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Autore: IoNarrante    21/10/2012    7 recensioni
Seguito della storia a quattro mani scritta insieme a _Shantel
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 17
betato da nes_sie

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Come in un Sogno
 
Passeggiare per le strade di Londra mi rendeva piacevolmente leggera, quasi stessi fluttuando con le mie converse su quel marciapiede piastrellato. Vetrina dopo vetrina, sfilavo con lo sguardo ogni negozio della via dello shopping, com’era chiamata Regent Street.
Venera era come se si trovasse in un immenso parco giochi.
Sorrisi mentre vedevo i suoi occhi chiarissimi illuminarsi ancora di più, rendendola in qualche modo più bambina. Londra per lei era sempre stato un sogno, non sapevo quante volte me lo avesse ripetuto e adesso che si trovava lì, in mezzo a tutta quella gente, si sentiva finalmente parte di quel mondo.
Avvertii lunghe dita affusolate stringersi attorno alle mie.
Leo mi sorrise di sbieco, puntando quelle immense praterie che erano i suoi occhi nei miei.
«La tua amica si sta divertendo,» commentò allegro.
Non potei fare a meno di sbuffare in una risatina. «Credo che questo viaggio abbia fatto più bene a lei che a noi,» asserii.
Quel “noi” mi pesò addosso come un macigno e nemmeno mi accorsi in principio di aver pronunciato tre lettere così pesanti, soprattutto in un periodo delicato come quello. Leonardo si accorse del mio cambio d’umore, ma si limitò solo a stringermi di più la mano.
Da una parte c’eravamo chiariti. Durante la partita avevo messo finalmente da parte l’orgoglio e la testardaggine, per far posto alla mia parte comprensiva e razionale.
Ero stata tradita e umiliata dalle persone a me più vicine, quella sarebbe stata una ferita che avrebbe richiesto molto tempo per guarire. Lentamente avrei potuto recuperare e tentare di capire il punto di vista di Leo.
Ci stavo provando, realmente.
«Certo, per comprarti una borsa del genere ti parte tutto lo stipendio di un mese!» osservò Robbeo infastidito, fermandosi di fronte alla vetrina di Burberry.
Anna gli stava vicino, sfiorandogli di tanto in tanto la spalla con la punta delle dita bianchissime. Mi sentivo ancora piuttosto strana a vederli così uniti, era come se quel loro frequentarsi fosse qualcosa di alieno e incomprensibile.
Non si può scegliere chi amare. Si ama e basta.
Quel pensiero mi riportò alla realtà dei fatti. Per quanto una qualsiasi coppia potesse risultare ambigua in un contesto più ampio, come la figlia ricchissima del presidente di una squadra di calcio e uno studente con un lavoro part-time e una macchina scassata, c’era ben poco da analizzare.
Gli sguardi che quei due si scambiavano erano più che sufficienti a sopperire ogni dubbio.
Annalisa finalmente aveva trovato qualcuno che l’amasse per quello che era, non soltanto per la bellezza, per fama o per soldi. Romeo non era così superficiale, anche se il suo quoziente intellettivo sfiorava quello di un’ameba ripetente.
«Certo, se la tua paga è quella di uno che fa volantinaggio…» commentò Venera acida.
Subito i due si fissarono come se volessero sbranarsi ed io sospirai roteando gli occhi al cielo. Ci sarebbero state cose che non sarebbero mai cambiate, nonostante le nostre vite si fossero evolute a tal punto.
«Perché? Tu cosa fai per guadagnarti da vivere, Miss Saputella?» sputò il rosso, fissando la mia migliore amica come se volesse saltarle addosso.
Quei due avrebbero sempre trovato punti di disaccordo. Era stato così dalle elementari e sarebbe rimasto identico anche quando ognuno di noi sarebbe cresciuto.
Quando finalmente ognuno sarebbe andato per la sua strada.
Quel pensiero mi immobilizzò per un attimo. Sentii una fitta al petto e vi portai una mano sopra per regolarizzare il battito cardiaco. Leonardo si accorse di quella mia mancanza e mi guardò preoccupato.
Gli sorrisi per rassicurarlo. «Sto bene,» dissi.
Mi sentivo ancora piuttosto confusa su di noi, soprattutto quando la maggioranza delle volte mi veniva da chiamarlo Ruben anziché Leo. Era così frustrante dover ammettere a me stessa di aver ceduto troppo presto, di non averlo fatto soffrire abbastanza.
Eppure, quando mi perdevo nel suo sorriso sincero non riuscivo a pensare ad altro.
Forse ero stata troppo debole, troppo accondiscendente. Magari in futuro mi sarei pentita di quella mia debolezza, ma per adesso ero felice così.
Ognuno aveva diritto ad un po’ di felicità nella propria vita.
«Il massimo che puoi fare col tuo metro e cinquanta, è lavorare al circo,» s'intromise il cugino di Leonardo.
Rimanemmo tutti allibiti a fissarlo.
Si era unito a noi per caso, incontrandoci per strada e cominciando a punzecchiare senza sosta Venera che non la smetteva di rispondergli per le rime. Leonardo era teso come una corda di violino. Ormai avevo capito che Simone aveva la capacità di rendere irascibile anche il Dalai Lama.
«Almeno farei un lavoro onesto e non rubere i soldi facendo finta di saper rincorrere un pallone,» rispose acida la mia migliore amica.
Non sarei mai riuscita a spiegare veramente il comportamento di Ven agli altri. Da un occhio esterno, poteva sembrare una ragazza responsabile, molto intelligente, pronta a farsi in quattro per chiunque glielo avrebbe chiesto.
Poi però si lasciava trasportare in queste dispute sull’averla vinta per forza. E cadeva nella trappola di persone fastidiose come il cugino di Leo.
«Una delle cose che so fare meglio. È il mio lavoro!» rispose, infatti, sprezzante. «Oltre che muovermi con maestria tra le lenzuola…» e sorrise malizioso.
Pensai immediatamente di bloccare Ven sul nascere, perché ero più che sicura che la sua protesta sarebbe stata esagerata.
Simone era tutto ciò che Venera odiava in un ragazzo: infantile, arrogante e borioso.
«Forse dovremmo fermarli?» mi domandò Leonardo preoccupato.
Una piccola folla si era radunata vicino alla vetrina del negozio, più che altro attirata dalla presenza dei due calciatori. Dovevo ammettere che, a differenza dell’Italia, lì a Londra non venivi assalito da fans inferociti che ti chiedevano per forza una foto o l’autografo.
Erano molto rispettosi dell’altrui privacy.
«Non so se sia il caso di lasciarli sfogare…» ammisi, vedendo che persino Robbeo si stava allontanando da Ven-il-vulcano-pronto-ad-esplodere.
