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Autore: Astry_1971    23/10/2012    3 recensioni
“Salgo le scale con lo stesso entusiasmo di Maria Antonietta che si appressa alla ghigliottina e, con il cuore in gola, ma il volto irrigidito in una maschera di severa professionalità, mi affaccio alla porta della classe…”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una mattinata di ordinaria follia



Autore/Data: Astry, Ottobre 2012.
Rating: per tutti.
Avvertimenti: nessuno
Riassunto: : “Salgo le scale con lo stesso entusiasmo di Maria Antonietta che si appressa alla ghigliottina e, con il cuore in gola, ma il volto irrigidito in una maschera di severa professionalità, mi affaccio alla porta della classe…”


Note: Questa storia non si riferisce ad una scuola in particolare né a persone specifiche, ma gli avvenimenti sono realmente accaduti e continuano ad accadere, purtroppo, come un brutto sogno che si ripete ogni mattina.

Ho appena varcato il portone della scuola, la campanella sta suonando. Sono arrivata in tempo nonostante tutto, oggi ho sbagliato strada. Insegnare in scuole diverse e in paesi diversi spesso mi confonde e, la mattina presto, il mio cervello impastato di sonno tende a farmi prendere la via che conosce meglio. Tiro un respiro di sollievo, ma immediatamente il mio umore torna a farsi cupo. Salgo le scale con lo stesso entusiasmo di Maria Antonietta che si appressa alla ghigliottina e, con il cuore in gola, ma il volto irrigidito in una maschera di severa professionalità, mi affaccio alla porta della classe, ovviamente nessuno si accorge di me. Nessuno saluta, e la cosa mi da fastidio, ma ormai sono rassegnata e penso di essere già abbastanza fortunata quando, con destrezza, riesco a schivare il borsellino che mi sfreccia davanti agli occhi.
So che prima di ogni altra cosa devo ottenere il silenzio, mi fermo sulla soglia, come mi è stato insegnato da colleghi con più esperienza di me. Restare immobile fissandoli severamente negli occhi, questo mi hanno suggerito e questo cerco di fare, dovrei fissarli negli occhi, ma vedo solo le loro nuche, nessuno si volta in direzione della porta. Resto per alcuni minuti in attesa, nulla. Il tempo passa e, visto che non ho intenzione di passare tutta l’ora appoggiata allo stipite della porta, mi dirigo verso la cattedra.
Mi siedo, busso sul ripiano di legno per richiamarli, ma loro continuano ad ignorarmi mentre sono impegnati ad urlare e a rincorrersi fra i banchi, quindi prendo un bel respiro e, con tutta la voce che ho, provo a superare il rumore assordante.
“Mettetevi seduti e prendete il libro!”
Il rumore continua, nessuno mi ha sentita, o forse fanno finta di non sentire. Quindi lo ripeto con più forza e colpisco di nuovo la cattedra per attirare l’attenzione, ma l’unica cosa che ottengo è un dolore pungente alla mano.
So che prima di iniziare la lezione devo fare l’appello e controllare che gli assenti del giorno prima abbiano portato la giustificazione, ma il chiasso continua.
Mi alzo e chiudo la porta dell’aula, sperando che questo gesto basti a far capire loro che è ora di cominciare la lezione. Qualcuno si siede, ma, nel tornare al proprio banco, trascina con sé tutto ciò che incontra, fa cadere oggetti, libri e borsellini dei compagni, inciampa volutamente su borse e cartelle sparse sul pavimento. E di nuovo le urla e le proteste dei proprietari mi impediscono di cominciare l’appello.
“sedetevi e fate silenzio!” Ordino con voce ferma, ma calma, mi illudo ancora che le mie parole d’insegnante possano avere qualche valore per loro, poi però, sono costretta ad arrendermi e comincio a leggere i nomi sull’elenco. Qualcuno risponde “presente” qualcun altro mi indica la presenza del compagno che pur chiamato continua nelle sue attività ludiche.
Dopo vari tentativi riesco a farmi un’idea di chi è presente e chi no, contando i banchi vuoti ed escludendo quelli i cui proprietari stanno ancora gironzolando per l’aula, e ancora tento di parlare:
“Chi deve giustificare?”
Nessuna risposta.
Guardo il registro cercando i nomi degli assenti del giorno prima e li chiamo uno ad uno. Non mi sentono.
