi addestrati a combattere come fossero bestie in prede alla sete di sangue.

Iniziavo a sentir freddo, che poi io il freddo lo sentivo sempre, era come un fedele compagno, un’ombra che ti segue, silenziosa, muta, eppure che la dice così lunga sul tuo conto.
Io il freddo ce l’avevo dentro e fuori, e per quanto cercassi di preservarlo quasi come se fosse una vittoria da esporre in ogni occasione, non m’ero mai accorta di quanto mi stesse ledendo, consumandomi piano, senza farmi sentir dolore. Era un mostro invisibile, ma sapevo che era parte di me, della persona che in realtà era lei il vero mostro.
Io invece ci andavo d’accordo, con il mio gelo. Ormai mi accompagnava ovunque, non ero capace di starne senza, non ero Clove, e lui non poteva avere compagna migliore.

Nonostante la sua presenza, c’era qualcosa dentro me che non avrebbe mai smesso d’ardere impetuosamente, come se fosse una conseguenza ‘estrema dell’estremo’: la vendetta.

La cercavo e la trovavo finalmente lì, tra le viscere dell’anima, la vendetta, l’essenza di Nemesi, la mia vera natura, il mio dàimon celato sotto falsi e rari sorrisi, sotto false parole, sotto atteggiamenti silenziosi e riservati.
Io avevo tanto da dire, da mostrare, da raccontare.
Avevo tanto da essere e diventare.

Ma il mostro che s’era insidiato dentro me, senza preoccuparsi di non far troppo baccano, mi possedeva, mi cullava dolce nella morsa travolgente della mia riservata follia. Mi aveva plasmato. Io ero nata dal mostro che mi possedeva. Io ero il mostro.
Io mi resi conto di non provare più nulla. Ero vuota. O forse, svuotata dalla sete di vendetta personale. Ma non m’importava più nulla.

C’ero io sul podio dei 74esimi Hunger Games. Mi vedevo sorridente, per la prima volta, la mia mano nella presa salda di Snow, gli applausi, la gloria eterna, l’onnipotenza racchiusa ed espressa in una minuta ragazzina di 15 anni. L’emblema della vittoria. Mi vedevo felice, come non lo ero mai stata, come se non mi servisse più altro per vivere.
Felice. Felice!
Non avevo bisogno dell’amore. Non mi sarei mai concessa a certe frivolezze. Io lo sapevo. Sapevo che avrei vinto. Sapevo che avrei ucciso come il mio mostro mi ordinava di fare.
Ed era ciò che volevo fare.
Uccidere, vincere. Ne sarei uscita fuori. Forse la sete di vendetta mi avrebbe finalmente abbandonata, oppure avrei trascorso il resto della mia piena ma insignificante vita con quel famoso ‘senso di colpa’ che non avevo mai provato sulla mia pelle.

Eppure, sapevo che ne avrei avuta l’occasione. Chissà se il mio mostro avesse divorato anche il senso di colpa, oltre a tutti i miei sentimenti. Sperimentare.

Dopo pochi secondi mi resi conto che lo sproloquio era ormai terminato, ed ecco che la Cavendish giungeva alla boccia di vetro femminile. Sì schiarì la gola acutamente. Tese il braccio tremante nell’immenso oceano bianco e liscio che le si stagliava davanti. Le sue dita affusolate frugarono curiosamente fra i migliaia di foglietti, lasciando trasparire la suspense dai suoi frenetici gesti, facendo attenzione a selezionare il biglietto estratto dalla Fortuna Bendata.

Ne prese finalmente uno, afferrandolo saldamente e sollevandolo con lentezza, scatenando il silenzio più assoluto al quale io avessi mai partecipato, permettendomi quasi di avvertire l’accelerazione del battito cardiaco di ognuno di noi.

Eravamo tutti così vicini, tutti così forti, pronti, crudeli. Il biglietto aspettava solo la voce della Cavendish pronunciare ad alta voce il mio nome.

