~ 6°_ Back to the
reality? ~
«Ok, qualcuno ora si decide a
dirmi di preciso che cosa è successo?».
La domanda di Thad lasciò
tutti senza parole, costringendo i sorrisi che avevano avuto fino a quel
momento a lasciare le loro labbra e gli occhi a guardarsi fra loro indecisi.
Il ragazzo, che si era da
pochissimo svegliato, non riusciva a capire il motivo di tutta quella reticenza:
che cosa gli stavano nascondendo? Era successo qualcosa che non volevano sapesse?
Qualcosa di grave, forse?
«...Devo preoccuparmi?»,
chiese ancora, con voce più incerta.
«No, tesoro. È tutto a posto:
semplicemente, ti sei appena svegliato e nessuno vuole stancarti troppo...»,
tentò di rassicurarlo la madre, ma il Warbler non aveva alcuna intenzione di
mollare, soprattutto perché i suoi amici non sembravano avere un bell'aspetto e
– diavolo! – lui si era appena ripreso
in un letto di ospedale, con un braccio ingessato dalla spalla in giù, un
terribile mal di testa, svariati graffi e lividi e almeno dieci persone accanto
al letto.
Meritava assolutamente una
spiegazione. E poi... alcuni mancavano all'appello. Nick e Jeff, ad esempio – e
Dio solo sapeva che cosa lo stesse trattenendo dall'andare completamente in
paranoia.
E Sebastian. Mancava anche
Sebastian.
«Sto benissimo, mamma. Sto
abbastanza bene da poter sapere che cosa ci è successo!», si impuntò e
nonostante gli sguardi severi che gli lanciarono i suoi genitori, spostò lo
sguardo sui suoi compagni, deciso a non smettere di guardarli fino a che
qualcuno di loro non avesse ceduto, parlando.
«C'è... c'è stata...
un'esplosione», sussurrò Trent, il primo a crollare
«Al McKinley».
Thad si sentì gelare: tentò di
ricordare qualcosa, ma tutto quello che ottenne fu una fitta alla testa che
prese a girare. Chiuse gli occhi e respirò con lentezza, cercando di mantenere
la calma.
«Qua-qualcuno si è ferito?
Qualcuno oltre a me?», riuscì a domandare con voce tremula.
Gli altri si guardarono
attorno per un attimo, mandandolo stavolta davvero in panico.
«No, nessuno in particolare.
Siamo tutti un po' ammaccati, ma nulla di grave», lo rassicurò Flint, ma Thad
continuava a guardarli come se sapesse che c’era qualcosa che non gli avevano
ancora detto.
«Allora dove sono Nick e Jeff?
Manca anche Sebastian…».
Quell’ultima frase l’aveva
sussurrata a mezza voce, quasi fosse indeciso se dirla o meno.
«Nick e Jeff hanno
accompagnato un ragazzo alla ricerca di Blaine – diceva di essere suo fratello,
ma abbiamo dovuto davvero fare uno sforzo per ricordare se qualche volta aveva
accennato al fatto che ne avesse uno. Sebastian invece… è andato via poco fa,
sta bene anche lui».
Tipico, si ritrovò a pensare il Warbler e si rifiutò di
constatare che quel pensiero faceva davvero male. La madre gli sfiorò la ciocca
di capelli che calava sulla fronte.
«Sai, a me sembra davvero un
ragazzo a modo, un bravo compagno di stanza».
La risata che sfuggì dalle
labbra di Thad fu quasi spaventosa e gli provocò una brutta fitta al petto.
«Tu non hai idea di come sia Smythe, mamma! Ti potrà anche essere parso
a modo, ma lo avrà fatto solo per rispetto di persone che non conosce e della
situazione, non per altro. E non è affatto un bravo compagno di stanza,
considerato che ormai passa il tempo ad ignorarmi! Effettivamente, non ho un compagno di stanza. Non più. E
la dimostrazione sta nel fatto che ora non è qui con gli altri».
Lo aveva detto. Finalmente
aveva sfogato quanto meno la rabbia e la frustrazione che stava provando da una
settimana ormai. Non era ancora stato in grado di dire che la tutta quella
storia lo feriva terribilmente, ma quello avrebbe richiesto una riflessione
maggiore, prima con se stesso.
A Thad pareva di tremare una
volta gettato fuori un simile sfogo ed improvvisamente aveva voglia di
piangere. Perché non poteva negare che Sebastian era stato uno dei suoi primi
pensieri non appena si era svegliato ed il fatto che non fosse lì con gli altri
era una cosa che, certo, si aspettava, ma che comunque faceva male.
Si distese un po' meglio nel
letto, chiudendo gli occhi: di certo non poteva permettersi di crollare in un
momento del genere, quindi doveva ritrovare la calma ed il controllo che aveva
sempre avuto e che lo stava aiutando da quando erano cominciate le
incomprensioni con Smythe.
Proprio in quel momento Nick e
Jeff entrarono velocemente in stanza, bloccandosi per qualche istante, sorpresi
di vedere il loro amico davvero sveglio, e poi gettandosi su di lui con una
certa goffaggine, di cui si resero conto quando Thad si lasciò sfuggire un
lamento.
«Ragazzi, calma, così mi fate
male!», li pregò, ma tutti si resero conto delle sfumature di gioia che aveva
nella voce e quando i due ragazzi lo lasciarono andare, stava sorridendo ad
entrambi, gli occhi lucidi ed il pensiero di Sebastian un po’ più lontano.
«Quando non vi ho visti, mi è
preso un colpo!», spiegò come se volesse rimproverarli della momentanea
assenza, ma lo sguardo serio di Nick lo trattenne dal continuare.
Li osservò per qualche
silenzioso momento, prestando attenzione ad ogni parte del viso, agli occhi
stanchi, alle leggere rughe che solcavano la fronte, le labbra tese, il
colorito pallido. No, non era affatto un buon momento per scherzare, neanche
per tentare di scherzare. Jeff soprattutto pareva così diverso dal solito, che
ancora una volta Thad ebbe paura gli stessero nascondendo qualcosa.
«Hey…»,
sussurrò, prendendo la mano del biondo e facendo sì che lo guardasse.
«Ci… ci hai spaventati, Thad»,
disse quello, tremante e sarebbe bastato guardare gli altri negli occhi per
capire che stavano pensando tutti la stessa cosa.
