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Autore: Ely79    21/10/2012    2 recensioni
Mala è la cartografa dell'aeronave Zenobia, ma la sua mente è ben distante dalle rotte e dalle mappe. I suoi pensieri sono rivolti all'ultimo giorno di scuola di Ester, sua figlia, ed alla sorpresa che le ha preparato. Ma il viaggio riserverà qualcosa anche a lei...
Storia prima classificata al "Miscellaneous - Un altro Diabolico Contest" indetto da Releeshahn.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV - Lamina amoris
Aleena
VI – Lamina amoris1

Gli equipaggi avevano raggiunto la loro meta da poco più di un’ora, con la Zenobia rimorchiata nella scia del Turbinante. Durante le quattro ore di tragitto, Ester aveva raccontato ai genitori dell’anno scolastico appena trascorso, interrompendosi di continuo per sapere dei loro viaggi o per cercare – e ottenere – quelle coccole che non aveva potuto ricevere.
La costa garganica era immersa negli ultimi sprazzi sanguigni del crepuscolo. La sagoma tozza e scrostata dalla salsedine di Torre Mileto2 si ergeva sopra i massi scuri, la piattaforma superiore coronata dalle sagome panciute del Turbinante e della Zenobia, che danzavano come due amanti capricciosi nella brezza. Un mare d’inchiostro rumoreggiava oltre lo sterrato ai piedi della torre rischiarata dai falò. Sparse tutt’intorno c’erano lunghe tavolate e focolari da cui s’innalzavano colonne di fumo odoroso di carne e legna, che si mescolava nel cielo col vapore dei motori in quiete.
Parole, rutti, richiami e risa si mescolavano al ritmo incalzante della pizzica e al tintinnare delle stoviglie che passavano di mano in mano, trasportando succulente specialità della campagna circostante. La festa del paese in cui Tancredi era nato era una gioia per ogni senso, eccettuato il buon senso di una persona.
«Levati di torno, prima che ti prenda a calci!» tuonò la voce del Capitano del Turbinante.
«Ma che ho fatto?» ghignò Rinaldo, perdendo un attimo dopo ogni briciola d’ilarità vedendo la mano dell’altro correre alla pistola appesa alla cintura.
«Dai, papà… lascialo stare» rise Ester, strattonandolo perché tornasse a sedere.
Non le piaceva vedere lo zio bistrattato da suo padre. Aveva sempre trovato lo zio Rinaldo molto divertente, un vero spasso. Sapeva farla ridere con un sacco di storie buffe, la faceva sognare con le sue canzoni d’amore e a volte la faceva spazientire come le sue compagne del collegio.
«Lo sai benissimo. Niente vino a Ester! E non fare quella faccia da innocente! Forse ti sei dimenticato che da quest’occhio ci vedo meglio di te e che quella roba lì non deve starci. Mai!» urlò additando la coppa incriminata. «E ora sparisci, prima di andare a far compagnia a questa!» ruggì Tancredi, brandendo un fascio di muscish’ka3 come un’arma da fuoco.
Al musico toccò battere in ritirata col tamburo sottobraccio, prima che la minaccia si concretizzasse.
«Papà, per farlo a strisce come quella dovevi usare il kris della mamma, non la pistola. Zack! Zack! Lo facevi a striscioline!» scherzò la ragazzina, sfoderando il pugnale dalla custodia.
«No. Ho giurato di non usarlo mai più» sbottò, prendendoglielo dalle mani e porgendolo alla donna.
«Ma… perché no?» chiese perplessa.
Raramente suo padre assumeva un tono di riprovazione tanto intenso.
«Perché ho quasi ucciso tua madre, con quello» disse semplicemente.
Ester sgranò gli occhi, sconvolta dalla notizia. Fin da piccola aveva sempre adorato quell’arma dalla lama sinuosa e lucente, sognando di brandirla contro i pirati dell’aria. Nessuno le aveva mai detto che dietro a quel metallo ci fosse un fatto tanto orribile. Anche se li aveva visti litigare furiosamente qualche volta, non riusciva ad immaginare suo padre che tentava di uccidere sua madre.