Strinsi con tenacia la mano di Leonardo e forse, pensai, avremmo dovuto approfittare di quel momento di distrazione, per ritagliarci qualche momento solo tra noi.
Cercai il suo sguardo e quelle iridi color smeraldo s’infransero subito con le mie. «Che ne dici se…?» proposi, facendogli cenno con la testa di filarcela.
C’era una folla sufficiente a nascondere il nostro tentativo di fuga, mentre le urla di Venera e di Simone si riuscivano ad udire persino ad Oxford Circus.
«Se sei così bravo, per quale motivo hai perso contro quel babbeo di tuo cugino, eh?» gli urlò addosso, finendo per umiliarlo per bene.
Sorrisi.
Venera non era capace di relazionarsi. Tendeva sempre a vedere il peggio di una persona senza mai focalizzarsi sui pregi. Per entrare nelle sue grazie, avresti dovuto insistere, spingere, senza mai piegarti a ciò che le sue parole erano in grado di fare.
Sì, perché spesso e volentieri ti feriva senza che nemmeno ne avesse l’intenzione.
Era fatta così e non sarebbe mai riuscita a cambiare. Se volevi averla come amica, dovevi necessariamente prenderti tutto il pacchetto. E così avevo fatto io.
«Dove vuoi andare?» mi domandò Leonardo, continuando a camminare velocemente. Le voci dei nostri amici si affievolirono alle nostre spalle, ed io non mi voltai.
C’erano cose che andavano chiarite, magari col tempo. Sentivo il bisogno di stare da sola con Leonardo, di conoscerlo come realmente era.
Dovevo recuperare il tempo che avevo perso dietro ad una persona che non era quella di cui mi ero innamorata. O almeno era quello che avevo fino ad ora creduto.
Era come se quel nome facesse la differenza, come se mi confondesse.
 
Quella che noi chiamiamo rosa, senza il suo nome
avrebbe pur sempre il suo dolce profumo.
Non cambia l'essenza,
tuttavia identifica, caratterizza, distingue.
 
Mi ero illusa pensando che dietro a “Ruben” si nascondesse una persona totalmente diversa da Leonardo, quando invece quel nome gli era servito soltanto come barriera dietro cui proteggersi.
«Vieni con me,» gli dissi, imboccando l’entrata della Tube a Piccadilly Circus.
Ci sarebbe voluto del tempo perché facessi ordine nel mio cuore, affinché riuscissi di nuovo a fidarmi di lui, ma adesso la prospettiva era differente. Cercavo sempre più di immedesimarmi nel suo modo di pensare, nelle scelte che lo avevano obbligato a comportarsi così.
Cosa avrei fatto io se i ruoli si fossero invertiti?
Comprammo due biglietti e salimmo sul primo treno che passava. Qualunque fermata sarebbe andata bene, perché il mio unico obiettivo era rimanere sola con lui, recuperare quello per cui valeva la pena lottare in quel momento.
Leonardo si sentiva spaesato.
Lo fissai di sottecchi e sorrisi, notando come guardava con circospezione i sedili della metropolitana. Lui che non era abituato a prendere i mezzi pubblici, sembrava un pesce fuor d’acqua. Un cucciolo impaurito abbandonato per la strada.
Cercai il suo sguardo e lo invitai a sedermi accanto.
C’era complicità anche nei nostri occhi, senza alcuna parola. Anche se percepivo ancora una barriera tra di noi, era innegabile il legame che si era instaurato tra di noi.
Leonardo si sedette e mi fissò mortificato.
«Che c’è?» gli chiesi comprensiva.
Lui alzò gli occhi su di me e mi tolse un battito. «Mi dispiace, è che non sono abituato a tutto questo,» sospirò. «Questa normalità non fa per me.»
Sorrisi comprensiva e gli presi una mano tra le mie, stringendola forte. Era normale che in tutta la sua vita non avesse mai preso un autobus oppure la metropolitana, lui che era abituato a girare sulla sua Ducati o sulle macchine sportive.
«Non fa niente,» lo rassicurai.
Come lui avrebbe capito il mio mondo, io mi sarei abituata a comprendere il suo. Sarebbe stato uno scambio equo, un reciproco passo che ci avrebbe avvicinati.
Leo però sfilò la mano gentilmente, sbuffando. «Ti capisco, sai…» soffiò.
«Cosa?» chiesi confusa.
Prese un bel respiro, poi tornò a guardarmi. «Capisco di non essere l’ideale per te, di non poter mai riuscire a comportarmi da persona normale. Ci proverò, lo prometto, ma tutto questo è troppo.»
La gente intorno a noi lo fissava incuriosita. Era ovvio che l’avessero riconosciuto, anche se non capivano ciò che stavamo dicendo. Rispettarono la nostra privacy e questo era già tanto per me.
Il problema sarebbe stato una volta tornati in Italia.
«Non ti sto chiedendo di cambiare per me, Leonardo.» dissi tranquilla, prendendogli il mento tra le mani e cercando i suoi occhi senza che riuscisse ad abbassarli e sfuggirmi. Era strano vederlo così provato, così indifeso e per nulla arrogante.
Forse Ruben era un modo per proteggersi dalla realtà, per schermarsi dietro una persona che non era nemmeno lontanamente vicino a sé stesso.
Leonardo non era altro che un ragazzo solo, cresciuto troppo in fretta e sulle cui spalle erano stati posti dei pesi e delle responsabilità troppo grandi per lui.
I suoi occhi verdi si sgranarono all’improvviso.
Rimasi perplessa da quella sua reazione e non sapendo cosa fare, gli sorrisi. «Che c’è?»
Lui schiuse le labbra e le umettò imbarazzato. «Dillo di nuovo,» soffiò.
Mi presi un po’ di tempo per elaborare cosa intendesse dire, poi compresi. Era forse una delle prime volte che lo chiamavo per nome, con il suo vero nome.
Presi il labbro inferiore tra i denti, torturandolo. Quel momento tra di noi mi parve così intimo che per un attimo mi pentii di essere in mezzo a tutta quella gente.
Mi avvicinai lentamente a lui e gli soffiai nell’orecchio. «Leonardo
Lo sentii quasi tremare nelle mie mani e il mio cuore cominciò a battere freneticamente all’interno del petto, quasi a ricordarmi quali fossero le emozioni che inevitabilmente mi avevano legata a lui.
Leonardo era sempre stato impulsivo, genuino, una continua sorpresa per me. E così era rimasto, sia che si chiamasse Ruben o altro.
Si voltò quel tanto da far avvicinare i nostri volti. Sentivo il suo respiro caldo sulle mie labbra e mi arresi alla forza con cui il suo sguardo mi scavava dentro.
Ben presto la distanza fu annullata, e ci baciammo incuranti degli sguardi della gente. Non m’importava più del resto del mondo, non m’importava nemmeno di ciò che sarebbe stato il mio futuro.