Qualche compagno più attento li strattona per la maglietta indicandogli la cattedra. Eh si, c’è qualcuno dietro quel banco più grande degli altri che cerca disperatamente di farsi notare. A gesti faccio capire loro che devono portarmi il libretto da firmare, ma solo alcuni l’hanno portato, gli altri con un alzata di spalle mi fanno sapere di averlo dimenticato e poi, quasi infastiditi per l’interruzione, riprendono le loro chiacchiere.
Di nuovo la mia mano si schianta contro il duro legno della cattedra, ma non fa abbastanza rumore, nessuno ci fa caso. Allora prendo un libro e con quello colpisco il ripiano. Il suono secco del legno attira finalmente la loro attenzione, si voltano verso di me per qualche secondo. Devo fare in fretta, penso.
Prendo fiato e inizio subito a spiegare.
“I maggiori rappresentanti del realismo francese sono…” mentre parlo, noto che pochi hanno preso il libro, eppure interrompere il flusso continuo delle parole per invitarli a mettere sul banco il materiale utile allo svolgimento della lezione potrebbe essere molto rischioso. Fermarmi e chiedere loro di fare un minimo movimento per tirar fuori il volume dallo zaino equivarrebbe a dare il via ad uno tsunami, ne sono certa. Eppure devo fare qualcosa, almeno devo dare la possibilità ai pochi interessati di appuntarsi correttamente il nome degli artisti.
La lavagna è dietro di me. Mi sento come Dottor Who alle prese con un angelo piangente. Cosa succederà nel momento in cui darò loro le spalle per scrivere alla lavagna? Vorrei non doverlo scoprire, ma poi, dal fondo della stanza, arriva come una condanna la domanda che non avrei voluto sentire. “professoressa come si scrive il nome di questo pittore?”
Provo a sillabarlo.
“Come? Non ho sentito.” Risponde.
In effetti, per giungere all’ultimo banco, la mia voce deve passare attraverso il bar dello sport, situato in seconda fila, la curva sud che si è radunata in terza e così via.
Mi faccio coraggio, non posso farne a meno, prendo il gesso e velocemente mi volto e comincio a scrivere. Sento il rumore crescere, simile a quello prodotto da una mandria di bufali impazziti in avvicinamento.
Lascio la scritta a metà, non posso più tollerarlo. La mia faccia ha ormai assunto tutti i colori dell’iride, passando dal rosso a viola scuro e sento le mie orecchie andare a fuoco. “Basta! Finitela! Non è possibile fare lezione in queste condizioni!” grido, cercando di superare le voci della tifoseria. Mi risponde un ragazzino, vestito elegantemente, con un taglio di capelli all’ultima moda come altri migliaia di ragazzi della stessa età:
“ma noi non vogliamo fare lezione!” Gli altri ridono.
Cerco di spiegare che, se anche uno solo di loro volesse imparare qualcosa, i suoi diritti andrebbero rispettati… e continuo il mio discorso, finché il rumore non torna a coprire la mia voce. Qualcuno ha anche tirato fuori il flauto dallo zaino e ha iniziato a produrre note a caso.
Non riesco più a parlare, minaccio di chiamare il preside, poi afferro il registro di classe e pronuncio la fatidica parola “nota”.
Purtroppo mi rendo conto di non conoscere ancora i loro nomi, l’anno scolastico è appena iniziato ed io sono alla mia seconda lezione in quella classe. Mi affido alla mappa: un foglio in cui sono stati disegnati i banchi con su scritto il nome dell’occupante. Guardo la mappa e poi guardo gli alunni. Dove dovrebbero esserci delle ragazze, trovo dei nomi maschili e capisco che nessuno si trova dove dovrebbe essere. Come distinguere i colpevoli dagli innocenti? Sono troppi, non posso scrivere una nota con un elenco di venti nomi e salvarne cinque o sei. La baraonda continua, almeno dieci ragazzini sono in piedi e si strattonano fra di loro, non so i loro nomi, non voglio mettere la nota di classe, ma non so i loro nomi. Sento la rabbia salire perché so già cosa mi aspetta.