«Abbiamo pensato che tu… che,
insomma, tu…», ma neanche Nick ce la fece ad andare avanti – non che servisse a
capire dove stava per andare a parare quella frase.
Il ragazzo si voltò, serio,
verso i genitori.
«Sto bene, per ora. E mi
dispiace per quello che avete passato…», si scusò, facendo sorridere un po’
tutti, tranne gli ultimi arrivati che tornarono quasi subito seri.
«Si può sapere che avete voi
due?», chiese allora Thad, ignorando una fitta al petto.
Nick e Jeff si guardarono per
qualche istante, come se fossero indecisi su quale risposta dare.
«Abbiamo… accompagnato il fratello di Blaine
fino al reparto dove sono le New Direction e-».
«Lui sta bene?», intervenne James, e Jeff annuì appena.
«Lui sì… ma… Kurt, lui… è in coma».
Dire quelle parole gli parve al contempo una liberazione
ed una condanna. Non doveva portarselo più dentro, da solo, ma allo stesso
tempo dirlo a qualcun altro, dirlo ad alta voce lo rendeva così vero da star
male. In un attimo, tutti gli sguardi furono su di lui, sconvolti, mentre
pregavano di aver capito male. Il biondo abbassò la testa ed annuì ancora, come
a confermare loro che non si stava inventando nulla.
«… era con me», la voce di Thad ruppe il triste silenzio
«era con me quando è successo, eravamo in mensa e stavamo parlando e poi…».
Singhiozzò. Singhiozzò perché non ci stava capendo più
nulla, perché Kurt era in coma e lui era sveglio nonostante fossero nella
stessa stanza, perché i suoi genitori ed i suoi amici potevano tirare un
sospiro di sollievo e sperare bene, mentre Blaine, gli Hummel-Hudson e le New Direction
non sapevano neanche se si sarebbe ripreso.
Mentre piangeva, si accorse a mala pena che la madre gli
si era avvicinata e lo stava, ora, stringendo a sé con amore.
«Va tutto bene, tesoro mio. Starà bene anche lui,
vedrai».
«Era con me, mamma! Nella stessa stanza… perché io posso
abbracciarti e lui non può farlo? Perché io sono sveglio e lui invece no?».
Thad piangeva come un bambino, i singhiozzi scandivano il
tempo in quella stanza. Non riusciva a capacitarsene, non poteva essere così…
era tutto sbagliato: non sarebbe dovuta esserci alcuna esplosione e soprattutto
se lui era sveglio, allora avrebbe dovuto svegliarsi anche Kurt.
Perché non era così?
Melissa non seppe rispondergli, perché in fondo non c’era
una ragione.
*
«Come sta?».
«No-non è cambiato nulla...»
Carole sospirò, il viso stanco e pallido, mentre il
professor Shuester poggiava una mano sulla spalla di
Burt in un affettuoso gesto di conforto. L'uomo quasi sussultò a quel contatto
caldo e ringraziò Will con un rapido sguardo.
«Sono ragazzi», continuò l'insegnante «Sono molto più
forti di quello che ci aspetteremmo, molto più forti di noi. Kurt lo ha già
dimostrato tante volte: ora non sarà da meno», tentò di rassicurarli, per quel
che poteva.
Burt gli diresse uno sguardo fiero: ovvio che Kurt ce
l'avrebbe fatta, era il suo ometto ed era abbastanza forte da venire a capo
anche di quella complicazione – o almeno quella era la convinzione a cui
cercava di aggrapparsi quanto più saldamente possibile.
Si guardò intorno: tutti i ragazzi del Glee erano ancora
nel corridoio, storditi e sporchi, ma ancora lì che cercavano di farsi forza a
vicenda ed ogni tanto sbirciavano dal vetro della stanza per vedere se c'erano
dei cambiamenti: tutto sembrava loro così strano che, a parte Finn, soltanto
Rachel e Mercedes aveva avuto il coraggio di entrare in camera e sedersi
accanto all’amico, mentre gli altri aveva scosso la testa e fatto un passo
indietro, intimoriti.
Blaine, invece, era un caso a parte. In quelle ore non
aveva lasciato da solo Kurt se non per prendere una boccata d'aria. Era sempre
lì, ora seduto accanto a lui, ora in un angolino della stanza per lasciare il
posto ad altri, ma non lo aveva perso di vista neanche un attimo, i suoi occhi
vigili pronti a catturare ogni minimo cambiamento. Suo fratello era rimasto
seduto in corridoio, un po' in disparte, e si guardava intorno come se si
sentisse fuori posto, ma non avesse intenzione di lasciare il più piccolo da
solo. Ogni tanto aveva provato ad avvicinarsi, a dire qualcosa a Blaine, ma
questi il più delle volte era parso non sentirlo, così che dopo un po' ci aveva
rinunciato. Nessuno sapeva che cosa fosse successo tra loro, ma era chiaro che
non fosse nulla di buono.
«Ragazzi, dovrete essere stanchi e tra poco sarà notte,
perché non tornate tutti quanti a casa? Prometto che avviseremo tutti se ci
dovessero essere dei cambiamenti, ma adesso credo che farebbe bene anche a voi
riposarvi un po'», li incoraggiò Carole.
I membri delle New Direction
si guardarono dubbiosi: certo, l'idea di tornare a casa, dalle proprie
famiglie e stare con loro era la migliore al momento, ma nessuno aveva davvero
il coraggio di lasciare Kurt da solo, anche se la loro presenza non avrebbe di
certo fatto la differenza per la sua guarigione.
«Tranquilli, tornerete domani», si unì la voce del
professore «Ora abbiamo davvero tutti bisogno di un po' di riposo».
Quelle parole incoraggiarono i primi, che si alzarono
dalle sedie e si avvicinarono al vetro, per dare un ultimo sguardo all'amico.
Tutti esitarono nello staccarsi da lì, chi più chi meno e Mercedes si sciolse
in lacrime fra le braccia di Sam prima di andare via.
L'unica a non essersi mossa, neanche dopo di lei, che
pure ci aveva messo tanto a lasciar andare Kurt, era stata Rachel. Finn le si
avvicinò cauto, sedendosi accanto a lei e tirandola a sé con un braccio intorno
alle spalle.
