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Autore: ciocco    07/05/2007    1 recensioni
A volte ci si ritrova da soli, alla luce di un tramonto in una sera di maggio e s'inizia a pensare. E i ricordi invadono la mente, e quella vita passata che si era creduto aver scordato improvvisamente torna, e pare più vivida che mai. Così succede anche a Fabio, che si ritrova a ripercorre la sua vita al contrario, passo dopo passo, in una sequenza di ricordi sull'amicizia, l'amore, la musica, il sesso e la vita.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1: Behind blue eyes

 

Il cielo di maggio mi avvolge completamente con il suo odore tenue e la sua luce soffusa mentre sono ancora a letto, sdraiato nell’ombra di un tramonto semi estivo a contemplare il nulla. L’odore dei ciliegi di qualche giardino non troppo lontano mi entra nelle narici, e la luce rossa e arancione, (e poi viola e poi bianca), che entra dalla finestra, mi cade sul volto, costringendomi a socchiudere gli occhi.

I ricordi affollano la mia mente, accavallandosi l’uno sull’altro in un continuo susseguirsi d’immagini scolorite e parole dimenticate.

La prima cosa ad esser tirata fuori è una foto.

E’ stropicciata, malandata dal tempo e dal calore, ingiallita, sbiadita, con i contorni non più nitidi, non troppo riconoscibili.

Io però li riconosco quei contorni, certo che li riconosco, perché in quella foto ci sono anche io, anzi ci sono solo io in primo piano in quella foto, e me lo ricordo fin troppo bene.

E’ sabbia quella cosa bianca che occupa quasi tutta l’immagine, sabbia asciutta, bollente, tantissima.

E in mezzo a quella sabbia ci sono io, sdraiato, completamente abbandonato al calore, e la sabbia mi ricopre completamente, ed è nei miei capelli, nei miei occhi ancora innocenti, ancora di quell’azzurro così limpido, nella mia bocca, tanto che mi sembra quasi di risentirne il sapore.

Ho gli occhi socchiusi, e fisso la macchina fotografica senza timore, senza riserve, quasi volendomi mostrare, dicendo "ehi, sono qui, immortalami pure se ti fa piacere".

Non devo avere più di sette anni.

Ho i capelli ricci, biondo scuro, capelli che vanno a inanellarsi in tanti piccoli boccoli che mi scendono leggeri, che mi coprono la faccia, che coprono la mia espressione corrugata, che arrivano fino alle spalle magre, facendomi assomigliare a una bambina, e lì si fermano, ondeggiando solo al muoversi del vento estivo.

Sono solo in quella foto. Sono solo, e sembro incredibilmente piccolo ed indifeso.

E’ indifesa la mia espressione spavalda e accigliata, è indifesa la mia posa scomposta, con le gambe lunghe e magre piegate in due direzioni opposte, è indifeso persino lo scenario della foto, un’immensa distesa di sabbia bianca, e lì sullo sfondo il mare, un mare blu e verde, un mare agitato dalle onde e dal vento.

E’ passato così tanto tempo da quando quella foto è stata scattata che il mio volto è diventato totalmente diverso da quello di quel bambino biondo immerso nella sabbia.

Diavolo se ne è passato di tempo. Chissà dov’è finito quel bambino dall’espressione sfrontata e dai boccoli biondi…Mi piacerebbe saperlo. Mi piacerebbe andare da lui e chiedergli che fine ha fatto, dove è andato a finire, se è ancora nascosto da qualche parte dentro di me.

Ricordi...

Scivolano su di me uno dietro l’altro, ognuno con i suoi protagonisti, i suoi volti e i suoi odori.

Eccone un altro soffermarsi un po’ di più, giusto il tempo di rivederlo per un momento, di riviverlo per una frazione di secondo.

Un’immagine di pochi secondi, più un insieme di voci, di colori, di suoni, che un ricordo vero e proprio.

E’ il mio decimo compleanno. Il giardino di casa è affollato di persone dai vestiti leggeri e colorati, estivi, che ridono, giocano, sovrappongono le loro voci le une alle altre.

Io sono seduto su una seggiola di legno, di quelle basse che usa tutt’ora la mamma per il giardino, e aspetto la mia fetta di torta con in testa un cappellino di carta rossa.

