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Autore: IsabellaVivianne    22/10/2012    1 recensioni
Viviana diceva, il suo nome è Viviana. Viviana: colei che da la vita, colei che è destinata! Un nome pericoloso!
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 4

 
Non sapeva bene come affrontarla. Non ne aveva la minima idea. E così si torturava le mani sottili e la gonna della veste gialla. Era ancora chiusa nelle sua stanzetta scura, nonostante il sole fosse alto ormai da quasi più di una veglia e le altre giovani si fossero già dirette in direzione dell’albero di pesco. Ana le sorrideva leggermente, con la mano ancora sulla sua spalla, come conforto o come abnegazione, non lo sapeva. Aveva solo quindici anni. E a quindici anni non si può, semplicemente no, non si può, prendere atto di un destino. Rendersi conto che la vita che si ha davanti deve essere sacrificata al volere di qualcuno che non ci è dato conoscere. Ma lei era una sacerdotessa e amava rincorrere la figura della Dea di Avalon in ogni anfratto di quell’isola sperduta, perché lei era la madre e il suo volere era legge. Ma ancora, ora, dubitava.
“Io… devo…”
“Sì, per sempre, tu devi.”
Nimueh non sarà contenta, pensò in quel momento, quando la risposta - lapidaria - della Signora di Avalon le giunse alle orecchie. Non sarà contenta per nulla. Aveva il magone e gli occhi le pungevano.
“E’ l’unica amica che ho. Come posso farle questo?”
Ana rimase in silenzio e Alice la guardò sperduta e giovane e bella. “Come posso? E’ lei che deve guardare su Viviana, non io! Come posso io? E’ lei che deve istruirla, crescerla, guardarla! Nimueh è la migliore qui, ad Avalon, è lei che lo merita!”
Ana si avvicinò al focolare e la veste strisciò lungo il pavimento. Alice si ricordò che l’aveva cucita lei, coi colori di Avalon, non più di una luna fa. E si ricordò anche del calore dolce dell’abbraccio di sua madre quando l’aveva lasciata sulla riva del lago ad aspettare la barca, e del suo bacio e del suo sussurro sottile come il vento che le scompigliava i capelli “Non piangere, il Lago avrà cura di te.”
Si era voltata e Ana era lì, in piedi al suo fianco e sua madre era scomparsa, inghiottita dalla foresta. La Signora aveva lo stesso sorriso di oggi, per sempre giovane ed eterna, beffa del tempo e del suo trascorrere. Perché il suo compito era attendere Viviana.
Ai suoi piedi Ana lanciò delle ceneri e Alice riprese a seguirla.
“Vai via da qui, Alice. E’ l’ordine della Dea, è te che ha scelto e le sue decisioni non possono venir contestate. Lei ha deciso e così ho fatto anche io. Vai nell’Eire, vai oltre il Vallo di Adriano, vai a Camelot. Rimani in ogni luogo per un tempo sufficiente ad apprendere ogni cosa, bada bene, Alice, quando dico ogni cosa, perché tutto sarà utile. E poi torna qui, al Lago. Io ti riconoscerò e te la consegnerò. A te, te sola. “
Il dragone.
Le ceneri formavano un dragone, lì, lì, proprio lì, lo senti, Alice, lo senti il futuro?
Avalon risorgerà insieme ad Albione.
Viviana ed Emrys, manca poco.
Un drago, il rombo di un tuono, la pioggia che sferza il tetto della casupola,un drago e il suo coraggio e la sua saggezza.
Nimueh bagnata di lacrime “Meritate la morte, la condanna eterna!”
Oddio, oddio, oddio. Ancora, ancora, ancora. Il fuoco del camino divampa e forma un volto di donna, teso ed aggraziato. “Baciami” dice il volto “Baciami, mia servitrice, eternamente, baciami e dimenticami.” No!, si sente gridare,No!, non lo farò! Mai!
“Baciarmi, dimenticare… giuralo ora, serva, giuralo adesso.”
“Mai!”