Lei ritornò cautamente al centro del palco, e altrettanto lentamente iniziò a spiegare gli angoli immacolati del biglietto con il nome del tributo femminile.

Schiuse le labbra.
Schioccando, la lingua corse sul palato, sonò in una vibrante alveolare, si chiuse in un’occlusiva gutturale e terminò con una sibilante.


«Dorcas Ferycrown!». La straordinaria rossa sedicenne avanzò con fierezza.
Alea iacta est.

Ma il calcolatore mostro Clove prevalse.

«Mi offro volontaria!»

***


NUTRICE
Frenalo, figlia, questo impeto furioso, è già un miracolo che il silenzio ti protegga.
MEDEA
La Fortuna, che ha paura dei forti, i vili li calpesta.
NUTRICE
Il coraggio va bene, quando è usato al momento giusto.
MEDEA
È sempre il momento del coraggio.
NUTRICE
Non c'è rimedio per le tue disgrazie.
MEDEA
Chi non ha nulla da sperare, di nulla deve disperare.

Calò il silenzio, e con esso gli sguardi incuriositi dei presenti, compreso quello di Dorcas, che mi squadrò dalla testa ai piedi con aria saccente.

Non è più il momento della vigliaccheria, non che lo abbia mai vissuto, ma in quell’attimo più che mai avrei dovuto avanzare prontamente, con passo sostenuto e mento alto, verso il retro del palco, dove avrei combattuto con la mia avversaria contendendomi il ruolo di tributo femminile del Distretto 2.

E così feci.
In un attimo, mi sentii scrutare internamente da mille e più sguardi, e fu inevitabile incrociarne alcuni estremamente familiari: il volto scuro, gli occhi tersi di fiducia, il sorriso abbozzato che traspariva incoraggiamento della mia fedele allenatrice Enobaria. Un cenno di approvazione del capo. Poi il vuoto tornò nei suoi occhi nocciola. Scorreva il mio sguardo, cercando un appiglio, un sostegno, perché in quel momento mi sentivo così sola nella mia occasione, e scrutavo qualcuno fra la folla.

Qualcuno che non mi facesse sentire sola, qualcuno che avrebbe diviso con me il peso delle colpe, perché per me erano troppe, io non sapevo che farmene delle colpe, le eliminavo senza curarmene.
Ma la tensione le fece accumulare, e allora capii che non poteva esserci nessuno, nessuno. Nessuno fra la folla capace o volente di alleggerirmi un carico inopportuno.

Ma c’ero io.
Io potevo contare solo su me stessa, sulle mie capacità. Nulla di più vero e adatto, in quel momento. C’ero io per me stessa. Mi bastava, mi soddisfaceva, mi potenziava, mi rendeva più resistente, meno vulnerabile, mi rendeva più un mostro.

Raggiunsi il retro del palco, i coltelli pronti, il ghigno abbozzato, l’analisi dettagliata dei comportamenti decisi seppur ansiosi di Dorcas, la posizione da combattimento, il respiro mozzato, il cuore veloce e vuoto.
La mente concentrata.
Un fischio.

In un attimo, un peso mi crollò addosso. Con una velocità inaudita, lei mi era saltata addosso, ma abbastanza prontamente riuscii a sovrastarla, bloccandola in pochi secondi.
Il mio volto vicino al suo, il suo dimenarsi, i suoi capelli rossi che sarebbero stati intensificati da un po’ di buon sangue, i respiri già affannati, il mio sorriso liberatorio, il mio coltello sulla sua guancia.
I miei occhi vuoti, i suoi furiosi. Le sue mani in cerca della pistola carica sul fianco della sua cintura, ma troppo distanti da essa e immobilizzate dal mio piede.

La pioggia che continuava a battere tempestivamente sui nostri corpi ansimanti, furiosi, dimenanti.
Il temporale di sottofondo.
L’onda incontrollabile, la stessa che mi pervase quando Cato mi portò quella bestia alla Sala, mi assalì.

