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Autore: Lisa_Pan    24/10/2012    2 recensioni
Abigail racconta sensazioni mai provate attraverso impercettibili sussurri, Imre sopravvive cercando il ritmo nel silenzio, Emike raccoglie ricordi dentro delle note suonate su una chitarra color miele ed Aaron gioca al gatto e il topo con il diavolo; quattro vite, quattro anime che vagano sotto una pioggia complice alla ricerca di loro stessi.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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5 sociopatia

Sociopatia

Dio, la terra brucia da quelle parti, raggi di sole bucano la tenda verde che ricopre l’armeria. Enormi fornaci fondono metallo a temperature inimmaginabili, Abigail si sfila la giacca di jeans lasciandola su di uno sgabello in legno. E’ una che legge, legge di tutto ma in qualche modo ha sempre trovato affascinanti, molto più di altro, quegli enormi tomi enciclopedici sul medioevo, sull’epoca del ferro e del fuoco e della pece dai torrioni.

Non ricorda nulla che possa spiegare quel suo innato interesse, sa solo che sotto il letto, in camera sua, nasconde un enorme arco di legno intagliato affiancato da una faretra rivestita in pelliccia che custodisce febbrilmente una decina di frecce dalla punta affilata e dalla coda piumata. In quella stanza l’arco non è l’unico cimelio di quel genere, c’è un po’ di tutto in realtà, centinaia di oggetti che cozzano tra di loro in una confusione di colori e odori; odore, le piace terribilmente l’odore che si respira in quelle quattro mura della sua stanza, è odore di passato, odore di qualcosa che è resistito alla fame insaziabile del tempo che distrugge e ricrea, odore di qualcosa che sa di ricordi. I suoi e quelli di chi ha lasciato la propria impronta su oggetti andati perduti e raccolti da una ragazza dai capelli rossi alla ricerca di storie da rendere proprie.

Adora i mercatini delle pulci, quel loro sistema caotico di ordinare i ricordi per forma o per colore o per consistenza, l’odore che le ricorda casa e gli stessi venditori che hanno l’ aspetto sputato a ciò che vendono. Con le loro rughe agli angoli degli occhi, gli uomini con la barba bianca sotto il mento e il cappello sul capo, le donne con lunghe trecce grigie morbidamente accomodate su di una spalla; profumano di tempo che ha smesso di scorrere, di quell’eternità che resiste a qualsiasi legge fisica e non, sono istanti catturati qua e là e resi immutabili, destinati a restare i soli profeti di non una sola vita ma di centinaia di vite che hanno visto passare davanti ai loro occhi.

A Parigi aveva comprato una di quelle medagliette che si aprono, era tornata nell’alloggio e, allungata sul letto, aveva aperto il ciondolo e scoperto una curiosa sorpresa. I precedenti proprietari avevano dimenticato di cancellare i loro bei visi sorridenti dalle facce interne della medaglia; due visi in bianco e nero si sorridevano rispettivamente, come costretti dalla simmetria del ciondolo, i cardini come asse simmetrico a dividerli o ad unirli, dipende da come si voglia vedere la cosa. In fondo è sempre una questione di punti di vista. Abigail ci aveva visto un nome e un indirizzo, incisi sul retro del ciondolo, e la possibilità di entrare a far parte di una storia che l’aveva voluta coinvolgere e far cadere nella sua rete di ricordi e vite separate.

Così aveva bussato ad una porta rosso fuoco ed era entrata in punta di piedi in un ampio salotto, si era seduta su di una poltrona morbida in tweed e aveva aspettato. Aveva detto di essere una studentessa e di aver trovato un piccolissimo cimelio di quella che credeva la padrona di casa. Un anziano signore l’aveva raggiunta poco dopo e salutata con un sorriso pieno di gratitudine, si era chiesta perché la ringraziasse o perché durante l’intera conversazione non aveva fatto che ascoltarla sorridendo e annuendo rilassato e alla fine, solo alla fine, aveva capito. Gli aveva mostrato la medaglietta e lui l’aveva presa con mano tremante aprendo le due facce e scoprendo un contenuto che i suoi occhi avevano visto centinaia di volte, magari in quello stesso salotto, o in camera da letto o in bagno la mattina dopo essersi sciacquato il viso assonnato e stanco. Se l’era stretta al petto e non l’aveva lasciata per tutto il tempo del suo racconto. Abigail non aveva staccato gli occhi di dosso dal vecchio, si era avvicinata e dopo qualche minuto stringeva il suo braccio con il bisogno febbrile di infondere calore ad un’anima così viva costretta in un corpo non adatto a lei, freddo e vecchio.