«Vuoi che ti accompagni a casa?», le chiese gentile, ma
lei scosse appena la testa.
«Non voglio lasciarlo e neanche te».
Il più alto la guardò dolce: le aveva dato il primo
sorriso, anche se leggero, della giornata.
«Non siamo da soli: ci sono i
miei genitori e Blaine, staremo bene. Ma tu che puoi, va a casa».
«Posso accompagnarti io», si
offrì Will «Così Finn non dovrà lasciare suo fratello».
Rachel ci pensò per qualche
istante, poi annuì, alzandosi. Qualche altra lacrima scappò dalle sue ciglia
mentre salutava il suo migliore amico ed il professor Shue
dovette quasi trascinarla via o non se ne sarebbe più andata.
«Forse sarebbe il caso che
riposaste un po' anche voi...».
La voce di Cooper attirò
l'attenzione della famiglia Hummel-Hudson. Burt lo osservò per qualche istante,
cercando di capire che tipo fosse: era come il resto della famiglia di Blaine,
la pensava allo stesso modo? O forse era diverso? Era l'unico membro degli
Anderson che si era degnato di correre dal ragazzo di suo figlio, questo era
vero, ma sentiva di non potersi ancora fidare di lui, soprattutto per il modo
in cui lo trattava Blaine.
«Che intenzione hai con tuo
fratello?», chiese, senza curarsi di quello che l'altro aveva appena detto: suo
figlio era in coma e lui stava troppo male per permettere che anche Blaine
soffrire – più di quanto non stesse anche lui già facendo.
«Io... sono qua per lui», rispose
spiazzato il maggiore degli Anderson.
«Come ci sono ogni giorno i
suoi genitori?».
«Non ho nulla a che fare con
loro, signore», stavolta il tono era uscito nervoso e risentito.
«Sarà meglio per te. Ho già un
figlio in coma, non lascerò che ne feriscano un altro, soprattutto in un
momento del genere», si premurò di mettere da subito in chiaro Burt.
Cooper lo guardò stranito per
qualche istante. Che cosa aveva detto? “Ferire un altro figlio”? Non gli ci
volle più di qualche istante per capire che si era davvero riferito a Blaine
con quell’appellativo. Restò a guardare quell’uomo, che pure in una simile
situazione si stava preoccupando per suo fratello, abbastanza a lungo da far
capire che non avrebbe replicato.
Burt gli si avvicinò, senza
perdere il contatto visivo con il suo sguardo azzurro.
«Hai la sua stessa luce negli
occhi e forse anche lo stesso cuore», sussurrò, con tono rassicurato.
«Voglio solo stargli accanto»,
disse l’altro, senza sapere se ci fosse una reale connessione con il resto
delle cose dette. «Ho sbagliato, ma sono pronto a fare ammenda».
L’uomo annuì.
«Ad ogni modo…», tentò di
riprendersi il più giovane «Credo che voi potreste quanto meno prendere
qualcosa alla mensa e cenare: resto io con Blaine e vi chiameremo si ci fossero
dei cambiamenti».
Burt rimase incerto per
qualche istante, voltandosi a guardare la stanza dove c’era Kurt: gli girò la testa solo al pensiero che sarebbe potuto
succedere qualcosa mentre non c’era – e chissà poi che cosa avrebbe poi potuto
fare lui, se le condizioni di suo figlio fossero peggiorate!
A Cooper si strinse nuovamente
il cuore, ma i suoi occhi non persero la fermezza di quella proposta, così che
quando anche Carole incoraggiò il marito a prendersi una pausa, l’uomo cedette
e si avviò lentamente lungo il corridoio con il resto della famiglia. Il
maggiore degli Anderson si accostò alla porta della stanza, per un attimo
indeciso su se entrare o lasciare ancora un po’ Blaine da solo con Kurt.
Tuttavia aveva detto che gli sarebbe stato accanto e voleva davvero farlo.
Suo fratello se ne stava nella
stessa posizione in cui lo aveva lasciato, seduto accanto al fidanzato, una
mano nella sua e l’altra che al momento gli sfiorava i capelli. Gli si avvicinò
con lentezza, senza sapere se quello lo avesse sentito entrare o meno, almeno
fino a che, però, non lo vide sorprendersi della sua mano che gli stringeva la
spalla.
Blaine si voltò di scatto,
guardandolo fisso, quasi non lo riconoscesse.
«Hey,
sono io...», lo rassicurò il maggiore «Come... come stai?».
«Avevo dimenticato che fossi
qui... scusa...».
Coop annuì. Sì, era naturale.
Restò a guardarlo ancora per qualche istante, poi si sedette ai bordi del
letto, senza perdere di vista i suoi movimenti.
«Starà bene. Da quello che mi
hai detto, è forte abbastanza da superarlo, no?», cercò di rassicurarlo.
«Poco ma sicuro. Tu non sai
quanto sia forte. Ne ha passate tante e...».
Tacque. Lentamente, la
consapevolezza di quello che stava succedendo cominciava a schiacciarlo fino a
togliergli il respiro. Si sarebbe ripreso. Sì, si sarebbe ripreso: era
inconcepibile il contrario, una vita senza lui. Si sarebbe ripreso... giusto?
Le lacrime scesero prima che
potesse fermarle. Dopo lo scoppio iniziale, aveva cercato di controllarsi,
anche solo per sembrare forte agli occhi degli altri, per non essere quello di
cui avere pietà, un’altra vittima. Ora che era da solo, però, sentiva che stava
per crollare. Non era certo di nulla e neanche riusciva ad immaginare una vita
in cui non fosse compreso Kurt.
Suo fratello si sporse verso
di lui e lo strinse a sé con l'intenzione di non lasciarlo andare, neanche se
si fosse opposto a quel gesto, ma stavolta Blaine non fu in grado di rinunciare
a quell'affetto, al calore umano di cui aveva bisogno. Odiava sentirsi così, ma
non poteva fare a meno dell'abbraccio che gli stava offrendo suo fratello.
«Non devo essere debole. Lo
devo a Kurt e al signor Hummel – avrà bisogno di tutto il sostegno possibile,
non posso venir meno».
Cooper lo guardò per qualche
istante: negli occhi d'ambra del fratello c'era una convinzione ed un affetto
che non si sarebbe aspettato.