«U-uccisa? Perché?» domandò, squadrando alternativamente i genitori.
«Non guardarmi così! Non l’ho fatto con intenzione, è stato un incidente» ribadì l’uomo, evidentemente a disagio per l’espressione sgomenta della figlia.
«Che cosa è successo?» chiese lei, il volto tra le mani e i gomiti sul tavolo, in attesa di spiegazioni.
Spiazzato dall’improvviso interesse, Tancredi cercò sostegno nella compagna. Con suo stupore, la trovò nella medesima posizione della figlia, che gli sorrideva sorniona, imitata da Delizia, Farisa e alcuni membri del suo equipaggio.
«Sì, amore. Che cosa è successo?»
Parlare di merci, rotte, motori e tempistiche era un conto, raccontare la propria vita un altro. E lui trovava particolarmente odioso rivelare dettagli del proprio passato, specie davanti ad un pubblico tanto nutrito.
Sbuffando e roteando gli occhi spazientito, il Comandante si costrinse a raccontare.
All’epoca, lui era ufficiale in seconda su un cargo greco, l’Akropolis, e poteva vantare il rispetto di diversi altri equipaggi, dopo essere sopravvissuto a un violento attacco di predoni egiziani, pur avendoci rimesso l’occhio destro e la mobilità del braccio. Mala, dal canto suo, era salita a bordo da qualche mese e tentava di condividere la cabina assegnatale con uno dei tecnici di bordo: la già insopportabile Farisa.
Tra i due era emersa dapprima una naturale simpatia, che li aveva portati a tessere lunghe discussioni durante le notti di navigazione. Erano passati poi a frequentarsi anche durante gli scali a terra, finché il rapporto si era fatto più stretto, quasi ingestibile: bastava uno sguardo o un banale cenno per temere dicerie da parte dell’equipaggio. Nessuno di loro poteva rischiare di perdere il posto per un intermezzo amoroso con un altro membro dell’aeronave (cosa peraltro vietata dal regolamento di bordo e osteggiata in ogni modo dal Capitano Samartzidis), tuttavia, ignorarsi era impossibile.
Tancredi sorvolò deliberatamente sulla visione della giovane cartografa, che un giorno aveva sorpresa mezza nuda mentre fingeva di cambiarsi nella sua cabina, con la scusa di non poter accedere alla propria a causa di un litigio con il meccanico. Si limitò a tratteggiare un loro incontro fortuito, vagamente tenero e romantico, come sarebbe potuto piacere ad una ragazzina di dodici anni.
«Eravamo soli e, insomma, ci piacevamo. Così quel giorno la mamma mi guardò e mi disse…»
«Non vuoi raggiungermi, vero?» concluse lei, usando un tono più scherzoso e meno provocante di allora.
La porta era stata solo una misera difesa di quell’intimità illecita e nonostante ciò, le ore insieme non avevano fatto altro che susseguirsi, finché un giorno, mentre stavano abbracciati nel caldo soffocante della stanzetta, parlando sottovoce di progetti futuri e rotte appena percorse, un grido mandò in frantumi ogni cosa. Tancredi aveva fissato sgomento Mala che gli si aggrappava alle spalle boccheggiando. Abbassando lo sguardo in cerca del motivo di quell’urlo aveva scoperto con orrore il metallo del kris immerso nel fianco destro della donna. Il meccanismo di ritenuta aveva ceduto e la lama era scattata in avanti, trapassandola poco sopra il fianco. L’uomo aveva tentato di rinfoderare l’arma, ma a ogni tentativo le urla di Mala e il sangue che sgorgava copioso avevano dichiarato danni sempre maggiori. Così, ignorando la reciproca nudità e la certezza di essere scoperti, Tancredi si era risolto a chiedere aiuto. Per tutto il tempo che era occorso a trovare una soluzione, aveva tenuto la compagna stretta a sé perché non si muovesse, rischiando di aprire nuovi squarci. Era stato in quella posizione che li aveva soccorsi il medico.