Intorno a me ci sono un mucchio di bambini che ridono con le loro voci ancora infantili, che mi si accalcano intorno, chiedendomi di giocare con loro.

L’aria profuma d’estate, di caldo, d’allegria.

I fiori del giardino sprigionando la loro piacevole fragranze, colorando lo scenario a macchie, lì bianche, lì verdi, lì gialle.

Io sono immobile, fermo sulla seggiola, con la faccia triste, gli occhi pieni di lacrime timorose di scendere.

Papà non è in giardino, non è alla festa. Probabilmente è da qualche parte del mondo a stipulare qualche affare multi milionario, circondato dai suoi efficienti collaboratori e dalle sue belle segretarie, talmente tanto impegnato da dimenticarsi il compleanno di suo figlio.

E le lacrime che riempiono i miei occhi, che li inondano, minacciano inesorabilmente di scendere, di trovare spazio sulle mie gote arrossate dal sole e illuminate dalla luce delle fiaccole del giardino.

E ne cade prima una, la più grossa, la più trattenuta, la più sofferta, e poi un’altra, e un'altra ancora, e via, in un pianto quanto mai silenzioso.

Così silenzioso che non se accorge nessuno, e le risate continuano, e anzi, paiono aumentare di volume, e moltiplicarsi, e l’aria della sera diventa più soffocante, più calda, impregnata dall’odore dei fiori, pressocché insostenibile.

E i capelli biondi, più scuri, più riccioluti, mi cadono sugli occhi, bagnandosi con le mie lacrime, coprendomi il volto, mascherando il mio pianto.

E una risata suona più alta delle altre, più squillante, più argentina.

Ed è la risata di mia madre, mentre ride a bocca spalancata, appoggiandosi al braccio di un uomo dai capelli scuri, e la risata le si estende a tutto il volto, facendole socchiudere gli occhi e agitare il corpo, e i capelli castani le cadono sul volto, esattamente come fanno i miei, ma le vengono subito scostati da quell’uomo, quell’uomo che la sta facendo ridere a squarciagola, e che le impedisce di vedere il mio pianto, che le impedisce di vedere suo figlio seduto su una seggiola di paglia intrecciata che piange miseramente nel giorno del suo compleanno.

E i miei occhi si stanno di nuovo riempiendo di lacrime qui, nel mio letto inondato di luce e calore, con le lenzuola ancora sfatte, lenzuola che conservano ancora il ricordo e il profumo della notte passata e sono pronte a riceverne altro tra qualche ora.

E la mia mente continua a vagare tra i pezzi della mia vita, e ne coglie qualcuno, ora qui ora lì, dove capita, senza alcuna cognizione se non quella affidata alla mia mente, senza omettere niente, senza dimenticare alcunché.

E puntuale ne arriva un altro, un po’ più vicino e un po’ più lungo, accurato.

Ed è il mio primo giorno di scuola media che mi si affaccia in mente, e ci rimane qual tanto che basta per farmi ricordare tutto il resto.

E mi rivedo lì, sulla soglia della porta, impaurito, smarrito, senza idea di cosa fare, di cosa dire, con il cervello attanagliato dal timore, dallo smarrimento.

E vedo dei ragazzini che mi sfrecciano al fianco, con le loro cartelle colorate dei cartoni animati, che ridono e parlano fra di loro, già disinvolti, già capaci di muoversi in quella scuola così nuova, così grande, così diversa. E vedo altri ragazzini, un po’ più grandi, un po’ meno vivaci e un po’ più esperti, con quell’aria così sicura che camminano per i corridoi come se fossero di loro proprietà, e mi sento ancora più spaurito e più insicuro, e ho voglia di prendere, voltare i piedi e tornare a casa, o ancora meglio, alla vecchia scuola, dove il più grande ero io, dove ero io ad intimorire i più piccoli, dove i corridoi erano miei e solo miei.

E sento qualcuno che mi spinge da dietro, ed è un bambino più basso di me, dallo sguardo tremante quanto il mio e il sorriso forzato.

E vedo che si sofferma per qualche secondo accanto a me, fissando la classe ancora mezza vuota, per poi prendere coraggio e avanzare verso un banco in seconda fila, mentre io sono ancora fermo sulla soglia, a tormentarmi un ricciolo ribelle sceso sulla fronte abbronzata.