«Non devi fare la parte l'eroe
impavido davanti a me, fratellino...», sussurrò, ma l'altro scosse la testa.
«No, tu non capisci... Non
posso diventare un altro peso per la sua famiglia, al momento», spiegò
guardando di nuovo Kurt.
«Non lo sei, credimi. Il
signor Hummel… ho notato che tiene particolarmente a te», azzardò, pensieroso e
vide suo fratello sorridere per la prima volta da quando era arrivato.
«Sai, lui è il contrario di papà.
Quando Kurt ha fatto coming-out, la prima cosa che
gli ha detto è stata che lo aveva sempre saputo, che non cambiava il fatto che
fosse suo figlio e che lo avrebbe amato allo stesso modo. Sono il primo ragazzo
che Kurt abbia avuto e all’inizio avevo il terrore che il signor Hummel ci
spiasse dalla serratura ogni volta che andavamo in camera da soli, pronto a far
fuoco col fucile alla prima mossa falsa… Invece, per quanto sia protettivo, mi
ha introdotto nella sua famiglia come se fosse la cosa più naturale del mondo e
in breve è diventato una delle persone di cui mi importa di più il giudizio,
forse il solo da cui correrei per un consiglio…».
«Tiene a te come ad un
figlio», sorrise Cooper e fu difficile nascondere gli occhi lucidi di
commozione.
Anche quelli di Blaine si
illuminarono, diventando due pozze profonde. In fondo lo aveva immaginato,
sapeva che Burt fosse affezionato a lui, ma sentirlo dire da qualcuno gli aveva
provocato una fitta allo stomaco dolorosamente dolce, che non avrebbe saputo
descrivere e in qualche modo lo rendeva orgoglioso.
Sfiorò di nuovo i capelli del
suo ragazzo, guardandolo con affetto. Quando rialzò lo sguardo sul fratello, lo
trovò in lacrime: alcune erano ancora trattenute tra le ciglia e nello sguardo
chiaro, altre gli avevano già bagnato le guance e scendevano verso il mento.
Restò per qualche istante paralizzato: non aveva mai visto Cooper piangere, non
così apertamente, non davanti a lui. Era come se fosse senza alcuna difesa,
come se si stesse mostrando a lui nel modo più fragile che conoscesse.
«Coop… cosa?».
«Mi dispiace, mi dispiace così
tanto…», balbettò tra i singhiozzi, con voce spezzata «Io… tu avevi bisogno di
qualcuno che ti stesse vicino ed io… io neanche sapevo che cosa stessi
passando. Dovrò ringraziare Kurt e tutta la sua famiglia per quello che hanno
fatto…».
Blaine non sapeva che cosa
dire. La rabbia era ancora lì ad agitarlo, così come la paura che suo fratello
se ne sarebbe andato di nuovo, eppure vederlo in quello stato stava lentamente
abbattendo il muro di diffidenza che aveva eretto a sua difesa.
Cooper sembrava sincero e
stava piangendo. In fondo non era una cattiva persona, non lo era mai stato… e,
certo, avevano avuto i loro disaccordi, anche abbastanza profondi, ma
appartenevano al passato.
«C’è sempre tempo per
migliorare, Coop», gli concesse e seppe che ne era valsa la pena non appena
vide il brillio di speranza che illuminò l’azzurro di quello sguardo. Gli
strinse una mano e parve che la vertigine che lo accompagnava da quella mattina
gli desse un po’ di tregua.
Aveva nuova forza per sperare.
*
«La ringraziamo davvero tanto
per essersi occupata di lei ed averla portata a casa, professore».
«Si figuri, signor Berry, è il
minimo che potessi fare dopo…».
Will trattenne il fiato, il
ricordo di quello che era successo solo quella mattina che gli faceva girare la
testa. Sembravano secoli.
«Posso… possiamo offrirle
qualcosa, magari un caffè?», propose gentile Hiram, facendo un passo verso
l’interno, come ad invogliarlo ad entrare, ma l’uomo scosse la testa con un
sorriso.
«No, la ringrazio tanto. Devo
tornare a casa, Emma sarà sicuramente in pensiero», spiegò.
Diede poi un ultimo sguardo ad
una confusa Rachel, stretta nell’abbraccio di LeRoy e li salutò, augurando un
grottesco “buonanotte” di cortesia.
Guidò verso casa con quanta
più velocità potesse, il bisogno improvviso di essere stretto tra le braccia
della sua fidanzata che gli attanagliava il petto; le lacrime, che dopo una
simile giornata non erano mai riuscite ad abbattere il suo muro di compostezza
e forza, ora minacciavano di scendere senza pudore e sapeva che sarebbe stato
meglio se fosse successo tra le braccia di Emma, al sicuro da tutto.
Appena ebbe parcheggiato,
scese e percosse correndo il vialetto che lo separava da casa. Non ebbe neanche
bisogno di fermarsi, perché Emma aveva sentito la sua macchina e gli aveva
appena aperto la porta, così che non dovette fare altro che volarle tra le sue braccia
e si sentì a casa.
La rossa lo strinse forte a
sé, incurante del fatto che fosse ancora sporco di polvere e Will respirò a
pieni polmoni il suo profumo di pulito – una boccata d’aria in tutta quella
situazione. Le prime lacrime cominciarono a scendere senza che avesse più
bisogno di trattenerle: aveva cercato di essere forte per i ragazzi, per essere
qualcuno su cui contare, ma adesso aveva semplicemente bisogno di piangere.
«Ssshh»,
cercò di calmarlo Emma «Sei a casa ora… tranquillo».
Senza sciogliere l’abbraccio,
entrambi si sedettero sul divano del soggiorno, la donna che gli massaggiava la
schiena, sussurrandogli parole di conforto come se fosse un bambino.
Quando a Will parve di
sentirsi un po’ meglio, provò a staccarsi e a guardare Emma negli occhi.
Entrambi avevano lo sguardo lucido e stravolto e non c’era di certo bisogno di
parlare, perché capissero a cosa stesse pensando l’altro.
«Come stanno i ragazzi…?», si
azzardò a chiedere Emma.
Will sospirò, abbassando di
poco la testa.