«Per tre settimane rimasi in bilico tra la vita e la morte, stando al dottor Pintasilgo» raccontò Mala.
«Un idiota, piccolina, fidati. Un vero idiota. Meno male che è crepato di tisi» sbottò Farisa, masticando a bocca aperta un boccone di pane.
Tutti i presenti si voltarono verso di lei con aria di biasimo sia per l’interruzione sia per le parole dette: molti di loro erano passati dall’ambulatorio di Pintasilgo e lo stimavano per la sua capacità di curare ogni infortunio o malattia con i risicati mezzi disponibili sulla città volante.
«Idiota o no, ci mise del suo per non farmi precipitare oltre la murata di quest’aeronave. E ci riuscì» puntualizzò Mala, irritata.
Ripensò alle poche memorie che aveva di quei giorni fatti di febbre, sete e dolori lancinanti. E alle mani del medico, sempre pronte a richiudere la ferita quando un nuovo rivolo di sangue si faceva strada tra le bende o ad aprirla quando un accenno d’infezione sembrava dover mandare tutto a monte.
Ester la guardava con occhi sbarrati d’ansia, dimentica del fatto che se sua madre le stava parlando, significava che quei momenti erano passati.
«Devi sapere che il kris è tra le armi più micidiali al mondo proprio perché è così bello» intervenne Tancredi mostrandogliela. «La lama ondulata non è una scelta estetica. Crea ferite molto irregolari, che è quasi impossibile richiudere perfettamente. Pintasilgo fece un vero miracolo con tua madre».
La ragazzina osservò sbigottita la cicatrice che la donna indicava sul suo fianco, uno spesso grumo pallido e allungato, che lei chiamava fin da piccola “la limaccia”. L’aveva vista altre volte, senza prestarvi troppa attenzione, ma ora che ne conosceva la storia non poteva che immaginare il dolore, il sangue, la paura e tutto quello che aveva significato. Si sentiva un po’ intimorita e sciocca, per aver dato per scontato si trattasse di un banale incidente.
«Ti fa ancora male, mamma?»
«Solo quando cambia il tempo. O se papà mi fa arrabbiare» scherzò, massaggiando lo sfregio.
«Dice così per farmi sentire in colpa, ma sa perfettamente che non ci casco. Sta benissimo» ribatté l’uomo.
«Ah, davvero?» lo stuzzicò, sfoggiando un’espressione di grande sofferenza.
«Cos’è successo dopo, quando sei guarita?» intervenne Ester, troppo curiosa per lasciar perdere.
«Quando sono guarita? Beh, passato un mese, Pintasilgo alzò i tacchi, dicendo che ormai potevo arrangiarmi. Solo allora tuo padre mise il naso nella cabina. Non riusciva a spiccicare parola. Continuava a guardare la fasciatura e…»
«La fasciatura? Vorresti farci credere che eri lì, con le tette al vento – e non solo quelle -, e lui…» intervenne ancora Farisa, mentre con un dito rovistava nel carapace di una cicala di mare.
La sua capacità d’interrompere i discorsi altrui con quel genere di uscite era una delle piccole cose che Mala mal tollerava del suo Comandante. Specie se Ester era presente.
«Guardava la fasciatura» ripeté seccata, rigirando la lama tra le dita. «E se ne stava lì in silenzio…»
«A palparsi…» ciancicò.
«Farisa, apri la bocca un’altra volta e la Zenobia cambia guida!» la minacciò, puntandole il kris alla gola.
Tutt’altro che intimorita, il Capitano allontanò la lama con la punta delle dita.
«Ma smettila! Tanto lo sappiamo benissimo che non riuscite a evitare di…»
Nessuno seppe cosa stesse per dire, pur intuendolo: Delizia le aveva ficcato una costoletta in bocca prima che potesse aggiungere altre sconcezze alle precedenti.