“In nome della Dea, giura!” ed è il grido di una donna disperata, nella sua mente, dagli occhi scintillanti e blu come il cielo, e quella donna è Ana, è Nimueh, è lei stessa, tutte assieme, ed è Viviana, cielo, è Viviana che glielo ordina e lei non può disubbidirle, perché sarebbe come andare contro a se stessa.
“Giuralo e accogli il fardello”
Una stretta al cuore, acqua sul viso e il respiro mancato. Dannata sia Avalon e la sua magia che ruba vite e libertà, tutto l’amore che si può provare verso la Dea non può compensare. Tutto l’amore semplicemente non è abbastanza.
“Perché, perché? Perché non giuri, serva, giura, giura ed avrai me.”
Dannata sia Avalon con i suoi fiori freschi e le sue erbe rare.
Dannata sia Avalon, perché opprime, perché giurare vuol dire dimenticare, perché se si giura si perde tutto il resto.
Dannata sia, dannata sia.
“MAI!”
Alice si mise a sedere di scatto e Nimueh, al suo capezzale, si svegliò con gli occhi sbarrati, aggiustando la smorfia delle sue labbra in un tiepido sorriso. “Sei sveglia, finalmente,” mugugnò, sbadigliando, “La Vista ti ha costretta a letto per un giorno intero. Cara Alice, dovresti aver imparato ormai a controllare le tue visioni.”
Oh cielo, come può dirle che è stata la Signora a scatenare quella visione? Come può dirle che hanno scelto lei?
Non ha voce e la risposta le sale con fatica alle labbra, ma Nimueh sembra capire lo stesso e si alza e si allontana. Quando torna regge una brocca d’acqua. La fa bere e poi le ripone nuovamente il capo sul cuscino.
“Ora riposa, Alice cara. Chiudi gli occhi e riposa. Quando ti sveglierai sarà il tempo delle mele.”
Giura, giura, giura…
 

Quando il sole splendeva e illuminava il mastio, Isabella aveva imparato a posizionarsi sui cammini di ronda e a guastarsi lo splendido panorama della campagna brulla, perdendoci talvolta delle ore e ritrovandosi in ritardo agli impegni quotidiani al quale era costretta. Quel giorno, però, una sottile nebbia si era sparsa fra i campi e, accompagnata dal cielo plumbeo, non rendeva altro che una atmosfera opprimente e triste. Nell’aria Isabella sentiva il profumo di pioggia e respirò a pieni polmoni, appoggiandosi alla merlatura e guardando giù in direzione del mercato. Si era rifugiata lì sopra perché non aveva voglia di accompagnare Gaius nelle sue visite mediche quotidiane: svegliata presto e avvolta in un grosso mantello pesante si era posizionata lì dove ancora era nonostante fosse passata ben più di una clessidra. Che poi, a pensarci bene, il suo non era stato un comportamento eccessivamente maturo, ma la ragazza, a sua discolpa, adduceva la scusa del ‘non ne posso più di vedere ferite aperte, ossa rotte da rimettere in sesto; non ne posso più di dover analizzare i bisogni!’. Forse, pensò Isabella, dovrei cercarmi un lavoro. Ma l’idea, come venne, la abbandonò, vinta da un’ondata di pigrizia. Si rimise seduta sul piccolo sgabello che aveva portato tempo prima e si morse il labbro, piena di rimorso: Gaius era molto buono con lei e come lo ricambiava? Sparendo? Era davvero questo che le aveva insegnato sua madre? Isabella scosse la testa. Lei era una ragazza responsabile (o almeno così credeva) e non era maleducata (tranne con il vecchio Sam che passava il tempo libero ad irritarla e a canzonarla). Svogliata e lenta, Isabella si alzò e si avviò verso la porta di legno marcio. Era a Camelot da un po’ di tempo ormai, ma la solitudine non osava lasciarla in pace. Era cresciuta lontano dalla grande città e i suoi unici affetti erano stati la madre e l’asinello con il quale andava a far provviste nel villaggio più vicino e giunta qui, per lei che non era mai stata abituata all’amicizia e ai legami, l’articolata vita sociale di Camelot faceva venire i giramenti di testa. C’era stato un tempo, pensò Isabella, in cui questo sarebbe stato il sogno di una vita. E un’ondata nuova di tristezza l’assalì.