In quel momento pensai solamente a quanto potesse essere buono il suo sapore, l’odore della sua pelle che non riuscivo a dimenticare.
Schiusi le labbra e lo lasciai entrare, approfondendo il bacio, mentre feci passare le dita tra i suoi morbidi capelli castani, saggiandone la consistenza e inebriandomi di quelle sensazioni genuine che avevo quasi dimenticato.
Anche se era strano ammetterlo, Leonardo riusciva a completarmi. Lui era quella metà del mio carattere che non sarei mai riuscita a completare. Eravamo come due pezzi di un puzzle che si incastravano alla perfezione e per quante scatole tu riuscissi a comprare, ne esistevano soltanto due ritagli che sarebbero combaciati alla perfezione.
Ci staccammo per poi sorridere come dei ragazzini, fronte contro fronte.
La voce metallica annunciò la nostra fermata, così ci alzammo e uscimmo dal treno per poi dirigerci verso l’insegna “exit”.
Mano nella mano, ci sfiorammo quasi fossimo esseri inconsistenti che non riuscivano a raggiungersi, poi finalmente vedemmo la luce del giorno in quella giornata fredda d’Aprile.
 
***
 
Sentire Celeste finalmente così vicina, mi fece dimenticare persino dove fossi. Prima di quel momento, c’era stato soltanto il nervosismo provocato dalla partita e da quel cretino di mio cugino. Adesso finalmente potevo rilassarmi e godermi tutto il tempo che avevo a disposizione con lei.
Ora che finalmente avevamo vinto la partita. Ora che tutto il mondo era orgoglioso di noi, della squadra, della forza con cui ci eravamo rialzati e avevamo fatto fronte ad uno dei club più importanti d’Europa.
E tutto grazie a Celeste.
Anche se non lo avrei mai ammesso, nemmeno sotto tortura, lei era la fonte da cui attingevo tutta la mia forza e la mia tenacia. Prima ero spinto soltanto dall’ingordigia, dalla fama, dall’essere qualcosa di più soltanto per soddisfare il mio ego.
Adesso sapevo che lo stavo facendo unicamente perché me lo aveva chiesto lei.
Il sacrificio è la forza che ci fa crescere.
Ed io finalmente potevo dire di essere cresciuto, maturato, di aver imparato dai miei sbagli e di essere finalmente un’altra persona. Non avevo più bisogno di Ruben per stare accanto a Celeste, ora potevo essere Leonardo e non vergognarmi di aver scelto una sola ragazza a cui dedicarmi.
Prima c’era stata soltanto la fama, il sesso e il divertimento.
Ora ero stufo di lasciarmi consumare a poco a poco senza fare nulla, senza nemmeno reagire.
«Che ne dici di un bel caffè da Starbucks?» mi propose, sorridendo anche solo con gli occhi.
Il suo buonumore era contagioso e mi lasciai irradiare da quel sorriso che riusciva persino a scaldarmi in quella giornata gelida.
«Perfetto,» dissi, passandole un braccio attorno alle spalle e avvicinandola a me.
C’erano cose che non sarei mai riuscito ad esprimere a parole. Non ero bravo con quelle, anche perché Celeste era la scrittrice, io mi limitavo unicamente a rincorrere un pallone. Fortunatamente riuscivo ancora a dimostrarglielo coi gesti.
«Vieni,» mi disse, trascinandomi dall’altro lato della strada per entrare all’interno del coffe-bar.
Dovevo ammettere che Londra era un posto piuttosto carino in cui abitare, ma non l’avrei mai sostituita con la mia Roma. Pensai che per Simone fosse diverso, in fondo lui aveva la mamma inglese e si era trasferito qui quando era piccolo.
Stai davvero analizzando quella zucca vuota di tuo cugino?
Scossi visibilmente la testa per ignorare quel pensiero. Simone non si meritava nemmeno la mia considerazione, figuriamoci i pensieri che di rado partoriva la mia mente.
«What will you have to drink?» chiesero alla cassa.
Fissai la commessa con un’espressione vacua, anche perché ricordavo vagamente qualche parola dal liceo. Il resto era soltanto vuoto.
Celeste per fortuna intervenne. «Two cappuccino with whipped cream,» sorrise, poi tirò fuori il portafogli ma la bloccai.
«Sono il tuo ragazzo, fino a prova contraria,» dissi sicuro.
Gli occhi di lei si abbassarono per una frazione di secondo e lì il mio animo si rabbuiò.
«Va bene,» disse, poi mi sorrise di nuovo.
Che avessi detto qualcosa di sbagliato? Forse le dava fastidio il fatto che guadagnassi di più e che magari non voleva che le offrissi da bere…
O magari non si tratta di soldi.
Quel pensiero mi trafisse come una freccia. Cercai di rimanere impassibile e pagai, poi ci dirigemmo al bancone per ritirare i nostri due cappuccini.
Era davvero buono e cremoso.
Lo assaporai finché era caldo, in modo che il latte e la crema scendesse giù per l’esofago, fino allo stomaco e avvolgesse le mie membra in un caldo tepore. Celeste mi fissò sorridendo.
«Che c’è?» le chiesi dubbioso.
Lei si avvicinò titubante, allungando una mano verso il mio viso. La lasciai fare perché non ero ancora sicuro di ciò che avevo visto poco prima. Mi era sembrata confusa, ancora incerta su quello che c’era tra di noi.
La sua mano si aprì a coppa sulla mia guancia, mentre il pollice tirava via un po’ di schiuma che mi era rimasta sulle labbra. «Sei proprio un bambino,» sorrise sincera.
A quel punto non seppi più fermarmi. Mi sporsi al di là del tavolinetto e la baciai. Anche se c’erano tante cose irrisolte tra di noi, troppi silenzi e gesti che andavano sostituiti dalle parole, in quel momento mi parve la cosa più giusta da fare.
Celeste rimase inizialmente sorpresa, ma non si scostò.
Fu una casta unione di labbra, nulla a che vedere con il bacio nella metropolitana. Era più una dimostrazione d’affetto, una prova della mia incapacità di starle distante più di tre minuti.
Ci staccammo fissandoci imbarazzati l’uno con l’altra, mentre il mormorio all’interno del caffè si era smorzato. Magari era vero che mi avevano riconosciuto, in fondo ero pur sempre Leonardo Sogno, uno dei calciatori in lizza per il Pallone d’Oro.
In quell’occasione, per la prima volta in tutta la mia esistenza, mi sentii in imbarazzo sotto quegli sguardi. Non mi era mai successo prima, anzi. Ero io stesso che cercavo di mettermi al centro dell’attenzione, a creare scandalo per far parlare sempre più di me.