‘Non di nuovo’ mi dissi. ‘No, Clove. Piantale un coltello nella gamba, falla urlare dal dolore, portala alla follia, spingila ad implorare la morte, o peggio, il cedimento del posto di tributo. Ma non torturarla. Non ora, non così, non con questi lupi affamati che ti sbranano con lo sguardo.’

S’insinuava nella mia mente, l’essenza debole e fioca della follia, spingeva a concretizzarsi, quel riprovevole impulso detto istinto.
Ma non gliel’avrei permesso.

Io ero l’assassina, la mente fredda, calcolatrice, che non si lasciava abbindolare dall’istinto. L’avevo badato a mie spese, non era un tunnel dal quale era facile uscire, perciò tanto valeva non entrarci affatto.
Era il tunnel del mostro, un vortice impetuoso, incontrollabile, spaventosamente liberatorio.

«Sembri uno scoiattolo.» la mia voce fioca, le gocce di pioggia riganti il suo volto, che parevano fondersi con le lacrime le quali iniziarono a sgorgare a fiotti quanto la mia lama si conficcò nella sua gamba destra.

Sbarrò gli occhi, spalancò la bocca, ma non emise neanche un gemito di dolore. Si trattenne mordendosi la lingua, cercando di disarcionarsi.
A fior di labbra, un soffio, come un fruscio di vento, lieve, impercettibile, essenzialmente vitale per me.

‘Io…cedo…Io cedo il posto…’
L’impulso d’energia che da quelle parole trasmigrò verso la mia mano impugnante il coltello si tramutò in una violenta spinta contro il femore della ragazza.
A quel punto urlò.

Urlò come non avevo mai sentito nessuno urlare.
Vedevo la sua bocca spalancata più del normale, l’ugola trillante, la lingua quasi fuori dalla bocca per il dolore disumano. Gli occhi stretti a due fessure.
L’eco rimbombante di quel grido acuto, intenso, assordante, assurdamente squillante mi infastidì a tal punto da estrarre la lama dalla sua gamba, facendo sgorgare sangue a fiotti come se fosse una sorgente.

Ansimando, Dorcas si toccò la gamba, premette contro la ferita, ma ben presto si ritrovò entrambe le mani pregne di sangue viscoso e vermiglio. Mi sollevai, e i soccorsi arrivarono istantaneamente, mentre riprendevo fiato con tranquillità, pulendo con il tessuto dei pantaloni la lama del coltello.

In un attimo, realizzai.
Ci sono dentro. Eccomi, il tributo femmina dei 74esimi Hunger Games. Trattenni il respiro per regolarizzarlo, essendo esso troppo irrequieto. Mi lasciai cadere a terra, guardando Dorcas che veniva trasportata su una barella da un gruppo di soccorritori. Non aveva la forza per uccidermi con uno sguardo, ma se l’avesse avuta di certo mi sarei sentita disarmata.

Era stato tutto così rapido, indolore. Capii che finalmente ce l’avevo fatta.
Avevo anestetizzato i miei sentimenti.
Ero pronta, ero io.

L’assassina che c’era in me era solo alle origini, ma potevo percepirla, accarezzarla, placarla e spronarla. Coltivarla come se fosse l’albero delle mele d’oro. Istruirla a regola d’arte.

Sfoderarla e sentirmi sfilacciare dentro l’imbastitura della regolatezza.

***

«E per gli impavidi ragazzi…» continuò la Cavendish, dirigendosi a piccoli e frettolosi passi verso la boccia di vetro sulla destra del palco.

Potevo percepire la tensione negli sguardi e nei pugni stretti dei ragazzi, che si mordevano le labbra, si divoravano le unghie, si stringevano le braccia con la presa nervosa delle dita e i più piccoli cercavano di proteggersi dalla pioggia battente e martellante.

Janet Cavendish si sfilò lentamente il guanto sinistro, lentamente, dito dopo dito. Tese la mano verso l’immensità bianca e frugò perdendosi per qualche infinito istante. Sommerse dalla distesa alba, le dita si strinsero attorno ad un unico e solitario pezzetto di carta, sollevandosi lentamente e con fluidità.

