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Autore: Gaber_Ricci    20/10/2012    1 recensioni
Una giornata di sole, interrotta d'improvviso da un'apparizione davvero inconsueta. E pericolosa.
Genere: Avventura, Fantasy, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La transizione non durò più di un attimo: prima, un sole limpido e degno d'una fornace dell'Inferno faceva splendere i suoi raggi attraverso la volta celeste come attraverso un diamante semisferico; subito dopo, si era fatto buio su tutta la Terra, o almeno, su tutta quella frazione di Terra che i presenti, fino a qualche minuto prima, erano riusciti, con chiarezza perfino eccessiva, a vedere. Che non era poi molta, in realtà, racchiusa tra quella strada fiancheggiata da palazzi i cui orribili rossi bordeaux e giallo limone risaltavano ancora di più contro il nero innaturale del cielo, che tuttavia mandava una luce che tutto rendeva penombra, e gli stretti vicoli che da essa si dipartivano ad angolo retto; domicilio, l'una e gli altri, di qualsiasi attività commerciale smerciasse beni di non immediata necessità e, particolarmente, di bar, fuori dai quali i clienti alla ricerca del refrigerio dell'aria condizionata schizzarono come novantenni alla vista di una bella donna (anzi, diciamocela tutta, di una donna quale che essa sia).

Fu, in effetti, una fortuna; perché non fu necessario molto, perché giungesse anche il terremoto. Il quale aprì crepe nei pavimenti larghe quanto due persone adulte, mandò in pezzi i vetri e sgretolò molti muri e palazzi con la stessa facilità con cui un bullo undicenne fa ritornare sabbia i palazzi con tanto amore costruiti dai fratelli più piccoli.

Anche l'aria si incrinò, per le urla che seguirono: qualcuno gridava per la paura, altri, i più numerosi, piuttosto per il dolore che era stato loro provocato dalle schegge di praticamente qualunque materiale edile che, esplose fuori dalle costruzioni, si erano conficcate nelle loro carni; ma non mancavano neppure, ed erano i più spaventosi nonostante il loro numero esiguo, quelli cui pareva di aver colto i segni del Cielo, e che si erano inginocchiati, piangenti, a pregare, o che si strappavano i capelli muggendo come vitelli scannati: “L'Apocalisse! L'Apocalisse!”, o che erano stramazzati a terra con la bava alla bocca in preda alle convulsioni, senza che nessuno li aiutasse. Fu quando tutti si erano convinti di essere di fronte all'ira di un Dio, quale che Esso fosse, che comparve il tirannosauro.

Era diverso, completamente diverso da tutti quelli che paleontologia, cinema ed arti accessorie avevano inventato per loro: diverso per colore, col suo viola cangiante ed affascinante, nei limiti del terrore che ispirava; diverso per forma, con le sue linee piene di angoli aguzzi, che sembravano fatti apposta per disegnare una bestia capace di squartare e lacerare con ogni centimetro del suo corpo; soprattutto, diverso per grandezza: torreggiava sopra ogni cosa fosse nelle vicinanze, ed anche il più enorme dei gorilla preistorici, lo si capiva, sarebbe fuggito di fronte a lui, a rifugiarsi nel buio di una caverna dove, si sperava, quell'essere non avrebbe potuto trovarlo, e neppure vederlo, con quei suoi occhi piccoli, ottusi e crudeli.

La sua figura fu illuminata da un lampo azzurro, contro cui ruggì, con ira; il violento tuono che ne seguì, lo fece ruotare su se stesso in preda al furore, e la sua coda muscolosa tagliò di netto in due un palazzo. Le impalcature, che erano state assicurate ai muri con l'intento di tinteggiarlo, furono divelte, ed interi appartamenti e lastre di metallo furono scaraventati contro il cielo nero, da cui ricaddero precipitando come crudeli proiettili di bombardieri. I minuscoli uomini, tra i quali era calato un silenzio pieno di stupore ed impotenza alla comparsa del rettile preistorico, li accolsero riprendendo ad urlare a squarciagola, forse tentando di invocare la dea Fortuna, perché li facesse capitare in un quadrato di asfalto che quella gragnola assassina avrebbe risparmiato.