«Sono per lo più sconvolti e
per lo più con graffi superficiali. Tutti… tranne Kurt… lui… è in coma…»,
sospirò e vide la paura attanagliare la donna, gli occhi inumidirsi
improvvisamente.
La strinse a sé e stavolta fu
lei a tremare per quella notizia.
«Che cosa è successo, Will?
Perché qui, perché ora? Insomma, che cosa abbiamo fatto per meritarci una cosa
del genere?» balbettò sulla sua spalla.
Lui scosse la testa, senza
sapere che cosa dirle, e si accoccolò sul divano, tenendola ancora stretta
nelle sue braccia. Era egoistico da pensare, ma in quel calore e con accanto la
persona che amava, credette di riuscire a trovare un po’ di tranquillità. Il
mondo sarebbe anche potuto crollare, ma lui sarebbe rimasto con i piedi saldi a
terra.
*
Rivedere le mura della Dalton
fu assurdo. La struttura se ne stava lì, maestosa e vecchia come sempre, senza
dare alcun segno della catastrofe che i Warblers si stavano portando dietro;
come se appartenesse ad un altro mondo e la cosa non la sfiorasse minimamente.
Da lontano potevano vedere le luci accese di alcune stanze e, nel silenzio
della sera, si sentiva il chiacchiericcio di chi occupava ancora le sale
comuni.
I ragazzi non riuscivano a
capacitarsi della cosa: la terra sotto i loro piedi pareva ancora tremare e
invece per il resto del mondo, per gli altri ragazzi della Dalton, quello era
stato un giorno come tanti: lezioni, compiti, chiacchierata con gli amici, come
se le cose fossero a posto.
Ma non lo erano. Non lo erano
affatto. Come era possibile che solo a poche ore da McKinley tutto già sembrava
aver dimenticato – no, meglio, sembrava non essersi affatto accorto di quello
che era successo? Era come se fossero in una bolla d’aria e il resto del mondo
fosse irrimediabilmente escluso da quello che provavano.
Quando misero piede
all’interno della Dalton, la bolla tremò.
L’uomo alla reception li
riconobbe immediatamente e scattò in piedi, superando la scrivania e
abbracciandoli come se fossero dei figli. Tutti, ognuno a modo proprio,
conoscevano Thomas e il suo abbraccio fu qualcosa di rassicurante.
«È bello avervi tutti qua»,
sorrise brevemente l’uomo, per poi tornare subito serio «Abbiamo saputo di
Thad. Sta bene, vero?», chiese preoccupato.
Alcuni annuirono senza forze
per parlare.
«Ora sì, Tom», sussurrò poi
James.
L’uomo stette a guardarli per
un po’, cercando di trovare qualcosa che potesse farli stare meglio, ma senza
riuscirci. Stava infatti per aprire bocca, quando un Sebastian pulito e
profumato comparve sulla scena, un sorrisetto sghembo in viso e la solita aria
spavalda. Sembrava il solito stronzetto di sempre, come se avesse stampato in
faccia “Sono tornato. Temete tutti”.
«Era ora!», si lamentò «Ho
quasi creduto che aveste tutti deciso di prendere una camera lì, dato che non
tornavate più!».
La sorpresa di quella battuta
così inappropriata, superficiale e stronza
freddò le risposte di tutti, almeno fino a che Flint non scattò in avanti,
pronto a colpirlo con un pugno se Luke non lo avesse fermato in tempo. Anche
Richard era scattato di un mezzo passo in avanti, ma lo sguardo vagamente
sereno che Cameron gli aveva rivolto lo aveva fermato prima che potesse agire.
«Come diavolo ti permetti!»,
sbottò Jesse «Tu saresti dovuto essere con noi, ad accertarti che Thad stesse
bene!».
«Che inutile perdita di tempo:
la mia presenza non avrebbe di certo fatto la differenza sulla sua salute!».
«Questo non significa un bel
nulla!» controbatté Nick, alterato da quella mancanza di rispetto «E sai che
Kurt è in coma? Rischia di non svegliarsi!»
Sebastian diede loro solo la
soddisfazione di una scrollata di spalle a quella notizia.
«Una faccia da checca in meno
in America», disse atono, prima di voltar loro le spalle e andare via,
lentamente.
Flint fece per inseguirlo,
nero di collera, ma stavolta fu Thomas a fermarlo, scuotendo la testa.
«Immagino sia il suo modo di
elaborare la cosa», gli concesse, ma gli altri scossero la testa: quello era
semplicemente Smythe.
«Comunque, nella sala dei
Warblers sono già arrivati i vostri genitori e il preside è con loro», li
informò.
I ragazzi si guardarono fra
loro: tante volte, in quella maledetta giornata, avevano desiderato rifugiarsi
tra le braccia dei loro genitori, ma adesso che era davvero possibile, un nuovo
senso di vertigine sembrava sconvolgerli: la sensazione che quella visita
improvvisa non facesse altro che aumentare le incongruenze con la classica
routine, ora che invece il bisogno di normalità si faceva sentire. Certo, era
stato strano rendersi conto che la Dalton non era stata affatto sfiorata da
quella tragedia, ma metterci di nuovo piede era stato anche rassicurante,
perché sembrava esserci un posto in cui avrebbero potuto semplicemente
dimenticare e fingere che non fosse successo nulla.
Quando entrarono nella grande
sala e gli occhi degli adulti furono su di loro, la bolla che miracolosamente
li stava tenendo in piedi esplose del tutto.
Ognuno strinse i propri
genitori come se non li vedesse da anni, come il sopravvissuto di un naufragio
– e davvero potevano definirsi sopravvissuti – e alcuni si lasciarono andare
alle lacrime, senza pudore: la scuola in cui si stavano esibendo era esplosa,
crollata – piangere era il minimo che potessero fare.
Il vecchio preside li guardò
commosso, cercando allo stesso tempo di lasciare ad ognuno la privacy che
meritava, e si decise a parlare solo quando si rese conto che la situazione si
era fatta leggermente meno tesa.
«Che notizie avete del vostro
compagno Harwood?», volle innanzitutto accertarsi.
«Sta... sta abbastanza
bene...», sospirò Trent, ancora stretto tra le
braccia della madre. Il preside tirò un pesante respiro di sollievo.
«Si sa cosa ha provocato... tutto
questo?», chiese con voce sottile Ethan.