Eccola, l’immensità di quel foglietto.
Potevo percepirla, in quel momento, sentirmela propria, sperare che contenesse il nome di qualcuno degno d’affrontarmi.

Il pensiero che ci sarebbe stata la probabilità che esso fosse il suo nome non mi sfiorò neanche. Forse perché non sarei stata in grado di gestirne le conseguenze, così optai aggirando la possibilità. Certo, la sua partecipazione come tributo maschile pescato dalla Sorte poteva allettarmi per vendetta personale, ma se probabilmente si fosse offerto a quel punto della Mietitura, sapendo chi e cosa c’era in gioco, avrei interpretato quel gesto come volontà di difendermi, e ciò non avrebbe fatto altro che irritarmi a tal punto da volerlo sgozzare.

La Cavendish tornò al centro del palco, con lo sfavillante pezzetto di carta fra le dita, sorridente e gioiosa, nonostante non aveva ancora conosciuto il nome scritto.
Non si fece attendere troppo: scartò il foglietto piegato in quattro e ne lesse ad alta voce il contenuto, schiarendosi prima la voce in un acuto brontolio.


Restai paralizzata quando il nome di Shylock Frailmean scintillò nell’aria nebbiosa, umida e piovosa.

Ma le gambe mi cedettero completamente quando una voce familiare urlò: «Mi offro volontario!» e sentii che stavo per svenire e che la testa mi girava troppo e che non avevo più la percezione del reale.

Mi appoggiai alla struttura solida (al contrario della mia, in quel momento) del palco, cercando di non dare troppo nell’occhio con la mia reazione evidentemente sorpresa.

I suoi capelli biondi scintillavano anche fra la folla, nonostante la nebbia e la pioggia, grondanti d’acqua piovana. Il suo sguardo era di piombo. Mi fissò per un momento e una strana sensazione mi pervase inesorabilmente.
Erano forse i miei sentimenti risvegliatisi dopo l’anestesia? O erano semplicemente i sensi d’assassina ancora più spronati nel vedere il suo volto fiero avanzare verso la propria sorte?

Nessuno mi rese più confusa di quanto lo fece lui in quel momento, con quelle tre parole, con quel suo tono pronto, con la pioggia di sottofondo, con i ricordi che mi si aggrappavano all’anima nonostante io cercassi di scrollarmeli di dosso.

Non ci fu bisogno di uno scontro: Shylock cedette il posto, consapevole del fatto che non ne sarebbe uscito vivo con un titano del genere.
Salì sul palco. Scosse i capelli lasciando gocciolare il più dell’acqua che trattenevano. La Cavendish mi invitò a raggiungerlo.

Nonostante avessi voglia di trascinare i piedi come una bambina capricciosa, mi comportai mostrandomi indifferente, camminando dritta e a mento alto, come m’avevano sempre detto di fare, porgendogli la mano come la Cavendish suggeriva.

Mi sentivo così piccola e grande, potente e debole, pronta e demoralizzata, leone ed agnello.
Un connubio indistruttibile indice della mia fragilità, ma chi lo avrebbe mai ammesso a quel punto dell’iter?

La sua mano era già tesa, senza indugio, scattante, fervida. Fissandola immaginai le morti che avrebbe causato. Così imponente. Lui era lì, col ghigno pronto, sfoderato su un piatto d’argento, lo sguardo gelido e di una sottile perfidia che non potevo far altro che invidiare.

‘È sempre il momento del coraggio.’ Non potevo più farmi attendere. Tesi la mia mano, incontrando la sua, così calda, dalla presa forte e sicura. I ricordi avvinghiatimisi addosso mi strinsero il cuore, risalendo alla notte dopo lo sfogo nella Sala. Quel calore non me lo sarei mai più concesso, e lui non avrebbe mai più dovuto osare offrirmelo. Io non ne avevo bisogno. Mai ne avrei avuto. Così ritrassi in fretta la mia mano, così piccola in confronto alla sua, facendo passare la fatidica stretta di mano per uno sfioramento appena accennato. La sua aria interrogativa piombò sorpresa sul suo volto, mentre io non potei far altro che contrarre le labbra in una smorfia rabbiosa e disgustata, inarcando un sopracciglio.