Di tutti, non uno fu fortunato; certo, alcuni un poco più degli altri, perché una finestra, o una trave, o un pezzo di legno, li colpì in pieno, li aprì fino agli organi interni e li fece morire sul colpo. Gli altri, invece, a motivo del loro frastuono, furono individuati dal tirannosauro, per il quale erano una preda certo magra, ma pur sempre una preda.

Con un solo passo, coprì quasi tutti gli almeno trenta metri che li separavano; il movimento fu eseguito con un'agilità straordinaria, per un animale di quella stazza, ma al tempo stesso con una potenza tale da far crollare nuovi palazzi, ridurre in rottami le auto che finirono sotto le sue zampe, sradicare querce e platani come se fossero tralci d'edera; con un nuovo passo, fu loro addosso, e questa volta, a scricchiolare sotto il suo piede tridattilo, furono le ossa di quegli uomini che non furono abbastanza lesti, di corpo e di mente, a scartare in una delle vie laterali. Alcuni di questi ultimi, a loro volta, furono ghermiti dalle tozze zampe anteriori che immediatamente, per loro fortuna, li stritolarono. Così, non dovettero sopportare la vista di quelle fauci che fecero di loro, dopo un breve sguardo quasi sorpreso per la piccolezza di quanto arraffato, un fiero pasto.

Angela Del Gioioso aveva osservato, stranita, l'intera scena dall'esterno del bar Lucky, senza riuscire a muoversi d'un passo dalla sedia su cui, più o meno una vita prima, stava consumando un cappuccino senza zucchero ed un cornetto integrale; non ci riuscì neppure quando vide l'enorme mostro volgersi proprio nella sua direzione. Non c'erano dubbi che stesse puntando proprio su di lei, che decise di fingersi un oggetto inanimato, per sfuggire alla sua attenzione: i muscoli del suo viso erano tutti rilassati, così che era priva di ogni espressione; non tremava, non cercava di scappare. Anche i pendenti che aveva alle orecchie erano immobili come due obelischi di ghisa. Se era una strategia, le stava riuscendo benissimo, anche se l'animale, probabilmente, era troppo stupido per capirla, e continuava dunque a puntare verso di lei a testa bassa. Cosa che faceva pensare che la sua fosse piuttosto un'inconsueta, benché non incomprensibile, reazione al panico che l'invadeva dall'attaccatura dei capelli fino alle unghie laccate di rosso dei piedi.

Fu quando la bestia fu abbastanza vicina da sentire il fetido e sconvolgente odore che usciva dalla sua bocca, che la piccola macchia verde comparve sul palazzo di fronte, rimasto miracolosamente integro di fronte alla furia coalizzata del mostro e degli elementi (erano infatti cominciati a cadere chicchi di grandine grossi come limoni, ed i fulmini avevano appiccato il fuoco a numerosi edifici).

Non era, non poteva essere più alta di un metro e trenta e, si intuiva, doveva avere un viso ed un corpo che appartenevano più ad una bambina che ad una donna, o anche soltanto ad un'adolescente; s'intuiva soltanto perché, oltre che dall'altezza (come diavolo aveva fatto ad arrampicarsi fin lassù?), la sua vista era celata da una maschera e da una tuta color smeraldo uscite direttamente da una rivista pulp, che, dunque, addosso a lei apparivano assolutamente inadeguate.

Non lo erano affatto, invece, le sue movenze: aveva l'agilità e la velocità di una ginnasta, nonché una fortuna superiore al normale; l'ira del cielo, infatti, le si aggirava attorno, senza toccare né lei né i luoghi su cui metteva i piedi, calzati da stivali di gomma. Fu con un boato di sorpresa che chi si era accorto di lei accolse il balzo che spiccò in direzione del tirannosauro.