«Tranquilla, tesoro. La faccio star zitta io. Tu finisci il racconto, Ester sta aspettando il gran finale» intervenne la cuoca, riempiendo a forza le fauci del Capitano con tutto il ben di dio che c’era sulla tavolata.
«Che cosa hai fatto?» insisté trepidante la ragazzina.
Dopo un profondo respiro per calmarsi, Mala proseguì.
«Gli ho sorriso e ho detto: “se questo è il tuo modo per dirmi che ti appartengo, e che piuttosto che sapermi di un altro preferisci farmi fuori, direi che sei stato chiarissimo”» disse, allungando la mano fino a intrecciare le dita con quelle del compagno.
Lo sguardo che passò tra i due la diceva lunga su quanto fossero stati duri quei momenti. Quanta ansia, pena e rabbia si fosse addensata nell’esiguo spazio tra la porta e il letto.
«E tu, papà? Cosa hai fatto quando la mamma ti ha detto così?»
Tancredi la guardò, notando quanto i lineamenti da bambina stessero tramutandosi in quelli di una giovane donna. Una giovanetta impicciona come sua madre, accidenti a lui. Se non fosse stato tanto abbronzato, probabilmente avrebbe mostrato un colorito da fuochista anche nella penombra del banchetto.
«Ho fatto rimuovere il kris con tutto il dispositivo e l’ho dato a tua madre, perché non accadesse più».
Le mostrò il tutore, indicando dove erano stati gli alloggiamenti delle molle e dei perni. In alcuni punti il metallo era stato levigato e spazzolato, in altri si scorgevano ancora dei solitari moncherini.
«Sì, ma prima?»
Ecco l’interrogativo che sperava di aver evitato.
«Prima?» domandò, fingendo di non capire.
«Prima di togliere il pugnale. Cos’hai fatto quando la mamma ti ha detto quelle cose?»
Aveva gli occhi dilatati dalla curiosità e dal romanticismo, era evidente. E lui detestava parlare di quella parte della storia: era troppo personale e sentimentale per essere raccontata in pubblico. Anche solo per accontentare sua figlia.
«Cosa avrei dovuto fare? Ho detto che mi dispiaceva e che dovevamo battere palmo a palmo ogni aviostazione di Armada in cerca di un imbarco, perché Samartzidis ci aveva sbarcati in via definitiva» sviò.
Non avrebbe mai potuto dimenticare le urla di disapprovazione di quella vecchia tartaruga: su dieci parole, tre erano articoli del codice di navigazione di Armada, una un versaccio a caso e le altre sei sonore bestemmie e imprecazioni. Persino il magistrato aeroportuale che aveva assistito alla scena era sbiancato per l’orrore e l’imbarazzo.
«E poi?»
«E poi cosa? La storia è tutta qui» tagliò corto.
«No, non può essere. Non ci credo. C’è qualcosa che non vuoi dirmi» obbiettò Ester sfoderando lo stesso sguardo indagatore che usava Mala durante le contrattazioni.
«Non c’è nient’altro da dire» affermò perentorio.
Indispettita, la ragazzina si volse verso la madre, insistendo perché le svelasse ogni cosa.
«Tuo padre ha ragione. Non c’è altro» concordò lei.
Preferì non accennare al fatto che, dopo le sue parole, Tancredi era crollato in ginocchio accanto al letto, piangendo di sollievo col volto nascosto contro le bende. Così come non disse nulla riguardo ai baci e alle carezze con cui il mercante l’aveva esaminata da capo a piedi, per assicurarsi che fosse davvero fuori pericolo; né volle accennare allo splendido esito di quell’analisi nove mesi più tardi e che in quel momento sedeva tra di loro, borbottando come una caldaia insoddisfatta.


1 Lamina amoris: lama d’amore
2 Torre Mileto: torre costiera di avvistamento e difesa, sita tra i laghi di Lesina e Varano.
3 Muscish’ka: strisce sottili di carne bovina essiccata con aglio, chiodi di garofano, sale e peperoncino.
   
 
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