Adesso invece era come se mi sentissi spiato, quasi come se dovessi proteggere Celeste dagli sguardi indiscreti del mondo che me la volevano portare via.
Che volevano rubare quell’attimo soltanto nostro.
«Ora sei sporca anche tu,» sorrisi, indicandole il lato del labbro che avevo appena baciato.
Lei sussultò sorpresa afferrando un tovagliolo e pulendosi, poi mi guardò più felice. Sapevo di doverle dare ancora molte spiegazioni, di dover riparare ad errori che non avrei potuto farmi perdonare nemmeno dopo una vita intera.
«Andiamo?» proposi, dopo che avevamo finito di consumare la bevanda.
Ci alzammo, imbacuccandoci per bene a causa del freddo rigido di quel giorno, e uscimmo in strada, passeggiando l’uno accanto all’altra.
Il telefono di Celeste all’improvviso squillò ed io pensai immediatamente che si trattasse di uno dei suoi amici che avevamo lasciato indietro.
«Pronto?» disse. «Sì, stiamo bene. Siamo andati per conto nostro. Torniamo verso l’ora di cena, certo. In albergo, okay,» poi chiuse la chiamata.
Rimise il telefono nella tasca del cappotto, poi infilò la sua mano nella mia.
Gliela strinsi, cominciando a strusciarci il pollice sopra perché era gelata. Lei mi sorrise e continuammo a camminare vicino le sponde del Tamigi.
«Sai, era da un po’ che volevo chiederti una cosa…» disse lei, facendomi scorrere un brivido dietro la schiena.
Pensai subito al peggio, magari riferito proprio a quella reazione che aveva avuto poco prima. Era soltanto la quiete prima della tempesta. Mi irrigidii all’istante.
«C-Certo…» bofonchiai.
Lei mi fissò dubbiosa. «Sembra tu sia parecchio nervoso, o sbaglio?» mi domandò sorridendo.
«No, cosa te lo fa credere?» dissi, fingendo indifferenza.
Celeste abbassò lo sguardo. «Mi stai stritolando la mano, ecco cosa me lo fa credere,» ridacchiò.
Senza rendermene conto, mollai la presa e mi grattai la nuca imbarazzato. Era strano come sudassi freddo. Celeste mi rendeva nervoso neanche fosse il nostro primo appuntamento.
«Mi piace,» aggiunse poi. «Si vede che non sei più il Ruben dei primi giorni che ci siamo conosciuti. Adesso sei molto più normale. Un ragazzo comune,» affermò.
Sorrisi.
Leonardo Sogno e “normale” non erano due parole che erano mai andate d’accordo, considerando il mio passato. C’erano stati momenti in cui avrei dato tutto pur di mettere la mia carriera al primo posto, sarei passato anche sul nostro stesso Capitano.
Il mio sogno era sfondare, diventare famoso, prendere tutto ciò che la vita aveva da offrirmi.
Ora come ora mi pareva così futile tutto quello.
Celeste mi aveva insegnato che c’era dell’altro dietro, che potevo aspirare a di meglio. Avevo ventidue anni e la mia carriera sarebbe finita attorno ai trentacinque, circa. E dopo? Non mi ero mai posto il problema di quello. Non mi era mai minimamente passato per la testa.
Per me aveva sempre contato il presente, vivere attimo per attimo.
Il futuro era soltanto il domani, il giorno successivo e nient’altro. Invece Cel aveva progetti ben precisi, aveva organizzato la sua vita passo dopo passo, senza tralasciare nulla.
«Grazie a te,» le dissi sincero.
Camminammo per qualche altro metro, poi vidi in lontananza l’imponente ponte di ferro. Il Millennium Bridge svettava come un drago d’acciaio adagiato sulle sponde del fiume, con la cresta dorsale fatta di persone che camminavano frettolose giungendo da una parte all’altra del Tamigi.
«Sai, mi chiedevo chi avesse spedito i biglietti che ci hanno permesso di venire qui per la partita,» mi chiese lei, spiazzandomi.
Biglietti? In effetti, non mi ero posto il problema di come fossero giunti a Londra con così poco preavviso.
«N-Non so di cosa stai parlando,» ammisi guardandola. Sperai che quello fu sufficiente a farmi credere, visto il mio passato non proprio sincero.
Celeste mi scrutò a fondo. Voleva vedere se realmente le stessi mentendo oppure se fosse unicamente l’ennesima sceneggiata che mettevo in atto.
Le presi le mani e la guardai. «Lo giuro. Non ti avrei mai costretta a venire qui.»
Lei si spostò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, poi fissò le nostre mani intrecciate. «Nessuno mi ha costretta a venire,» ammise. «Dentro di me sapevo che se fossi venuta qui, c’era un’alta probabilità di incontrarti… eppure non ho saputo oppormi,» confessò.
Continuammo a camminare in silenzio, l’uno di fianco all’altra.
Avremmo dovuto prenderci del tempo per riuscire a tornare come prima. C’era ancora troppa tensione che aleggiava attorno a noi, come se le bugie fossero ancora nuvole di fumo che ci impedivano di vedere.
Le dita mi si strinsero contro il freddo metallo di quel ponte, così anonimo da succhiarmi via tutto il calore dal corpo. Il sole lentamente scendeva all’orizzonte, tingendo di rosa e di azzurro quel timido spruzzo di giorno che ancora s’intravedeva attraverso l’incombere della notte.
Mi voltai verso Celeste, incrociando il suo profilo illuminato dell’ultimo raggio d’oro di quella giornata d’Aprile.
Era bellissima, quasi come se la stessi sognando. Avvolta in un’aura confusa, in un bagliore che di rado sembrava reale.
Forse mi innamorai di lei ancora più di prima.
Realizzai che ormai ero fregato e c’era ben poco da fare per riuscire a migliorare le cose. Che avessimo avuto occasione per chiarirci oppure no, questo non avrebbe mai cambiato cosa lei era stata in grado di farmi.
Mi aveva scottato, bruciato, marchiato. Ed era rimasta la cicatrice, ora più visibile che mai.
 
***
 
La luce che a poco a poco abbandonava la città mi fece sentire come io stessa fossi andata via. Mi lasciai andare a quel senso di abbandono, sentendomi sempre più piccola e confusa.
D’improvviso mi mancò l’aria e cercai un contatto con Leonardo. Scoprii che mi stava fissando. I suoi occhi verdi avevano assunto la tonalità dell’oro, riempiendosi di pagliuzze colorate che lo facevano brillare ancor più di quanto non facesse di solito.
La magia di quel momento s’impresse nella mia memoria quasi come una fotografia, stampata e conservata in un vecchio album di ricordi.
Cercai la sua mano e la strinsi di nuovo.
Era curioso come cercassi sempre un contatto con lui, un modo per suggerire alla mia mente che fosse realmente tangibile e non un semplice sogno.