Il dislivello tra l'animale ed il palazzo era tale che gli atterrò sulla schiena, vicino all'attaccatura della coda; era stata tanto elegante che qualcuno represse a stento il desiderio di applaudire, riservandosi di farlo in un momento in cui ciò fosse più adeguato. L'animale neppure si accorse, di avere una cosa tanto piccola che gli risaliva di corsa la colonna vertebrale, raggiungendo prima il collo e, in seguito, la testa. Quando fu giunta qui, tirò fuori, nessuno capì bene da dove, una corda dal calibro talmente grosso che non riusciva neppure a stringerla tutta tra le mani, ne fece un enorme cappio e vi intrappolò la testa del rettile.

Questi, sentendo la stretta al collo, fermò il suo incedere e prese a scuotere la testa, sopra la quale la bambina, ancora attaccata alla fune, veniva sballottata come Calamity Jane su un mustang troppo nervoso. Rischiò di cadere almeno quindici volte e, con ogni probabilità, l'attrito con la dura iuta ridusse le sue mani a condizioni miserevoli: ma alla fine, incredibilmente, riuscì a domare il tirannosauro ed a fargli chinare, quasi vergognoso, la testa al suolo.

Nello stesso istante, il tumulto del cielo si placò e, come da pugnalate, le tenebre furono squarciate dai raggi di un sole ricomparso da solo Dio sapeva dove. Il calore, il sollievo, la vista di una macchina per uccidere così umiliata da una bambina di non più di sette anni si tradussero nell'applauso che tutti aveva trattenuto fino a quel momento. Non appena lo udì, la bambina lanciò il tirannosauro alla carica contro Angela.
*
La bambina, di nome Matilde, aveva gli occhi sbarrati, e si era completamente dimenticata tanto del suo succo di frutto all'albicocca quanto del cappuccino senza zucchero e del cornetto integrale della mamma, e della sua amica Lucia; sembrava interessata, piuttosto, al muro bordeaux che aveva proprio di fronte, in pieno sole. In realtà, probabilmente, nessuna cosa di quel posto, e del mondo, la interessava, in quel momento.

La voce fastidiosamente acuta della mamma riuscì solo a farle fischiare un poco le orecchie, ma non comprese quello che diceva finché non la prese per le spalle e la scosse: allora, sbattè le palpebre, accennò un debole sorriso e disse: “Sì, mamma, scusa”.

“Ah, sempre con la testa fra le nuvole!” rispose la madre, scompigliandole i capelli “Ma che ci farai mai, con tutta questa fantasia!”.

“Io...” aveva iniziato a rispondere la bambina, ma Lucia l'anticipò, e gracchiò: “Ci scriverà un romanzo che vi farà miliardari, ve lo dico io!”. Risero tutti, la mamma al suo solito modo sfrontato, che le fece ondeggiare i brutti orecchini che aveva scelto; Matilde, al contrario, si limitò ad un timido sorrisetto. Più di così, non avrebbe potuto fare: con quel vestitino, tanto rosa quanto ridicolo, che Angela, sua madre, aveva preteso che indossasse quella mattina, si vergognava anche solo di essere uscita di casa.

Ascoltò, distrattamente, la madre domandare: “Allora, sei contenta che la mamma e Lucia ti abbiano portato a fare colazione con loro, stamattina?”, mentre osservava ed invidiava un bambino, poco più piccolo dei suoi sette anni, sfrecciarle davanti con una sfavillante t – shirt verde. Tristemente, rispose: “Sì, mamma”, mentre già Angela e Lucia avevano cominciato a parlare di qualcos'altro, di cui lei non capiva assolutamente nulla.

“Forse sono stupida”, si disse; ma il problema non era quello: era che lei, sua madre, non l'aveva proprio mai capita. Su niente.

Certo, neppure di quella voce che sentiva dentro la testa capiva proprio tutto tutto, ma quello che le faceva vedere, be'... Di certo le piaceva molto, molto di più.
  
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