«Una fuga di gas dalla cucina...
pare sia stata aperta un'inchiesta e coinvolta la ditta di manutenzione che
avrebbe dovuto fare dei controlli approfonditi la scorsa settimana», riferì
l'uomo e i ragazzi si guardarono tra loro.
Ecco perché Thad aveva
rischiato più di tutti: era in mensa quando era esploso tutto. E da quello che
aveva detto di ricodare, Kurt era con lui. Era stata
solo fortuna la loro. Fortuna sfacciata nel trovarsi nei camerini, lontani
dalle cucine, fortuna sfacciata nel non avere avuto fame o sete in quel
momento. Erano semplicemente stati fortunati.
«Se... volete, potete tornare
a casa con i vostri genitori. Almeno qualche giorno. Per stare... più
tranquilli», si preoccupò di consigliare ancora l’uomo, avendo accortezza di
specificare che era una loro scelta.
Gli adulti guardarono i propri
figli come a dir loro di seguire quell'indicazione, ma i più scossero la testa.
No, per quanto sarebbe stato piacevole, finanche rassicurante tornare a casa,
al momento l’unica cosa che volevano davvero era tornare nelle proprie stanze,
con i propri amici, e tentare di dimenticare almeno per una notte. Andare a
casa sarebbe stato strano, fuori routine, non avrebbe fatto altro che ricordar
loro quello che era successo. Invece tutti sentivano semplicemente il bisogno
di un briciolo di quotidianità in quella situazione.
«Sarebbe meglio se tornaste a
casa, almeno per un paio di giorni»,
intervenne il padre di Nicolas, con tono abbastanza serio, ma lo sguardo
del figlio – così simile a quello degli altri Warblers – lo fece esitare.
«Stiamo bene, dopotutto»,
spiegò il ragazzo «E preferiremmo restare qua, tra noi… conservare almeno un
po’ della quotidianità che è stata stravolta oggi… Staremo bene».
Il sospiro tremulo di Jeff
attirò lo sguardo del suo compagno di camera. Il padre lo teneva ancora stretto
a sé, mentre la madre cercava di parlargli senza essere veramente ascoltata.
Abbassò lo sguardo e si strinse nell’abbraccio di sua sorella. Non sapeva che
cosa fare. Probabilmente non avrebbe fatto proprio nulla.
Le proteste degli adulti e le
mediazioni del preside andarono avanti ancora per un po’, ma nessuno dei
ragazzi cambiò idea e anzi si fecero forza tra loro per restare uniti fino a
che non ebbero la meglio. Quando riuscirono tutti a tornare in camera, ormai la
mezzanotte era passata da molto. Se avessero potuto sarebbero rimasti nell’aula
comune tutti insieme, magari passando la nottata a parlare di altro, come in un classico
pigiama party; ma alla fine avevano ceduto – anche sotto insistenza di Thomas –
ed erano tornati nelle rispettive stanze. Vederle, così calme, così pulite ed
ordinate, aveva fatto bene e allo stesso tempo malissimo, come se avvertissero la
strana sensazione di essere al sicuro e allo stesso tempo che quella sicurezza
fosse sbagliata, ma nessuno ci si concentrò troppo – la stanchezza, la voglia
di chiudere gli occhi anche solo per cinque minuti, era troppo forte.
Tranne che per Jeff.
Non che non ci stesse
provando. Si era lavato, scrollandosi da dosso polvere e paura, ed si era
infilato sotto le coperte, salutando il suo compagno di stanza debolmente e
sperando che il sonno avesse la meglio su qualsiasi pensiero. In breve aveva
sentito il respiro di Nick farsi pensate e regolare, segno che almeno a lui
Morfeo aveva concesso un po’ di tregua.
Da quel momento aveva sentito
così tante volte il suo respiro da perderne il conto – non sapeva più neanche
che ora fosse. Non stava dormendo, le parole del moro rimbombavano nelle
orecchie insieme al suono sordo del suo cuore a pezzi ed il sonno se ne stava
quanto più lontano possibile. A nulla era valso cercare di smetterla, cambiare
posizione o leggere qualche pagina del libro che aveva sul comodino: tutto
pareva riportarlo allo stesso punto, fino a che non ci aveva praticamente
rinunciato.
Quanto avrebbe voluto parlarne
con Thad!
Per un attimo, l’idea di
chiamarlo lo accarezzò in modo così suadente che quasi si fece convincere. Solo
quando il cellulare aveva fatto il primo squillo, si rese conto della stupidità
della sua azione. Staccò, sperando che l’amico avesse impostato la vibrazione e
che non avesse svegliato nessuno. Sospirò, stringendo il cellulare tra le mani
e fissando il soffitto buio; poi qualcosa si mosse. Non capì subito cosa fosse,
almeno fino a che non vide il display del cellulare accendersi ad
intermittenza, seguendo le vibrazioni della chiamata in arrivo.
Sussultò. Ecco, aveva svegliato
tutti.
«ScusaThadnonvolevochiamareaquest’oraesvegliarvitutti»,
pronunciò, senza quasi staccare le parole.
«Non hai svegliato nessuno, tranquillo», disse piano l’amico, ormai
abituato a decifrare le sue accozzaglie di parole «Non ho chiuso occhio da quando ve ne siete andati».
«Neanche io…», confessò Jeff,
una volta calmatosi «Tu perché? La spalla fa troppo male? Brutti pensieri?».
«Sai… ho provato a ricordare qualcosa di stamattina… ma
davvero non ci riesco. L’esibizione è confusa e dopo ho il vuoto assoluto. Ricordo
cose a sprazzi, alcune battute, la mensa, tu che mi sistemi i capelli e…» e Sebastian «e nient’altro».
«Non sforzarti. Non è comunque
nulla di importante! Quello che conta è che tu stia bene, che tutti stiamo
bene… e che…» si ricordò improvvisamente di Kurt «…che Kurt si riprenda presto.
Perché è fuori discussione che succeda».
Thad sorrise dell’ottimismo
convinto del suo amico. In fondo, era sul serio inconcepibile che morisse, solo
il pensiero gli faceva girare la testa quasi più del fatto che lui stesso aveva
rischiato di morire. Morire. Non vedere più nessuno, niente più mamma o papà,
niente più Jeff, niente più Nick o Warblers.