Sentivo di dover ancora colmare quella curiosità riguardante i biglietti dell’aereo e la prenotazione che era stata fatta a nome nostro, ma gli occhi di Leonardo mi avevano parlato e ci avevo visto soltanto la sincerità.
Mi fidavo di lui, adesso.
Pian piano mi sarei abituata a concedergli di più, un passo alla volta. Se dovevamo concederci una seconda occasione, allora avrei fatto le cose per bene. Senza risparmiarmi.
«Sai,» disse lui, interrompendo quel silenzio surreale che si era creato su quel ponte. «Non avrei mai creduto di ritrovarmi di nuovo su questo ponte.»
Di nuovo?
Lo fissai interrogativa e lui mi sorrise.
«Venivo ogni Natale qui a Londra, in modo che potessi passarlo insieme a quel deficiente di mio cugino, Gabriele e Sofi,» soffiò. «Un modo per riunire la famiglia, visto che vivevamo così distanti durante il resto dell’anno.»
Era strano come riuscisse a parlare così liberamente pur sapendo che mi stava raccontando una parte importante della sua vita. Lui che non era riuscito ad aprirsi nemmeno quando fingeva di essere qualcun altro.
«Venivi qui con la tua famiglia?» gli domandai.
Lui sorrise e scosse la testa. «Con Ruben,» disse ed io sussultai a quel nome. Era ancora difficile per me collegarlo al suo amico rachitico, quella specie di talpa con gli occhiali.
Leonardo si accorse del mio cambio di espressione. Diede un calcio stizzito ad un sassolino che rotolò giù dal ponte.
Poi lo sentii sbuffare contrariato.
«Mi dispiace,» disse sincero, senza alzare lo sguardo. Era in quei momenti che riuscivo a capire quanto davvero fosse dispiaciuto di avermi mentito.
Gli posai una mano sul braccio. «È tutto apposto,» lo incitai.
Lui mi sorrise, poi tornò a guardare davanti a sé. «Beh, niente. Venivamo qui io e Ruben e facevamo i piani sul nostro futuro. Di come saremmo diventati a vent’anni e tutte quelle robe lì da ragazzini,» sorrise.
«Non sono robe da ragazzini,» lo ammonii, pizzicandogli un fianco. Lui si dimenò e mi sorrise. «Sono i sogni che formano il carattere di quando poi diventiamo adulti,» gli spiegai. «Spesso e volentieri sono questi desideri che ci fanno andare avanti e ci rendono quello che siamo.»
A quel punto la sua mano si posò dietro la mia nuca e, senza alcuno sforzo, mi strinse a sé. Affondai il viso nel suo cappotto, beandomi del calore di quell’abbraccio. Mi era mancato tremendamente, ma ancora non riuscivo ad ammetterlo ad alta voce.
Mi era mancato il suo profumo, il modo in cui mi sorrideva e quei gesti impulsivi che spesso e volentieri mi spiazzavano.
«Il tuo sogno è quello di scrivere un libro?» mi chiese, lasciandomi senza fiato.
«Ci vorrei provare,» dissi, senza aggiungere “ci sto già provando”.
Da quando avevo scoperto la verità su Leonardo, il documento Word era rimasto in un archivio abbandonato della memoria del PC e non ci avevo più rimesso mano. Eppure, nei momenti di forte trasporto emozionale, avevo cominciato ad imprimere i miei pensieri su carta, perché era quasi impossibile fermarli.
Scrivere era la mia unica fonte di liberazione, oltre che Ven.
Sentii le mani di Leonardo accarezzarmi delicatamente i capelli e lo strinsi sempre più forte, circondandogli la vita con le braccia.
«Credo di non essermi mai sentito così,» soffiò lui, baciandomi il capo.
Alzai lo sguardo e incontrai i suoi occhi, così verdi da far male. «Così?» chiesi confusa.
«Bene,» aggiunse lui, poi ridacchiò. «Non so spiegarmi bene con le parole, in fondo sono pur sempre un “troglodita”.»
Spalancai gli occhi, sentendo un’immensa felicità scoppiarmi nel cuore. «L’hai detto giusto,» mormorai.
Lui mi fissò confuso. «Che?»
«Troglodita, è giusto. Niente trogo-che o trogo-qualcosa. L’hai pronunciato giusto,» realizzai, sciogliendo l’abbraccio.
Il ricordo di quei momenti insieme mi colpì forte, nel profondo e mi sentii improvvisamente persa. Non avevo mai realizzato a fondo quanto Leonardo mi fosse mancato, quanto avevo rischiato di sacrificare a causa del mio orgoglio.
«Alla fine sei riuscita ad insegnarmi qualcosa,» sbuffò lui.
«Ti amo,» dissi, senza nemmeno realizzare quello che era uscito veramente dalle mie labbra. Sentivo il battito del mio cuore tamburellarmi nelle orecchie, offuscando tutti gli altri suoni e svuotandomi la testa di tutti i pensieri.
Sentii Leonardo irrigidirsi e subito pensai di aver fatto la cazzata più colossale della storia.
Brava Celeste, complimenti. Il modo più sicuro per farlo scappare era questo, e tu ci sei riuscita in pieno.
Deglutii a fatica, senza riuscire a scollare delle parole di scuse dal palato. Rimanevano lì, incastrate, senza riuscire a districarsi. Non era mai capitato che lo dicessi a qualcuno. Nella mia vita avevo avuto diverse delusioni amorose, ma era davvero raro che dicessi quelle parole.
Fu allora che Leonardo, allarmato, mi afferrò per le spalle, fissandomi negli occhi con lo sguardo sgranato. «Cosa hai detto?» mi chiese, quasi urlando.
Rimasi allibita da quel comportamento. Che avessi fatto un errore? Che si fosse arrabbiato? In fondo, dopo tutto quello che gli avevo fatto me ne uscivo con una frase del genere.
Con LA frase.
«S-Scusa,» bofonchiai, senza avere il coraggio di ripeterlo.
Leonardo allora si accorse di aver esagerato, così si ricompose. Posando una mano dietro la nuca, si agitò. «Sei sicura di quello che hai detto?» mi chiese, titubante.
Stavolta fu il mio turno di guardarlo in modo confuso.
«Sei sicura di amarmi?» continuò poi, spiegandosi meglio. «Voglio dire, so di essere quello che sono, ormai ti ho dimostrato in più di un’occasione il mio livello di immaturità.»
Era nervoso. Lo percepivo nell’alto livello di tremolio della sua voce.
Quel suo tentativo di spiegarsi, mi fece tremare il cuore.