Lo stupore colse anche la Cavendish, ma pur di portare avanti la Mietitura, esclamò a gran voce: «Signori e signore, è con grande orgoglio che vi presento i tributi del Distretto 2 della 74esima edizione degli Hunger Games! Un caloroso applauso per…Cato e Clove!»

Un clamore improvviso mi fece sobbalzare, e rabbrividii dall’ira bollente realizzando che quegli applausi non erano per ‘Clove’.
Non lo erano completamente, almeno. Erano per ‘Cato e Clove’, per i ‘tributi del Distretto 2’.
Erano per ‘Cato…e Clove’. Una coppia, un insieme, un’alleanza, un patto.
Uno dei due sarebbe incappato nella morte.
Il mio e il suo nome mi balenavano in mente, mi distraevano, mi decomponevano, mi torturavano, affliggendomi all’idea di un… ‘noi’.
Io e Cato. Cato ed Io. Cato e Clove.

Nulla di più letale ed autolesionistico.

***

Ci condussero all’interno del Palazzo di Giustizia dove ci vennero concessi pochi minuti per stare insieme, per poi dividerci per il saluto ai familiari. Entrambi non eravamo entusiasti all’idea di quest’ultimo, io sapevo che non sarebbe venuto nessuno.

Mio padre era probabilmente a casa a farsi chissà chi o cosa e non avendo né madre né amici optai per salutarmi da sola, ma non c’era niente di più ironico e al contempo malinconico, sapendo che mi ero salutata già da parecchio tempo a quel giorno.

Quanto a Cato, non conoscevo la sua famiglia. Sapevo che era figlio unico anche lui, ma con entrambi i genitori, di quelli che ti spronano a far sempre meglio, seppur con quel perfezionismo maniacale, gelido e materiale, con l’interruttore dei sentimenti posizionato perennemente su ‘off’.

In quel breve lasso di tempo concessoci, lo raggiunsi in quella sorta di sala d’attesa. Spalancai come una furia le porte in ebano rilegate d’inserti dorati, facendole piombare con fragore sulle pareti ai loro lati.
Ed eccolo lì, seduto comodamente su una poltrona, asciutto ed immacolato, mentre sfogliava calmo e placato un quotidiano d’attualità privatizzato dalla capitale.
A passo pesante e imbestialito, mi diressi verso quella poltrona, sbraitando come una iena:«Ma cosa ti salta in mente in quel fottuto cervello che ti ritrovi? Perché l’hai fatto, razza di idiota?» e appena mi parai dinnanzi a lui, la prima cosa che mi venne in mente per sfogarmi fu strappargli quel quotidiano dalle mani, stracciarlo e buttarne i brandelli sul pavimento in marmo.

Per tutta risposta, lui mi fissò, poi accennò un brontolio mugugnato:«Non so davvero a cosa tu ti riferisca.»
Come poteva essere così freddo e distaccato? Come poteva semplicemente pensare di essere del tutto estraneo al mio furore?

Cercai di respirare con naturalezza, tranquillizzandomi. Quando sentii di esser davvero pronta per dirlo, mi avvicinai al suo volto, inginocchiandomi per terra per raggiungere la sua stessa altezza.

«Io non ho bisogno di essere protetta, Cato. Non ho bisogno della protezione di nessuno.»

«Ma che razza di egoismo! Non sono solo i tuoi Hunger Games, Clove. Sono il sogno di tanti ragazzi del nostro Distretto. Ragazzi come noi.»

«Non paragonarmi a quella patetica massa di imbecilli! So perdere, ma non sopporto la slealtà.»

«…Un’assassina che parla di slealtà.»

«Io non ho paura di niente, tanto meno di me stessa e delle mie capacità.»

«Invece dovresti prepararti all’idea che ben poco sarà come tu ti aspetti, una volta lì dentro. Non puoi farcela da sola, Clove.»