Niente più Sebastian.
Quella constatazione lo fece
fremere. Ecco che tornava nella sua testa, come prima che ci fosse l’esplosione
e tutto il resto – perché questo poteva ricordarlo chiaramente. Il suo chiodo
fisso, il fatto che Sebastian non gli parlasse da… da troppo tempo, il fatto
che avesse smesso di considerarlo e che, soprattutto, la cosa lo facesse stare
male come se fosse il suo migliore amico, quando invece restava solo il suo compagno di stanza. La
sensazione di non aver che grattato la superficie con lui e la voglia, invece,
di scoprirlo nel profondo erano cose con cui ormai conviveva da troppo tempo,
che aveva accettato ma a cui non voleva rassegnarsi senza fare nulla.
Ma Sebastian non c’era,
Sebastian non si era fatto vedere da quando lui si era ripreso e la cosa
continuava a fargli male.
«A cosa pensi?», chiese in un
sussurro Jeff, che fino a quel momento aveva rispettato il silenzio dell’amico.
Thad si riscosse con lentezza,
ricordando appena che stava ancora parlando a telefono con il biondo.
«Scusa, io… mi sono distratto».
«Ho notato», sorrise l’altro.
«Jeff… quand’è che se n’è andato?».
L’amico ci mise meno di
qualche istante per capire che si riferiva a Smythe e Thad non si sorprese
neanche del fatto che la cosa fosse così chiara.
«Prima che ti svegliassi,
questo mi pare assodato», rifletté «Quando abbiamo accompagnato Cooper dalle New Direction
c’era ancora… Non ero presente quando tu...
hai avuto... quella crisi, ma credo se ne fosse andato anche lui allora…».
Harwood sospirò piano,
sperando che l'altro non lo sentisse. Nonostante il fatto che Sebastian non
fosse rimasto bruciasse come la peggiore delle ferite che aveva riportato, non
riuscì a trattenersi.
«Ma sta davvero bene?», chiese preoccupato, sempre col timore che fosse ancora
all’oscuro di qualcosa, e Jeff sentì un improvviso moto di rabbia verso Smythe:
non meritava quella preoccupazione, neanche lontanamente – sarebbe dovuto
essere lui quello agitato, lui quello con tono tremante! Non avrebbe dovuto
permettere che invece Thad si preoccupasse così, e il biondo sentì che avrebbe
dovuto fare qualcosa per l’amico, ma non sapeva cosa.
«Fin troppo bene. È il solito
stronzo».
No, non lo era. Di questo Thad
era sicuro. Qualunque cosa fosse successa, nessuno poteva essere così
stronzo, neanche Sebastian. Tirò un sospiro di sollievo e si stese meglio sul
letto: la spalla tirava particolarmente ed era davvero uno dei motivi per cui
non stava ancora dormendo. Ma Jeff? Per Jeff lo aveva chiamato?
«Scusami, tu mi hai chiamato ed io ho monopolizzato la
tua attenzione. Perché mi cercavi?».
Il biondo non era più così
sicuro di volerne parlare. La faccenda di Sebastian sembrava coinvolgere Thad
più di quanto aveva capito.
«Te ne stai innamorando?»,
chiede invece, a bruciapelo, sorprendendo il ragazzo dall’altra parte del
telefono.
«...Cosa...? Perché pensi che io...?».
«Perché sei preoccupato per
lui, quando quello ad essere in ospedale sei tu. E perché saresti pronto a
giustificarlo qualunque cosa ti dicessi sul suo conto».
Thad non sapeva che cosa dire.
Se ne stava innamorando? Lui? Di Sebastian? Non sapeva come rispondere:
la cosa di cui era certo era che voleva vederlo e parlargli, capirlo. Sentiva
di non poterne fare a meno.
«Sento di volergli stare accanto. Cercare di capirlo. C'è
tanto dietro di lui, Jeff. Così tanto… ho l’impressione di non essere più in
grado di allontanarmi da lui».
«Lo amo».
Il bruno sussultò. Che cosa
aveva detto? Lo amava? Chi amava? Di cosa stava parlando adesso?
«Nick. Lo amo. Ora ne sono
certo».
Thad sorrise. Lui ne era
sempre stato certo – e sarebbe stato sconvolgente se si fosse invece riferito a
Smythe. Il tempismo con cui Jeff dava le notizie era una cosa a cui ancora non
si era abituato.
«Lo sapevo! L'ho sempre saputo!», disse felice «Insomma, eravate gli unici a non esserne
ancora consapevoli, noi ci chiedevamo a che momento saremmo dovuti inter-».
«Ha detto di no. Lui non mi ama.
Non sono che un amico».
Quella frase lo freddò come se
lo avessero colpito allo stomaco. Cosa?
«No... non è possibile... Nick-».
«Lo so», sospirò con voce
tremula Jeff «Lo s-so. E... e lo sa a-anche lui».
«Mi sto perdendo, Jeff», ammise Thad, confuso e
nuovamente preoccupato.
«L'ho baciato. Quando l'ho
visto lì fuori, sano e salvo, non sono riuscito a trattenermi e l'ho baciato.
Ero così sollevato, così felice che stesse bene, che la sola cosa che ho
pensato di fare è stato baciarlo. Mi è sembrato così gusto e così bello! E lui
ha ricambiato: mi è parso di alzarmi mezzo metro da terra!».
«Jeff, continuo a non capire quale sia il problema», intervenne l'altro, ma il
sospiro tremulo che sentì lo fece pentire di aver parlato.
«Da quando è successo... non
mi ha più parlato. Neanche una parola. E p-poi mi ha detto c-che non
significava nulla. Che era s-stato solo per il s-sollievo di vedermi v-vivo e
nient'altro».
Stava piangendo. Harwood lo
sentiva singhiozzare e non sapeva cosa fare per calmarlo. Odiava essere così
lontano da lui: avrebbe voluto stringerlo a sé e lasciare che si sfogasse sulla
sua spalla. Ma erano lontani e non aveva altro che le parole da usare.
«Si è spaventato, Jeff. In tutto questo casino si è
spaventato e ha detto la prima cosa che gli è passata per la testa. Sai com'è
fatto Nick...».
«No, non lo so, non lo so più...