«Dico solo che sei ancora in tempo per cercarti qualcun altro, magari qualcuno che non sia un deficiente come il sottoscritto, che non abbia una vita incasinata come la mia. Possibilmente, il cui nome non sia scritto su tutti i giornali della Domenica,» sospirò, accasciandosi contro la ringhiera. «Qualcuno che ti dica sempre la verità e che non si nasconda dietro qualcun altro,» ammise infine.
Gli sfiorai delicatamente una spalla per paura che potesse andarsene. Era così sottile il filo che adesso ci univa. Arrivati a quel punto, l’elastico poteva tornare indietro e riunirci, rafforzandosi, oppure spezzarsi definitivamente.
Eravamo arrivati ad un bivio.
«Credo che questa scelta l’avessi già fatta tempo fa, inconsapevolmente,» gli confessai.
Lui si voltò quel tanto da guardarmi con la coda dell’occhio. Bagliori di verde attraverso quelle ciglia scure.
«Non credo di essere adatto a fare il fidanzato,» sputò fuori con rabbia.
«Nessuno è nato per farlo, come nessuno nasce per essere un calciatore, un negoziante, oppure un genitore. Si impara a farlo, ad esserlo, col tempo,» spiegai.
Rimanemmo a guardare l’orizzonte finché l’ultimo spicchio di sole non scomparve dietro gli alti palazzi della City.
«Dovrei imparare a farmi amare da te?» mi chiese confuso.
Scossi la testa sorridendo. «È inutile che fingi di fare l’ingenuo,» dissi spiazzandolo. «Per quanto tu voglia far credere agli altri di essere uno sportivo senza cervello, lo so che qui sotto della materia grigia è rimasta,» dissi, picchiettandogli il capo.
«Ahi!» si lamentò lui, massaggiandosi la cute.
«Sei proprio un bambino!» ridacchiai, sporgendomi per baciargli una guancia.
Rimanemmo a fissarci mentre la notte sostituiva pian piano il giorno, con la gente che camminava frettolosa e il mondo che continuava a girare in quell’attimo.
«Sicura che ne valga la pena?» mi chiese di nuovo, incorniciandomi il viso con le mani.
Annuii senza pensarci due volte.
«So che dobbiamo chiarire ancora molti punti,» spiegai, giocando coi lacci della sua felpa. «Che tornare a quelli di un tempo sarà molto difficile, ma possiamo provarci. Sei molto cambiato da quando ti ho conosciuto, e non penso che c’entri qualcosa il chiamarsi Ruben o Leonardo,» dissi sicura.
Allora mi baciò di nuovo, stavolta senza alcuna riserva.
Mi alzai in punta di piedi e gli circondai le spalle con le braccia, affondando le dita fredde nei suo capelli. Lo sentii rabbrividire e sorridere contro le mie labbra.
«Sei fredda,» soffiò dolcemente sulla bocca, tornando a torturarla e vezzeggiarla.
«Tu no, invece,» gli risposi, affondando le mani nel cappotto e cercando un pezzo di pelle nuda per farlo contorcere dai brividi.
«Smettila!» ridacchiò come un bambino, mentre cominciammo a correre lungo il Millennium Bridge come se avessimo cinque anni o giù di lì.
Leonardo si fermò prima di scendere le scale che avrebbero condotto sull’altra sponda del Tamigi. Mi guardò e mi tese la mano.
Non mi tirai indietro e la avvolsi nella mia, senza pensarci.
«Sai, io non sono molto bravo con le parole…» soffiò imbarazzato, cominciando a camminare.
Mi strinsi forte a lui, cingendogli il braccio quasi fosse un enorme orso di peluche. «Lo so,» dissi enigmatica. «Ho capito quello che vuoi dirmi. La risposta è “anch’io”»
Poi ci allontanammo mentre la notte avvolgeva in una calda coperta scura la capitale inglese. Ci sarebbe stato altro tempo per affrontare il discorso, per chiarirsi ancora di più. Alla fine le parole era più che superflue ormai.
Leonardo si era scusato, aveva persino pensato che meritassi qualcuno di meglio perché si sentiva inadeguato. Cos’altro potevo pretendere da lui? Quando lo avevo conosciuto era il classico tipo egoista che pensava soltanto a sé stesso, senza curarsi degli altri.
Nessuno aveva affrontato un cambiamento di questo tipo per me. Ed io non potevo che esserne orgogliosa.
 
***
 
Una volta tornati in hotel, la notte era scesa completamente e trovammo il resto del nostro gruppo spaparanzato sui divanetti della hall.
C’era anche gran parte della mia squadra.
«Ehi bello, fatto la passeggiata?» ammiccò Marco, ridacchiando insieme a Daniele.
Era ovvio che mi stessero paragonando ad un cane. Strinsi forte la mano di Celeste e per la prima volta me ne sbattei.
«Ho fatto anche una bella pisciata, sulla macchina qui fuori,» ghignai.
Borriello era solito portarsi dietro la sua Corvette un po’ ovunque, compreso lì a Londra. Mi pareva più che giusto prendermi una piccola vendetta.
«Spero tu stia scherzando,» sibilò contrariato.
Sorrisi e cercai lo sguardo di Celeste che approvò quello scherzo in silenzio. Tra la folla seduta su quei divanetti, fui lieto di non scorgere la fastidiosa presenza di mio cugino Simone.
Riuscimmo a trovare due posti a sedere, proprio accanto ai miei compagni di squadra.
Notai che Robbeo stava tenendo banco e tutti i giocatori pendevano dalle sue labbra.
«È importante mantenere il possesso del pallone. Se gli avversari non riescono a portarvi via palla, non avranno occasione di fare goal. Il segreto è tutto nel possesso, nel non sprecare i palloni in inutili rimesse dal fondo.»
«Sai, ‘sto prospero non ha cattive idee,» mormorò Daniele, indicando il Rosso.
«Ovviamente, peccato non usi il 100% delle sue capacità intellettive,» osservò Annalisa piccata.
Romeo le lanciò uno sguardo interrogativo e lei gli arruffò i capelli per dispetto.
Era ancora strano vedere Annalisa così spensierata. Io che la conoscevo da tempo, mi sentivo strano nel saperla così genuinamente felice. Non era più la ragazza superficiale e viziata che voleva a tutti i costi essere la mia fidanzata, non era la stessa Annalisa che voleva strapparmi dalle mani di Celeste per avermi tutto per sé. Soltanto per la popolarità.
Quella che avevo davanti, era una ragazza reale. Un tipo di persona che avrei preso sicuramente in considerazione se si fosse mostrata così anche prima.
Celeste posò il capo sulla mia spalla.
«Penso di non riconoscerla più,» mi soffiò nell’orecchio, attenta a non farsi udire dagli altri. Le sorrisi perché stavamo pensando la medesima cosa nello stesso momento.
«Sembra proprio che anche lei si sia tolta finalmente la maschera.»