La fanciulla si permise un attimo di fermarsi, giunta nel corridoio, chiusa nelle spalle e imbronciata. Fu così che Merlino la trovò, venendole incontro con i capelli corvini scompigliati e un mantello sciupato sulle spalle. Accanto a lui un grosso cane da caccia scodinzolava festoso trattenendo fra i denti un pezzo di bistecca appena rubato delle cucine.
“Isabella!” la chiamò Merlino. “Non dovresti essere con Gaius?”
Lei lo fissò e mugugnò qualcosa fra le labbra, giusto per dire qualcosa, poiché era piena di vergogna per essere stata colta con le mani nella marmellata.
“Beh? Non dici niente?”
“Va bene,” gracchiò quindi lei. “Non ci sono andata!” e spalancò la braccia come per invitarlo a rimproverarla.
Povero Merlino,si pentì subito dopo, non merita il mio sbraitare! Ma quando lui, invece, scoppiò in una risata che man mano crebbe d’intensità, Isabella sentì nuovamente il verme dell’irritazione salirle dallo stomaco e da lì, apriti cielo!, si estinsero anche i sensi di colpa.
 

“Vai a mettere il vestito delle feste, Morgana. Prima di pomeriggio avremo ospiti.”
Morgana alzò il capo e i suoi capelli corvini ondeggiarono. “Io non ho sentito niente.”
“Il re di Lyonesse ha mandato poco fa un messaggero ad anticipare il suo arrivo,” Disse Artù, poi serrò le labbra e fece un cenno alla serva della sua sorellastra e le posizionò fra le braccia un grosso strascico di tessuto porpora. “La prossima volta, cara Morgana, le condizioni delle nostre scommesse saranno poste da me, come le scommesse stesse. Tu fai leva sul mio animo cavalleresco come la strega che sei.”
La lieve risata della Lady lo stordì e Artù si ritrovò a maledire, sempre nella sua mente, la divinità che aveva fatto dono alla sua sorellastra di quella bellezza così squisita. Non che lui la notasse o che desse a questo dettaglio più importanza di quella che meritava, tra tutto quello che era Morgana, molto probabilmente, la bellezza era la superficialità e lui, in qualità di principe e futuro sovrano era stato istruito all’andare oltre: un oltre che, in questo caso, avrebbe preferito ignorare a beneficio della sua sanità mentale.
La camera di Morgana, in cima alla scalinata di marmo, era fredda e austera, piena di tende e tendini, specchi e fronzoli così opposta alla sua che era ampia, calda e colma di armi lucidate da quel buono a nulla del suo servitore. Artù si chiuse la grossa porta alle spalle con ancora l’eco della voce della giovane e non trattenne un piccolo sorriso sbilenco che, ad occhio estraneo, lo avrebbe fatto apparire un perfetto asino, per citare qualcuno. Poi si diresse verso la sua stanza a passo veloce. Aveva mandato Merlino a piedi per la cittadella affiancandogli il cane Argo, il migliore tra i suoi cani da caccia per fargli sia un po’ sgranchire le zampe sia per godere poi, una volta tornati, dell’espressione sfinita del suo valletto. Avrebbe dovuto fare a meno di lui, quindi, per indossare l’armatura e il mantello: la tenuta ufficiale della cavalleria dei Pendragon. Il giovane principe sentiva l’esigenza di gonfiare il petto e di ergersi in alto ogni qual volta gli capitava di cavalcare fra le gente e di sentire nelle orecchie il fruscio spavaldo del suo rosso mantello ornato dal drago dorato della sua casata. Era fiero della sua posizione, sicchè se l’era conquistata non come esprimeva qualche male lingua grazie alla sua nascita altolocata ma con il sudore della fronte e a colpi di spada. Viveva circondato da uomini fedeli alle cause giuste che lo ispiravano. Così quando si tolse l’abito di tutti i giorni e indossò la cotta di maglia, il suo peso pressante non significò altro che un piacevole compito e così per il resto delle piastre metalliche che presto gli ricoprirono l’ampio torace e la braccia. Il mantello rosso lo animò di fervore come sempre e mentre se lo rassettava si stupì di come quel solo pezzo di stoffa incrementava la sua fierezza. Si sentiva un principe valoroso e pronto a tutto in quella tenuta e si soffermava sul suo riflesso non tanto per egoistica vanità quanto per un genuino stupore: come poteva essere lui quell’uomo tanto coraggioso, quando, in realtà, il terrore di sbagliare lo perseguitava come uno spettro?