E poi rivedo l’arrivo della professoressa, che mi prende, mi chiede chi sono e cosa ci faccio sulla porta, e mi porta in classe, e mi fa sedere allo stesso banco in seconda fila a cui è seduto il bambino di prima, e no, sbaglio a chiamarlo bambino, perché è un ragazzino, e in quella stanza l’unico bambino sono io.

E la lezione inizia, e la mia testa rimane china sul banco per tutto il tempo, e io ignoro i tentativi di fare amicizia del mio compagno di banco, e rimango immobile fino al suono della campanella, con gli occhi chini, bassi, e una gran voglia di piangere.

E risento la voce della professoressa che parla costante, incessante, che spiega, che illustra, che insegna, una voce chiara, limpida, una voce simile a quella di mia madre, una voce che mi fa venire ancora più voglia di piangere.

E anche le voci dei miei nuovi compagni di classe sono intorno a me, una più alta ancora infantile, e una un po’ più bassa, quasi pronta per essere cambiata, e una femminile, più morbida, più dolce, e un’altra squillante, e una ancora fioca e debole, timida.

E loro, i miei compagni, sono tutti intorno a me, e mi parlano e io rispondo a fatica, cercando di ricordarmi se quello alto e magro è Giovanni e se quello basso, grassottello e dalla faccia simpatica è Mattia, e se la bambina seduta dietro di me è Luisa o Jessica, e vedo le loro facce una dietro l’altra, in una carrellata di figure totalmente estranee, di figure che ormai non mi appartengono più, che ormai fanno parte del passato, e in esso sono relegate.

E un altro ricordo, strettamente correlato a quello precedente, mi invade la mente, e mi fa chiudere gli occhi.

Sono sempre in classe, sempre alle medie, sempre allo stesso banco.

Sto parlando con il mio compagno di banco, e siamo vicini, con le sedie incrociate e i quaderni davanti ai volti, le penne impugnate, pronte per copiare gli esercizi non svolti a casa da un altro quaderno più bravo, più preparato. E ridiamo, diavolo se ridiamo, ridiamo complici, uniti, e ci divertiamo a copiare quei compiti non nostri, ben consapevoli del rischio che stiamo correndo. E il mio amico ride con la bocca aperta, mostrando i denti bianchi, regolari, e ha negli occhi scuri un’espressione felice, la stessa che invade anche i miei occhi più chiari. E anche le nostre teste sono vicine, talmente vicine che i nostri capelli si confondo, e i suoi capelli neri sembrano mischiarsi ai miei più chiari e più ricci.

E ridiamo, ridiamo, ridiamo fino a tenerci lo stomaco.

Un’altra foto mi torna davanti agli occhi, una foto più recente di quella di prima, dai contorni meno scoloriti e dai volti più familiari, ma che comunque non sono quegli attuali.

Ed è una foto che risale al secondo anno di scuola media, o almeno così mi pare di ricordare.

Ci sono ancora io in primo piano, in quella foto, ed è ancora lontano il tempo in cui nelle foto compaiono altri senza di me, e sono ancora lontani gli anni in cui una foto più era cara più ritraeva altre persone.

Sono nel giardino della scuola stavolta, ed è inverno. Lo si capisce dal fatto che l’erba è secca, asciutta, e gli alberi sono spogli, senza foglie, e gli studenti che appaiono sullo sfondo, immortalati senza saperlo, indossano pesanti maglioni, giacche a vento, cappelli.

Io ho circa dodici anni, e un gran sorriso allargato sulla faccia. I capelli sempre più ricci, ormai quasi crespi, sono diventati castani, di un castano bello, dolce, caldo, che richiama ancora dei tratti biondi, e indosso un maglione di lana grigia, e attorno al collo ho una sciarpa arancione, di un arancione orrendo, vistoso, aggressivo. Accanto a me, con un braccio attorno al mio collo e una mano sollevata a scompigliarmi i capelli, c’è Luca, il mio compagno di banco, anche lui con un gran sorriso, il suo solito sorriso largo che mostra i denti. Gli occhi scuri, scurissimi, quasi color pece, ammiccano divertiti al fotografo, e la sua felpa gialla e rossa fa a pugni con la mia sciarpa arancione, mescolando nella foto una gran quantità di colori assurdi.