Annuì contro il mio petto. «Credo che Jean abbia fatto un favore a tutti.»
«Non me lo nominare…» ringhiai frustrato. «Quella specie di viscida lumaca non merita di vivere.»
Sentivo ancora il brivido di quegli occhi azzurrissimi su di me e quel ricordo mi fece accapponare la pelle. Era stato lui la causa di tutto, dei miei problemi, dell’allontanamento da Celeste, avevo quasi rischiato di mandare al diavolo la mia carriera per lui.
Ma sentii ancora una volta la stretta di lei attorno al mio braccio.
Un’ancora che mi riportava sempre alla realtà.
«Adesso è finita. Jean non si è comportato bene, lo ammetto. Ma tutto ciò non sarebbe successo se mi avessi detto prima la verità,» sussurrò lei, guardandomi seria.
Aveva ragione. Potevo dare mille volte la colpa al Lumacone francese, ma alla fine avevo fatto tutto da solo. Era stata la mia codardia, il mio bisogno di aggrapparmi a qualcosa, anche ad un’identità fittizia, per sfuggire alla paura.
Sì. Perché alla fine era stata la paura di una relazione a farmi mentire.
«È stata colpa mia sin dall’inizio,» ammisi, più a me stesso che a Celeste.
«Oh! Che noia questo calcio!» borbottò subito Venera, imponendosi sulla conversazione che ormai stava prendendo soltanto una piega. «Possiamo cambiare argomento o giuro che impazzisco se sento un’altra volta di “cross” o “dribbling”!»
Tutti ci voltammo a fissarla all’unisono, allibiti.
Celeste scoppiò a ridere subito dopo, così come Daniele e Marco.
L’unico che non ci trovava nulla di divertente era Robbeo. Aveva incrociato le braccia al petto e fissava l’amica di Cel come se volesse incenerirla.
«Buonasera, ragazzi!»
D’improvviso la voce di Mr. Cavalli ruppe quel clima d’ilarità e leggerezza che si era creato in quella hall anonima di un albergo. Il padre di Annalisa piombò alle nostre spalle quasi come un avvoltoio.
«Buonasera, Mr. Cavalli.»
«’Sera.»
«Salve…»
«È un vero piacere vederla.»
Pressoché queste furono le frasi di rito che tutti gli rivolgemmo, quando l’uomo canuto si avvicinò alle poltroncine.
«Non voglio rubarvi molto tempo, tranquilli,» iniziò, incrociando le mani davanti a sé e fissandoci negli occhi. Non avevamo mai avuto occasione di conoscere il presidente così da vicino, ma quella sera sembrava ben intenzionato a farci una sorta di discorso alla “Ogni maledetta Domenica”.
«Volevo solo farvi i complimenti per questa sera, per la vittoria, per aver regalato alla società una marcia in più in Europa. Complimenti davvero,» sorrise, scambiando sguardi con ognuno dei suoi giocatori. Poi i suoi occhi verdi incrociarono i miei e mi sembrò come di rimanere senza fiato.
Celeste mi strinse forte la mano.
«Leonardo, c’è una cosa di cui dovremmo discutere una volta tornati a Roma. Non ti spaventare, ma penso che troverai la notizia interessante,» sorrise.
Mi gelai come una statua di ghiaccio.
Il presidente della società si chinò a baciare la figlia, stringendole forte la mano e accarezzandole quei capelli così rossi da sembrare fiamme danzanti. In seguito notò anche Romeo e vide come il braccio di lui era attorno alla vita della ragazza.
D’improvviso pensai che Celeste si sarebbe ritrovata con un migliore amico decapitato – un po’ fuori luogo visto che non era Halloween – ma Mr. Cavalli si limitò a tendergli la mano.
Il Rosso la strinse titubante.
«Sono felice di averti conosciuto,» disse, poi si allontanò tranquillo e silenzioso.
Ci guardammo tutti piuttosto perplessi, mentre Annalisa tentava in tutti i modi di scongelare Robbeo che era rimasto nell’identica posizione con cui aveva stretto la mano al presidente.
«Non posso crederci… Ho stretto la mano all’uomo che stimo da una vita… non me la laverò mai più…» continuava a ripetere, come in trance.
«Ma smettila di fare il cretino!» sibilò Venera, mollandogli uno scappellotto.
«Ehi! Non toccarlo, stupida gallina!» le ringhiò contro Annalisa, portandoselo dietro le spalle quasi come avrebbe fatto mamma leonessa con i suoi cuccioli.
Quello fu il segnale che fece alzare il resto della squadra.
Daniele e Marco mi si avvicinarono. «Insomma ci sono grandi notizie in arrivo, eh?»
«Sembra di sì,» commentai, senza allegria nella voce.
Davvero, non sapevo cosa aspettarmi e da quando mi ero ricongiunto con Celeste, l’idea di qualche sorpresa dalla società non mi allettava più di tanto.
«Non sembri contento,» notò Daniele.
«Già, a quest’ora avresti fatto mille supposizioni e ti saresti vantato di lasciare finalmente la nostra squadra di perdenti,» aggiunse Marco.
Celeste mi fissò allibita.
«Ops!» mormorarono in coro i miei amichevoli compagni di squadra.
«Diciamo che non so cosa aspettarmi,» mormorai, abbracciando la mia neo-fidanzata. Ancora non credevo di poterla chiamare realmente così.
Marco allora le allungò la mano. «Finalmente ci conosciamo,» sorrise.
Daniele lo imitò subito dopo. «Era ora che Leonardo ci presentasse colei che lo ha fatto finalmente scendere dal piedistallo,» ridacchiò.
«Devo ammettere che è stato difficile,» sorrise, pizzicandomi un fianco. «Ha davvero un ego enorme.»
«E non solo quello!» mi vantai, sfruttando sempre i doppi sensi.
Tutti mi fissarono annichiliti. «Sei sempre il solito,» commentò Cel acida.
«Che ne dite di andare in qualche pub? Finiamo la serata in bellezza visto che domani si parte,» propose Marco, mentre Daniele era andato ad avvertire il resto del gruppo.
Cercai Celeste per una conferma. Mi sembrava poco propensa ad uscire.
«Magari vi raggiungiamo,» proposi. «Credo che la camminata ci abbia sfiancato.»
Dopo poco arrivò anche Venera. «Voi non venite? Devo ammettere che per quanto possano essere senza cervello, uscire con un’intera squadra di serie A mi farà prendere punti sul profilo di facebook!» disse ridacchiando.
«E se incontrate Simone?» le dissi, sapendo quanto avessimo in comune.
L’amica di Celeste mi stava simpatica soprattutto quando prendeva di mira quel cretino senza cervello.