“Tu con la maglietta rossa!” nessuna risposta. Lo indico, faccio cenni ai compagni. Alla fine qualcuno lo chiama, ma non per nome. Nel frattempo ce ne sono altri nove che pascolano liberamente fra i banchi, prendendo le matite dei compagni per indurli a reagire. “Tu con il ciuffo biondo… tu con i pantaloni calati, tu… tu e tu…” Sono riuscita ad attirare la loro attenzione.
“Tu come ti chiami? E tu?” stessa domanda per tutti, ma non tutti rispondono. Oppure danno il nome di un compagno, uno di quelli “innocenti” e nessuno li contraddice, pur rischiando di prendere una nota al loro posto. E’ solidarietà o paura, mi chiedo.
Ho un'altra soluzione al problema dei nomi e mi gioco la mia ultima carta.
“dammi il diario!” Ordino. “Scriverò direttamente ai tuoi genitori.” Mi risuonano in testa le parole dei colleghi, i loro consigli: scrivi a casa, avvisa i genitori. Ma il diario, ovviamente, non mi viene consegnato. Le risposte variano dal più diplomatico “non ce l’ho!” al più semplice e sbrigativo “NO!”
Non mi è permesso frugare negli zaini per prenderlo perché noi insegnanti dobbiamo rispettare la privacy e le proprietà degli alunni, dunque insisto. “prendi il diario!” Non capisco come non siano terrorizzati davanti a me, visto che ormai il sangue mi sta salendo al cervello e l’unica cosa che vorrei in questo momento è vedere il maleducato di turno appeso per i piedi. Evidentemente la mia espressione non rispecchia affatto i miei pensieri.
Ottengo alcuni diari, o ciò che ne rimane: poche pagine tenute insieme alla meglio da metri di scotch, ma di quei diari, solo uno o due appartengono ai colpevoli, gli altri sono stati sfilati ai soliti innocenti che iniziano a protestare…. Urlando anche loro naturalmente. Tengo con me solo i diari che sono certa appartengono ai colpevoli, restituisco gli altri e marcio verso la porta. Non tutto è perduto, chiamerò il preside, mi illudo ancora una volta. Nel frattempo continuano a volare oggetti, due ragazzi si accapigliano, le urla delle ragazze mi spingono a voltarmi, e, mentre l’agognata porta è ancora lontana, sono costretta a tornare indietro per separarli. Mi avvicino e li richiamo a voce, gli alunni non si possono toccare, si rischia una denuncia, ma non posso nemmeno permettere che si prendano a pugni. Gesticolo e minaccio, ma loro continuano. Ad uno dei due saltano gli occhiali, è lui il più debole, l’altro un energumeno molto più alto di lui e di me cerca di afferrarlo per il collo. Devo fermarli. Con le mani alzate, come chi vuole dimostrare di essere disarmato, mi getto fra il violento e la sua vittima.
“Lascialo stare!” urlo. “non ti devi permettere.”
Dopo essermi quasi passato sopra per raggiungere l’altro, scatenando in me una furia omicida che avrebbe fatto impallidire Jack lo squartatore, sento alle mie spalle la vocina stridula del ragazzino che ha perso gli occhiali.
“Professore’, stavamo a scherza’!” Il bullo conferma e i due si esibiscono in un amichevole abbraccio.
Mentre io, povera sciocca, cerco ancora di far capire loro che afferrare un compagno per il collo non è proprio una dimostrazione di amicizia. Ma perché sprecare il fiato? La mia meta è ancora la porta, la presidenza, l’angelo vendicatore degli insegnanti. Mi volto e provo di nuovo a guadagnare l’uscita. Ho l’impressione di attraversare la strada sotto i bombardamenti: i borsellini hanno ripreso a volare, e da un angolo all’altro dell’aula sfrecciano gomme e quaderni.