Uscì nell’ampio cortile e trovò i cavalieri, suo padre e Morgana già schierati per accogliere l’ospite influente e la figlia (l’avanguardia del re di Lyonesse era stata sbaragliata dall’orda di briganti, ma perlomeno era riuscita a permettere la fuga della famiglia reale e della sua scorta. Era pericoloso di quei tempi costeggiare i confini tra Camelot e la terra dell’Ys, soprattutto se si viaggiava con insegne a mezz’asta e i pettegolezzi di mezza Britannia sull’imminente matrimonio fra la principessa di Lyonesse e il sovrano del Galles del Nord).
Si affiancò al padre e si sistemò l’ampio mantello giusto in tempo per assistere all’ingresso della compagnia. Gli ospiti smontarono nel centro dello spiazzo e gli occhi di Artù si volsero all’unica donna in quella confusione di spade e armature. Era alta e solida sebbene coperta dai mantelli e teneva il padre a braccetto con malagrazia. Presto entrambi avanzarono per inchinarsi doverosamente davanti al sovrano Uther Pendragon di Camelot.
“Benvenuto a Camelot, Sovrano di Lyonesse: il tuo arrivo è una piacevole sorpresa.”
Il re si staccò dalla figlia e protese le mani in avanti, aprendo il viso in un ampio sorriso.
“Ti ringrazio, Uther.”
Era anche lui alto e snello, con il viso segnato dalle rughe e le guance scavate. Le labbra sottili, notò Artù, erano coperte dai baffi più orrendi che avesse mai avuto modo di vedere e giurò a se stesso che, se fosse capitato a lui, si sarebbe raso a vita. 
Ben presto, raffreddati dal freddo pungente di inizio inverno e incoraggiati da qualche piccola goccia, Uther invitò gli ospiti ad entrare e mandò detto ad un paggio di allestire stanze calde e consone al rango dei visitatori.
Liberata dai mantelli, la principessa Charlotte di Lyonesse sembrava ben più grande dei suoi diciassette anni d’età. Nella tunica sciolta da viaggio, di un colore verde accesso, i suoi lunghi capelli fulvi scintillavano come se fossero fatti di bronzo puro e il viso minuto era pallido come ormai andava di moda tra le dame altolocate di quei tempi, tanto è che Artù credeva fermamente che, a passarle un dito sulla guancia, avrebbe portato via con sé tonnellate di quella polvere bianca che lo disgustava. Gli occhi erano scuri e grandissimi.
Erano tutti seduti davanti ad un focolare quando una serva portò la coppa agli ospiti: vino caldo e miele. Charlotte e il padre (Kay?) la presero tra le mani e se la portarono lentamente alle labbra, godendo del sapore dolciastro. Bevvero giusto un sorso, poi la posarono.
“E’ stato un lungo viaggio fin’ora e vogliamo ripartire al più presto. Dacci solo il tempo di rifornici di provviste e di riposarci un attimo.” Sospirò il sovrano di Lyonesse.
“Fate pure, Conn.”
La violenta accusa nella voce di suo padre lo fece trasalire. Artù sapeva bene che il matrimonio fra la figlia di uno dei suoi più importanti alleati e l’eretico del Galles lo infastidiva. Conn (ecco il nome!) aveva, firmando quell’accordo, accettato di entrare in rapporto con l’Antica Religione delle Streghe dell’Isola Sacra al quale Uriens del Galles era fedelissimo e Uther  questo non poteva digerirlo. Per tale motivo era stato immensamente sorpreso di ricevere a corte quel messaggero spaurito in groppa ad un cavallo due volte più grande e, all’udire la richiesta, rifiutare non era stato possibile (sebbene quell’ipotesi lui l’avesse letta nella fronte scavata di Uther) sempre e comunque per il sottile e fragile gioco di alleanze che ormai a stento teneva in piedi la Britannia. Artù aveva da tempo imparato che le alleanze basate sul potere erano ben più facili da spezzare di una pagnotta appena sfornata.