è sembrato s-serio mentre parlava, così c-convinto delle parole che d-diceva...
ed io mi sto convincendo che mi va bene così, che alla fine non è cambiato
nulla... ma n-non è vero, cavolo! Non è vero! Perché adesso che l'ho ammesso,
adesso che sono consapevole di amarlo nulla è come prima. Neanche lui!».
«Sssh, tranquillo, tranquillo
Jeff. Ascoltami: cerca di calmarti e di dormire un po'. Ora è tutto così
confuso, compreso Nick. Ma ti vuole bene, davvero bene e tu dovresti saperlo».
«E se non mi bastasse più? Se
lo avessi perso, se avessi fatto una stupidaggine nel baciarlo? Sembrava così
perfetto quel momento ed ora non c'è attimo che passa senza che io me ne
penta».
«Smettila, Jeffie, smettila
subito! Non sei lucido abbastanza per giudicare. Baciarlo è stato giusto,
perché lo ami e sono certo che lui corrisponda. Devi solo dargli tempo».
«Vorrei che fossi qui,
Thad...».
«Anche io, Jeff. Si sistemerà tutto, tornerà tutto alla
normalità, te lo prometto», azzardò: non poteva essere certo di quella promessa, ma
era ciò di cui l'altro aveva bisogno, qualcosa a cui aggrapparsi, anche se non
corrispondeva alla realtà.
Staccare la chiamata fu
difficile per entrambi, ma erano stanchi e alla fine il sonno ebbe davvero la
meglio su tutto. Jeff si addormentò tra le lacrime, che si asciugarono sul suo
viso. Quello di cui non si era accorto era che Nick si era svegliato a metà
delle loro conversazione.
Non era solo Jeff a piangere
in quella stanza.
*
Cooper era stato sempre certo
che, prima o poi, nella sua vita, avrebbe subito una rapina. Dal momento in cui
aveva dovuto fare i conti con un appartamento tutto suo, quella era stata una
certezza che lo aveva accompagnato per tutta la vita, ancora di più quando
aveva cominciato a lavorare ad Hollywood. Insomma, era un bocconcino niente
male e c’erano svariate cose di valore nel suo attico che sarebbero potute
essere poi facilmente vendute ai mercati neri – nozioni basi che aveva dovuto
imparare per il ruolo da ricettatore.
Quello che davvero non si
sarebbe aspettato era di subire la suddetta rapina proprio a casa dei suoi. Insomma,
quante possibilità c’erano che si sarebbe trovato a trascorrere una nottata lì
proprio quando a qualcuno sarebbe venuto voglia di svaligiare casa? Eppure ecco
che qualcuno in piena notte si muoveva furtivo in corridoio per poi aprire
lentamente la porta della sua stanza.
Cooper si irrigidì, tenendo
gli occhi chiusi ma senza perdere neanche uno dei bassissimi rumori che l’altro
faceva muovendosi ed avvicinandosi sempre più al suo letto. Si accorse di
essere in svantaggio nei confronti dello sconosciuto, perché gli voltava le
spalle, ma si decise ad aspettare la sua mossa prima di agire.
Quando sentì, però, il letto
piegarsi sotto il leggero peso dell’altro, non si trattenne e con uno scatto
rapido si voltò verso di lui, pronto a colpirlo. Salvo poi trovarsi davanti
nessun altro se non suo fratello.
«Blaine…», sussurrò sorpreso,
accendendo la lampada che aveva sul comodino «Mi hai spaventato».
«Mi spiace…».
La voce del minore era rotta
dal pianto e Cooper ebbe improvvisamente paura. Era successo qualcosa e non aveva
sentito il telefono squillare? Anzi, era probabile che avessero contattato
Blaine al suo cellulare! Kurt, doveva essere successo qualcosa a Kurt, perché
solo in quel caso suo fratello poteva essere così distrutto.
«Blaine, dì qualcosa! Ti hanno
chiamato? Hai saputo qualcosa delle condizioni di Kurt?», chiese allarmato, ma
il riccio scosse la testa.
«Scusami, scu-sami
tanto C-Cooper, ma non sapevo che cosa fare… lui era lì, così bian-co, era m-morto e mi diceva di lasciar-lo andare e che
mi avrebbe a-amato per sempre… ed io mi s-sono svegliato piangen-do…
e mi fa così male il pet-to che mi sembra di
soffocare. Non sapevo che c-cosa fare, allora ho ricorda-to che tu sei qui e-».
Cooper lo zittì tirandolo
stretto a sé. Tramava e non era di certo per il freddo.
«Sssh…
hai ragione, sono qui con te. Va tutto bene, Blaine. Era solo un brutto sogno e
non si avvererà, tranquillo».
L’altro gli si strinse contro
come se cercasse protezione.
«Ti sembrerò così pa-tetico, Coop. Non sto facendo a-altro che piangere…ma il
pun-to è che a momenti mi sembra di impaz-zire…».
«No, no, Blaine. Stammi a
sentire» e prese il volto del fratello tra le mani «Tu sei uno dei ragazzi più
forti che conosca. Sappiamo quante ne hai passate, tutto quello che ancora
adesso stai affrontando… eppure guardati, sei ancora qua! Ce la stai mettendo
tutta e va bene così: nessuno ti chiede di fare altro. Avere bisogno di
sostegno non è segno di debolezza, solo di intelligenza. Ed io ti ho promesso
che sarei stato accanto a te, per prenderti tutte le volte che avresti perso l’equilibrio.
Quindi ora cerca di calmarti e dormi un po’, d’accordo?».
Il più piccolo annuì appena.
«Di là, da solo, fa freddo…
posso… restare qua con te?».
Cooper non aspettava altro che
quella richiesta. Lo strinse di nuovo a sé e si assicurò che dormisse, prima
che un respiro tremulo uscisse dalle sue labbra.
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Speravate di esservi liberati di me e di questa orribile
storia, non è così? E invece, anche se sono passati davvero secoli dallo scorso
aggiornamento, eccomi di nuovo con un nuovo capitolo!
Ormai non esistono più scuse che reggano per il mio ritardo e ne sono davvero
dispiaciuta.
Spero che il capitolo valga l’attesa e ringrazio tutti
quelli che stanno prestando attenzione a questa storia ♥
A presto! Baci.
Alch ♥