Quando, finalmente, raggiungo la soglia, mi aggrappo alla maniglia della porta e la spalanco come fossero i cancelli del paradiso. C’è silenzio in corridoio, un meraviglioso silenzio, se potessi, chiuderei tutti in classe e attenderei li fino al suono della campanella, ma ho ancora una missione da compiere: la presidenza… o morte. Avrò bisogno di qualcuno che stia in classe mentre accompagnerò i colpevoli al piano inferiore, quindi guardo verso la postazione del “collaboratore scolastico”, ora si chiama così, anche se io preferisco il nome più tradizionale “bidello”, insomma comunque si chiami, non c’è. Impallidisco: non posso uscire, non posso chiamare nessuno, sono sola. Abbasso lo sguardo, ho ancora i diari tra le mani. Cerco affannosamente di trovare la pagina con la data giusta, ma, man mano che sfoglio il diario mi rendo conto che sarà un’impresa persino trovare uno spazio libero per scrivere tra scarabocchi, figurine e pagine strappate. Alla fine trovo un angolino tra una barzelletta e i compiti di matematica, sono così agitata che non so scegliere le parole per descrivere il comportamento di certi ragazzi: un semplice “disturba la lezione” non renderebbe mai l’idea di quello che sta succedendo in quest’aula. Mentre sono presa da tale ragionamento mi sento strattonare.
“Professore’ posso andare al bagno?”
Mi volto e trovo almeno cinque ragazzini accalcati dietro di me, un secondo dopo, tutti mi hanno già fatto la stessa richiesta.
“Vi sembra il momento per andare in bagno? Alla prima ora non si può andare, a meno che non sia urgentissimo!” ricordo loro con piglio severo.
“Embe’ è urgente, mi sto’ a cacà sotto” è la risposta che ottengo.
“Ci andrai al cambio dell’ora, ora torna al tuo posto.” insisto.
“Professore’, se non mi mandi al bagno, io mo cago nel cestino.”
Vorrei davvero che lo facesse, almeno avrei un appiglio per chiederne la sospensione, ma purtroppo le sue minacce non sono altro che volgari sbruffonate, e alla fine dopo un tira e molla di almeno cinque minuti, lo convinco a mettersi seduto. Beh… non è che lo convinco… diciamo che dimentico di non dover urlare troppo per il bene delle mie corde vocali e tiro fuori un acuto degno della Callas, anche se immediatamente me ne pento, adesso dovrò cercare di stare a riposo per almeno dieci giorni. Che farò? Mi licenzierò? Non sarebbe un’idea da scartare.
Intanto anche gli altri falsi incontinenti si dirigono protestando verso il proprio banco. Il mio urlo disumano sembra aver ottenuto qualche effetto, ma l’illusione dura poco, quando finalmente credo di avere la situazione sotto controllo ecco che un ragazzino basso, con i capelli irrigiditi da mezzo tubetto di gel e i pantaloni che nemmeno raggiungono le natiche, insomma identico agli altri, ah, no, questo ha gli occhiali (dovrò ricordarmelo), si avvicina e mi chiede candidamente di poter andare al bagno. Lo fisso con aria incredula, ma dove si trovava finora? Alzo lo sguardo e vedo che, alle sue spalle, si è riformata la fila, sono tutti li pronti a reclamare il loro diritto di andare in bagno nel momento in cui autorizzerò il galletto occhialuto. Sento qualcosa di molto simile al rigurgito infuocato di un drago sgorgarmi dalla gola.
“VAI A SEDERTI!” ruggisco.
Una mandria impazzita corre via da me travolgendo tavoli e sedie. Nel cercare di tornare al proprio banco, ogni alunno spinge via quello del vicino, che a sua volta per dispetto ribalta all’altro la sedia, in una concatenazione di fragorosi crolli. Tutto si placa dopo circa un minuto, ma qualcosa non torna: ci sono più banchi liberi di quanti ce ne dovrebbero essere. Il mio sguardo corre all’armadio in fondo all’aula; era aperto prima che voltassi le spalle, perché ora è chiuso? Non mi sfiora nemmeno l’idea che qualcuno sia stato tanto diligente da riporre la cartella e chiudere l’anta, quindi sfreccio come una furia verso il mobile di metallo e lo spalanco rumorosamente. All’intero due ragazzi sghignazzano in modo sguaiato.
“Uscite subito!” tento di urlare ancora, ma le mie corde vocali emettono ormai solo un debole suono gracchiante. Tossisco.
Nella mia mente si formano una serie di immagini, ricordi di vecchi film, l’Esorcista sembra essere il più gettonato dal mio cervello.
Poi il suono della campanella mi raggiunge e un brivido mi scorre lungo la schiena, mentre realizzo che è trascorsa un’ora … me ne restano ancora quattro stamattina, poi altri cinque giorni per finire la settimana, otto mesi per terminare l’anno scolastico e un centinaio d’anni fino alla pensione.




Continua?






  
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