Charlotte fece ad Artù una gran pena, in quel momento. Oltre che obbligata a sposarsi giovanissima, andava anche in moglie a un uomo con il triplo dei suoi anni. Uriens del Galles del Nord, le poche volte che lo aveva incontrato, gli era parso sempre come un uomo lascivo e corrotto che ostentava  il suo potere mostrando a chiunque i draghi tatuati attorno ai suoi polsi: il simbolo che nelle sue terre assegnava a lui solo la sovranità. Il Piccolo Popolo che governava era seguace della Sacerdotessa Ana di Avalon, la Signora del Lago, che, a quanto sapeva, era una vecchia orribile dagli sconfinati poteri magici che viveva relegata in un’isola demoniaca in attesa di non si sa bene cosa.
Povera principessa. Per fortuna lui era nato maschio.
Gaius si fermò al suo fianco e Artù registrò debolmente la sua presenza, accettandolo lì solo con un lieve sussulto, così come le chiacchiere iraconde di suo padre che erano sì un qualcosa a cui avrebbe dovuto prestare attenzione, ma di cui ora non voleva curarsi: suo padre con la magia di mezzo diventava ingestibile.
Morgana invece era stranamente quieta e pacata, concentrata sul focolare, anche lei distante. Le fiamme giocavano sulla sua pelle d’alabastro e i suoi capelli, che erano raccolti, parevano carichi di sfumature rossicce.
“Lo sai anche tu, Uther!”, ribatté Conn a chissà cosa. “Ogni fronte della Britannia è minacciato! Io devo pensare al mio regno. Sì, è vero. Lo anche io che è Avalon… Uriens è potente, Uther. Bisogna ammetterlo. Solo con la magia si possono sbaragliare i sassoni ora che tra le loro schiere hanno Morgause e Nimueh di Avalon, le Streghe rinnegate.”
“Hai detto abbastanza!” urlò Uther.
“No, non è abbastanza e lo sai anche tu! Ana ti parlò tempo fa, vero? Cosa ti disse? Che necessitiamo di un condottiero forgiato dalla magia, un uomo eletto a Re Supremo di Britannia. O vuoi che i sassoni ci schiaccino? Uriens è quel condottiero: ha l’appoggio dell’acqua e porta i draghi. Cosa ci guadagno io? Mia figlia in sposa al Grande Re della Britannia Unita! Presto i sassoni arriveranno Uther, manca poco!”
La voce di Uther assunse il tono tipico della minaccia, “I regni uniti sotto il Galles, l’eresia, la corruzione? Non manderò mai all’aria tutto quello che ho costruito. Camelot sarà del mio erede e di lui soltanto! E per quanto riguarda i sassoni gli accoglierò con le armi!”
Artù sussultò, tirato in causa in modo così violento che ancora il pensiero della bella Morgana gli appannava la mente.
“Sai…” iniziò Conn, con la voce resa pallida dallo sgomento. “Un tempo i tuoi alleati si riunirono in un concilio e discussero a lungo: tuo figlio discende dai draghi. Si sono chiesti se fosse lui il destinato, ma è la tua follia Uther verso la magia bandisce l’altro elemento: l’acqua. Hai reso secco e arido il terreno intorno ad Artù: la siccità lo accompagnerà per la vita e perciò non può essere lui e Camelot è destinata ad essere proprietà del Grande Re…”
E all’improvviso Artù ebbe paura a vedere suo padre così furioso e si sentì un piccolo uccello sotto l’ombra di un falco in picchiata sebbene lui fosse al di sopra di ogni colpa.
“Domani, Conn, te ne andrei. Ti concedo la notte, ma abbandonerai Camelot alle prime luci dell’alba.”
Il sovrano di Lyonesse chinò la testa.
E Artù comprese che la pace era finita.
 
  
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