E ancora una volta stiamo ridendo io e Luca, e i colori delle nostre risate, la nostra allegria, fanno in modo di non accorgersi dello sfondo triste, invernale, spoglio, grigio.

Ed è così che lo ricordo, Luca, ridendo, ridendo sempre, ovunque, con quell’allegria contagiosa che ti prendeva e ti faceva scoppiare a ridere senza motivo, senza un perché, e ti faceva dimenticare che in quel momento eri la persona più infelice della terra, e ti trascinava, e ti faceva venir voglia di gridare, di cantare, di buttarti per terra in mezzo all’erba e rotolarti fino a farti male.

E la luce del tramonto se ne sta andando dalla mia camera, e allora posso riaprire gli occhi, e socchiudere la finestra perché l’odore di maggio inizia a scemare, e l’aria fresca della notte a salire, e il calore del letto non è più quello di un’ora prima, e il profumo delle lenzuola inizia a svanire, e chiede di essere rinnovato. E io mi alzo da quel letto, sistemo le coperte come capita e infilo la prima maglia che trovo, e quel paio di jeans che non sono ancora stati raccolti dal pavimento, e getto un’occhiata allo specchio, e mi trovo stanco, sonnolento, completamente distrutto.

E ci sono modi e modi per ricordare, e non sempre serve la luce del tramonto di maggio, a volte basta anche solo una poltrona comoda, una lattina di birra buona e un po’ di musica.

Sorrido, lasciandomi cadere sulla poltrona. Birra.

La prima volta che l’ho assaggiata è stata proprio in quel periodo.

Ero con Luca, sempre con Luca, inseparabili, uniti in tutto, ed era la prima volta che uscivamo di sera, da soli. Entusiasti, eccitati, impreparati, piccoli, ancora piccoli e inesperti. Avevamo incontrato alcuni compagni di scuola, piccoli quanto noi, ancora più entusiasti, ancora più inesperti di noi, e ci eravamo uniti a loro in quella prima scorribanda notturna tra le vie delle città mai esplorate alla luce della luna.

E io me lo ricordo Luca che rideva sotto la luce dei lampioni, mentre si decideva dove andare, cosa esplorare per primo, e la luce gli cadeva esattamente a metà del volto, illuminandogli la pelle ambrata, rendendola giallastra, e gli baciava le gote arrossate dal freddo, e gli faceva splendere gli occhi ridenti. E noi eravamo lì, cinque o sei ragazzetti alle prime armi, eccitati dall’odore della notte, dal silenzio interrotto solo dal rombo di qualche macchina solitaria o dalla radio di un appartamento vicino, e volevamo divertirci ad ogni costo, far in modo che quella prima scorribanda fosse bella, magica, indimenticabile.

E allora avevamo iniziato ad entrare in qualche bar, scegliendo accuratamente quelli che ci sembravano più alla nostra portata, quelli dove c’era più gente non troppo maggiore di noi, quelli dove il fumo era ristretto a poche comitive, e l’acool era disponibile e leggero.

E siamo andati lì, al bancone, ed era la prima volta che mi avvicinavo ad un bancone del genere in vita mia, e l’ho subito trovata fantastica quella sensazione di star lì ad aspettare che ti servano, che ti portino quello che tu hai espressamente chiesto, e che dopo espressamente pagherai, possibilmente non troppo, perché cavolo, hai quasi tredici anni e la tua paghetta settimanale ti basta a mala pena per qualche giornaletto e un pezzo di pizza il pomeriggio, e allora sei lì, e chiedi al barista una birra, di quelle leggere, leggerissime, di quelle che il succo di frutta è più alcolico, o almeno lo credi tu, e il barista ti scruta, ti chiede quanti anni hai, e si, ne hai quattordici? e forse basta la tua altezza prematura a farglielo credere, o la voce quasi completamente cambiata, e la birra arriva, come se arriva, e tu la guardi, e non hai mai visto niente di più eccitante.