Mi liquidò con un gesto della mano, quasi come se stesse scacciando via una mosca fastidiosa. «Che si impiccasse, quello! Nessuno deve azzardarsi ad offendermi. Non lo permetto a quel microcefalo di Robbeo, figurarsi quel novellino col moccio al naso.»
BEM. Quattro frasi e già lo aveva mandato alla gogna.
«Sono stanca, Ven. Preferiremmo rimanere qui,» disse Cel, sfiorandole un braccio.
Fu allora che Venera la fissò sinceramente. Era sorprendente come indossasse e smettesse quella maschera di sarcasmo che si era faticosamente costruita attorno.
«Okay, allora a domani,» sorrise allontanandosi.
Ben presto, tutto il gruppo uscì chiassosamente dalla hall per andare a conquistare qualche luogo pubblico londinese, mentre io e Celeste rimanemmo ancora un po’ seduti su quei divanetti.
Aveva posato il capo sul mio petto e pigramente passava le dita sul mio avambraccio in una carezza lenta e piacevole. Quasi un solletico appena accennato.
«Cosa pensi vuole dirti il tuo capo?» soffiò, quasi impercettibilmente.
Fissai il soffitto, pensando a come rispondere. Non era facile affrontare un argomento così delicato, soprattutto perché la mia carriera era una sorpresa continua.
«Non ho idea,» ammisi. «Potrebbe trattarsi di una semplice trattativa di prestito, oppure di ingaggio per un’altra società, potrebbe essere un premio, un riconoscimento o…» e lì mi interruppi.
Celeste alzò il capo quel tanto da fissarmi negli occhi. «Oppure?»
Le baciai la fronte. «Trasferimento,» ammisi.
Era innegabile. La probabilità che qualche talent scout dell’Arsenal mi avesse visto giocare, erano più che buone. Inoltre, avendo ripetuto più volte di essere disponibile a lasciare la Magica, perché convinto di non essere sfruttato abbastanza, avevano messo le basi per promuovermi a candidato possibile di un trasferimento.
Magari durante il mercato estivo.
Celeste non aggiunse nulla. In fondo, non c’era nulla di certo e prima di costruire castelli in aria bisognava almeno avere la certezza delle basi.
«Dovrei parlarne con Ruben. Non c’è nulla di ufficiale, ancora,» la rassicurai.
Fu allora che si alzò in piedi, prendendomi per mano senza dire una parola. I suoi occhi azzurri già parlavano da soli.
«Vieni,» sussurrò solamente.
Ci dirigemmo verso gli ascensori, aspettando che arrivasse al pian terreno. Entrammo nel lussuoso macchinario, totalmente diverso da quel trabiccolo installato nell’appartamento di Celeste.
Quando le porte si chiusero, ci guardammo all’unisono scoppiando a ridere.
«Stai pensando all’ascensore nel mio appartamento, vero?» mi accusò lei.
«Anche tu lo stavi pensando!» ridacchiai.
D’improvviso la abbracciai, quasi avessi bisogno di un qualche contatto. «Non mi trasferiranno, vedrai,» le dissi sicuro.
Era evidente come fosse preoccupata di quello. Se la nostra storia rimaneva in piedi, era soltanto per pura casualità. Il nostro rapporto era ancora fragile, quasi come una piantina sotto le amorevoli cure del suo giardiniere.
Ma l’inverno era alle porte e forse avrebbe congelato tutto.
Un conto era affrontare una vita insieme giorno per giorno, un passo alla volta. Un altro era vederci solo per pochi giorni al mese, magari di sfuggita.
Era troppo da sopportare.
«Non fasciamoci la testa prima di romperla,» mormorò lei sicura.
«Promesso.»
L’ascensore si aprì sul corridoio del quarto piano, mentre ci dirigevamo alla ricerca della stanza 453. Vagammo per un bel po’ lungo i corridoio tappezzati di moquette e di tanto in tanto incontravamo qualche ospite che, come noi, si era perduto nei meandri di quella struttura immensa.
Io ci ero abituato, infatti mi mossi sicuro alla ricerca del numero della stanza.
Celeste, invece, si guardava intorno come se una bambina in un negozio di caramelle gigantesco.
«Di qua,» mormorai sicuro, stringendole la mano.
Arrivammo sino alla porta con i tre numeri in ottone sospesi sopra il legno laccato di bianco. Inserii la chiave magnetica nella serratura e attesi il “bip” del via libera.
Due valigie erano adagiate con cura vicino all’armadio della stanza, mentre una era divelta sul pavimento. Sembrava quasi fosse esplosa una bomba al suo interno.
«Robbeo… prima o poi lo ucciderò,» ringhiò Celeste fissando il macello che il suo migliore amico aveva lasciato.
«Vabbé, non è che la mia stanza è messa in condizioni migliori…» cercai di spiegare, ma lei mi fulminò con lo sguardo.
Di punto in bianco cominciò nervosamente a rassettare i panni sparsi in giro, ficcandoli nella valigia con rabbia. «Per fortuna che io e te non viviamo insieme.» disse, sovrappensiero.
«Non ancora…»
Celeste si bloccò con un paio di boxer rossi in una mano e una T-shirt dei Dire Straits nell’altra. I suoi occhi erano grandi come piattini da caffè.
«Cosa hai detto?» chiese, con voce strozzata.
A quel punto mi avvicinai a lei. Le tolsi delicatamente quegli indumenti dalle mani e le posai le mani sui fianchi, avvicinandola a me. Con le dita le sfiorai i tratti del viso, imprimendoli nella mia mente come avrebbe fatto un non vedente.
Poi la baciai. «Un passo alla volta, ricordi?» soffiai, contro le sue labbra.
La bacia ancora, ancora una volta.
«One step closer…» canticchiò lei, spingendomi sempre più verso il letto alle mie spalle.


Scusate per il ritardo nell'aggiornamento, ma, come ho detto nel gruppo, ho aderito alla Klaine!Week nel fandom di Glee e sono stata un po' impegnata, ma adesso sono tornata più carica di prima! Yeeeeeeeeee :3
Siamo finalmente arrivati agli sgoccioli della storia, adesso manca qualche capitolo d'assestamento e poi il gran finale *W*
La cucciolosità di Leonardo è infinita, e penso che anche se molte di voi preferiscono suo cugino Simone, Leo è sempre rimasto nel mio tenero Quoricino sin dall'inizio #myfirstlove.
Detto ciò, conto di rispondere alle recensioni presto, sia di questo capitolo che di quello di ILWY.

NOTIZIA IMPORTANTE:
Il gruppo Crudelie si nasce... sta per essere cancellato e sostituito con un nuovo gruppo in cui è "necessario" mandare un MP per spiegare le motivazioni per cui si vuole entrare. Bisogna partecipare ed essere attivi, altrimenti non vi segnate >.<
L'MP potete mandarlo a me o ad una delle admin:

 
   
 
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