«Davvero? Come fai ad esserne così certo? Come puoi affermare una tale idiozia campata in aria conoscendo a stento il mio nome?»

«So molte più cose di te di quanto tu stessa sappia.»

«Conoscendomi così bene, allora dovresti lasciarti sfiorare dall’idea che, una volta nell’arena, tu sarai la prima persona che ucciderò. E io non ho paura, Cato. Non ho più paura. Né di me stessa, né dei miei mostri sempre in agguato, né del mio istinto, né della mia follia dietro l’angolo. Io sono già morta. Io ho i sentimenti anestetizzati, non posso più provare paura, capisci? Non provo più niente. Sono vuota. O meglio, sono stata svuotata. E una buona metà dell’opera l’hai compiuta tu. Però, sai una cosa? Devo ringraziarti. Mi hai resa grigia, nel pallore e nello squallore del neutro, razionale, obiettiva, fredda. Un’assassina.»

Ripetei quelle ultime due parole uscendo dalla stanza con animo diverso da quello con cui ero entrata qualche minuto prima.

«Un’…assassina.» mi tremò la voce, mi sentii pizzicare gli occhi.
Mi voltai un’ultima volta prima di lasciare la stanza, notando la sua compostezza intatta dal primo momento in cui ero entrata in quel posto. Soltanto, mi fissava.

Era vuoto anche lui. Forse era stato svuotato in quel momento, da me, dalle mie parole plumbee.

Glielo si leggeva nelle iridi azzurre, nel modo in cui mi guardava lasciare lui e la stanza, ed io strisciante, come un serpente in cerca di calore, come un leone chiuso in gabbia, come un mostro vagabondo che si fermava a chiedere asilo presso la mia anima.
_____________________________________________________________________________________________________

Fermi tutti!


E così si conclude anche il quarto capitolo, dopo una lunga pausa (di riflessione?) che durava, ebbene sì, da metà Luglio. Non posso credere di esser tornata a scrivere solo adesso! In realtà, questo ritardo nell'aggiornare è dovuto ad una serie di eventi, fra i quali il più importante era la mancanza di ispirazione. Non so, sin dall'inizio questo capitolo non mi pareva un granché, era proprio l'esordio a demoralizzarmi. Scrivevo e cancellavo. Scrivevo e cancellavo. Poi mi sono detta 'Ma al diavolo! Io ci provo, la porto avanti e poi vedo che fare.'
Credo di aver fatto la mossa giusta, anche perché il risultato finale di questo quarto capitolo non è affatto deludente, però c'è ancora qualcosa che non mi convince, ma non so ben dirvi cosa. Potrete aiutarmi voi, con le vostre recensioni! Siete stati così fenomenali nei capitoli precedenti, perché non ripresentarvi con tanto di buona volontà e critiche acide gratuite? Ne avrei proprio bisogno, almeno mi rinfresco un po' le idee dal casino scolastico.
Ringrazio tutti i miei meravigliosi recensori (Lali Jai, FedeDrewHoran, stoneed, Queen_B, meadow e tutti gli altri!) senza i quali io non sarei tornata con la stessa grinta del primo capitolo. Grazie davvero, mi avete addirittura fatta commuovere (e ce ne vuole!) dicendomi di non abbandonare questa fanfiction perché merita davvero.
Siete i miei barlumi di speranza. Grazie, grazie mille!
Ecco alcuni credits giusto per formalità (no, ok, ci vogliono davvero, altrimenti adios fanfiction.):

-Dialogo nutrice e Medea, da 'Medea' (Seneca);
-Grazie a rainymood.com per l'effetto speciale applicato al capitolo. Non avrebbe reso in maniera migliore l'aria temporalesca! 

Fatemi sapere cosa ne pensate di questo nuovo capitolo! Il prossimo sarà denso di sorprese, se ne vedranno delle belle...*sghignazza con risata malvagia*.
Al prossimo travolgente capitolo,

la vostra Vita Oscura.

  
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