E quasi ci rivedo adesso, seduti in quel bar da ragazzini con le nostre prime, meravigliose birre davanti, che le fissiamo, increduli di esserci riusciti, e prendiamo il primo sorso e lo troviamo prima amaro, decisamente amaro, e ci chiediamo come diavolo è possibile che una cosa così bella come la birra, una cosa grande, come noi, perché si, dai Luca, è vero, ormai noi siamo grandi, ci chiediamo come può far così schifo. E poi ne prendiamo un altro, di sorso, e ci sembra meno aspro, meno spiacevole, e guarda, sotto sotto c’è un retrogusto strano, piacevole, molto piacevole, e allora via con il terzo sorso, e ora si, sta diventando buona, e via con il quarto, e ora è quasi perfetta, e dopo il quinto non si capisce più niente, iniziamo a bere attaccati alla bottiglia, incollando le labbra contro il vetro scuro, e Luca ride, diavolo se ride, ride mentre beve la sua prima birra, e io rido con lui, ridiamo insieme, uniti, e gli altri intorno a noi ridono insieme, e siamo belli, siamo grandi, e l’alcol scende piano piano, e quella gradazione bassa, bassissima, inizia a farsi sentire. E i miei capelli ricci, lunghi fino alle orecchie mi cadono come al solito davanti alla faccia, e un paio mi finiscono in bocca, e li sento mentre bevo la mia seconda birra, mentre inizio a sentire caldo e Luca sembra diventare sempre più divertente, sempre più amico, e io in quel momento gli voglio bene come non mai, e capisco che si, lui è il mio migliore amico e lo sarà per sempre.

Luca. La metà dei miei ricordi è invasa da Luca, la metà della mia vita è stata vissuta a stretto contatto con lui. Sempre, sempre insieme, a scuola, a casa, per strada, al cinema, al parco, sempre uniti, inseparabili, ed era diventato quasi mio fratello Luca, ed era come se lo fosse sul serio. Abbiamo fatto tutte le nostre prime esperienze insieme, se c’era una cosa nuova da provare stà sicuro che io e Luca eravamo lì, pieni d’entusiasmo e pronti a tutto, pur di divertirci, pur di ride, pur di stare insieme.

Ed eccone un altro di ricordo legato a lui, al mio amico, e mi fa sorridere questo ricordo, perché non lo so, ma sorrido, e mi accorgo di mostrare anche io i denti, esattamente come faceva lui a scuola.

Ed è durante la terza media, ed è inverno, precisamente novembre, e noi due siamo davanti alla scuola, le cartelle non più dei cartoni animati in spalla, e ci guardiamo, cercando di prendere una decisione.

Luca si è alzato durante l’estate, è alto quasi quanto me adesso, e ora porta gli occhiali, un paio di occhiali quadrati, di quelli senza montatura, e gli danno un’aria seria, precisa, da intellettuale, un’ aria che poco s’accorda con il perenne sorriso che gli adorna la faccia, un sorriso che gli allarga ancora di più la bocca alla Mick Jagger, un sorriso capace di mettere di buonumore tutti quanti. E io sono uguale all’anno passato, sempre alto, magro, con i capelli ricci, riccissimi, che mi cadono lunghi, che ora raggiungono quasi le spalle, raggiungendo la lunghezza degli infantili boccoli biondi, ma ora non sono più biondi, si sono scuriti, sono castani, un castano che probabilmente diventerà nero con il passare degli anni, e i miei vestiti sono sempre gli stessi, e fanno a pugni con il colore di quelli di Luca, ed è una cosa che non cambierà mai, questa.

E noi due siamo ancora lì davanti, cercando di decidere se entrare, o se fare sega, la nostra prima sega, e dai Luca, non entriamo, oggi quella mi interroga e giuro che se m’interroga faccio interrogare anche te, e su, non aver paura, tanto chi vuoi che se ne accorga. E Luca mi guarda perplesso, riluttante, forse ha paura sul serio, sua madre è severa, se lo dovesse venir a sapere chissà che punizione da panico gli darebbe, ma io non voglio entrare, voglio restare fuori, all’aperto, voglio andare a giocare a pallone al parco, e dai Luca, facciamolo, oggi è il primo giorno che non piove, guarda che sole, sta sicuro che un sole così non lo rivedremo fino a maggio, dai Luca, facciamolo.

E alla fine lo facciamo sul serio, non entriamo, Luca si aggiusta la sua cartella rossa sulla spalla e si fa guidare fino al marciapiede opposto, e lì la salutiamo la scuola, ciao, oggi non vengo, veditela da sola, e ciao prof, oggi non potrai interrogarci, noi andiamo al parco.

E ci allontaniamo così come siamo venuti, le cartelle ciondolanti in spalla, e un sorriso allegro c’illumina mentre alziamo gli occhi e guardiamo il sole di novembre.

Ricordi. Ricordi che coinvolgono tutti i sensi, la vista, il gusto, l’olfatto, l’udito, il tatto, e anche quel sesto senso, la mente, perché è lì che sono stipati tutti quanti, sono ammassati lì, l’uno insieme all’altro. E c’è una foto sbiadita, e il profumo di un vecchio maglione, il gusto della prima birra, la sensazione dell’erba di aprile sulla pelle, il suono di quella chitarra.

Ed è la mia prima chitarra quella che sta suonando dentro la mia testa, e mi invade con le sue note più alte, e mi riporta ancora una volta indietro nel tempo.

E’ natale, e il giardino di casa mia è pieno di neve, e gli alberi non hanno più foglie, e il caminetto del salotto è acceso, ed è la prima volta che viene acceso in vita mia.

C’è mia madre inginocchiata vicino al camino, mia madre che è cambiata, è diversa adesso, è invecchiata, ed invecchiando si è fatta ancora più bella. I capelli castani le cadono sul volto dalla pelle bianca, oscurandole gli occhi azzurro cielo appena truccati con una matita nera, il maglione bianco che porta le evidenzia appena le linee del busto, e accentua il nero dei suoi pantaloni di stoffa pregiata. E accanto a lei c’è un uomo, un uomo che ormai da molto anni vive in casa nostra, ma che no, non è mio padre, e io quasi non so come si chiama, e no, non voglio saperlo, non mi interessa, lui non è mio padre, non lo è e non lo sarà mai, e non mi importa di quanti regali mi faccia, non mi interessa, non mi interessa nemmeno questo qui che mi sta porgendo adesso, che è grande, lungo, incartato con un gran nastro rosso e con della luccicante carta argentata.

E io lo apro tentennando, questo regalo, perché non voglio assolutamente sentirmi in dovere di dire grazie a quell’uomo, ma so che non appena romperò quella carta e slaccerò quel nastro dovrò farlo, dovrò dirgli ehi, grazie amico, tu si che sei un buon padre, tu si che sei presente, fai un sacco di regali a tuo figlio, anche se figlio tuo lui non lo è, e sei sempre a cena la sera, e fai felice la mamma, perciò non importa di quanto tu possa starmi antipatico o di quanto mi manchi mio padre, io dovrò dirti grazie lo stesso, perché è così che mi hanno insegnato, e così si deve fare. E quando finalmente riesco a togliere tutta la carta mi appare davanti agli occhi una chitarra. Una chitarra bella, di legno chiaro, probabilmente già accordate, già pronta per essere suonata. E il compagno di mia madre me la mette in mano, e mi sorride, e mi dice di provarla, di toccare quelle corde, di farle suonare, e io lo faccio, poggio le mie mani sul legno e tocco quelle corde, e il loro suono, quella prima nota insicura che esce, mi arriva dritta al cuore e lì rimane per qualche istante.

E i miei occhi chiari brillano, e sento che la mia bocca si allarga in un sorriso dal sapore dolciastro, e il grazie esce spontaneo, e mia madre sorride, stringendo il suo uomo, e io stringo tra le mani la mia chitarra, e tocco di nuovo le sue corde, e suono un’altra nota, e non importa quale nota sia, è la mia, sono io che l’ho suonata, e mia rimane.

E così rimangono mie queste memorie, che suonano alte e basse nella mia testa, tra le note di un pentagramma fatto da reminiscenze di anni perduti.

 

                                                                                                                                                   *

 

Allora...Inanzitutto salve a chiunque stia leggendo il primo capitolo di questa storia.

Mi è uscita spontanea, semplicemente pensando a quanti ricordi serbe ognuno di noi dentro di sè, e a quanto è difficile esprimerli in tutta la loro complessità.

So che non è un capolavoro, ma mi auguro che a qualcuno possa piacere. Detto questo...Fatemi sapere che ne pensate!

Ciocco

  
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