Si erano scambiati gli indirizzi con la promessa di scriversi. Le aveva lasciato la medaglietta con la richiesta di portarla sempre con lei in modo che i suoi occhi e quelli della donna a cui sorrideva nella foto potessero vedere ciò che non avevano avuto né modo né tempo di vedere. Abigail lo aveva abbracciato e si era legata la catenina al collo per non toglierla più se non per farsi la doccia.

Quella medaglietta rappresenta il bisogno di ricordi e sensazioni e vite di cui riempirsi. L’arco e quella catenina fanno parte di lei e lei fa parte di loro secondo una sorta di predestinazione, uno lo ha trovato per caso, seguita da ricordi dimenticati resi sensazioni e puro istinto e l’altra ha trovato lei, sperduta in ricordi non suoi, trovata come i topi trovano le briciole di pane per strada, o come una persona trova l’anima che la completa. Caso, un caso fottutamente preciso ma solamente caso.

Quando Aàron le passa l’arco quel maledetto istinto sbuca fuori da chissà dove e riattiva meccanismi spenti da tempo e di cui, ovviamente, non ricorda nemmeno l’esistenza. Scioglie i muscoli del braccio e saggia il legno, il peso, le venature, sussurra il suo odore e il suo colore e poi con lo sguardo analizza la corda e i punti di ancoraggio al legno.

“Sai usarlo?”

Abigail afferra la corda con due dita e la mette in tensione, chiude un occhio e osserva il suo indice puntato verso la faccia spavalda di Aàron.

“Sembra di si”

“Sembra quasi una sfida, la tua”

“Potrebbe esserlo”

“Ma sentila!”

Abigail si sente sicura con il legno tra le mani, in fondo non è molto diverso dallo scattare una foto. Tenere stretto in pugno un istante, lasciare la corda o il meccanismo della biottica e catturare il perfetto centro del mirino. La punta della freccia affonda nel cerchio rosso con precisione maniacale squarciando lo strato di compensato che esplode in una miriade di schegge e pagliericcio che satura l’aria. Il bersaglio come un volto, la freccia come il diaframma, l’istante come l’istantanea. Sorride soddisfatta quando Aàron la guarda sbigottito.

Vorrebbe spiegargli volentieri come ha fatto ma non lo sa nemmeno lei. Il suo istinto, l’occhio perfettamente in linea con la punta della freccia, non sa nemmeno se quello che fa lo fa bene, sa solo che vuole il centro e che deve averlo a tutti i costi, conscia dell’importanza di un singolo istante non vuole farlo scappare via, non vuole perderlo e lasciarlo in mani di chi non saprebbe che farsene. E’ suo e deve coglierlo, così scocca una freccia, poi un’altra e un’altra ancora, non si fermerebbe mai, come non smetterebbe mai di scattare, il terrore di perdere immagini e storie e occhi la fa sentire male, vuota.

Si siede su uno sgabello alto con un boccale di birra accostato alle labbra e osserva: la linea morbida e perfetta spalla-gomito-polso; il collo in tensione; le mano stretta attorno al legno possessivamente, le dita accarezzano le venature e si fermano sul nodo centrale, l’indice si lega attorno allo spessore dell’arco e forma una base d’appoggio per il corpo della freccia; Indice e medio tendono l’arco e sfiorano la coda del dardo, le piume gli accarezzano la guancia, lo zigomo sporgente di Aàron s’imporpora di esitazione; gli occhi fissi sul bersaglio si chiudono nel preciso istante in cui la freccia fende l’aria. Abigail si copre la bocca con una mano smorzando quel sussurro che le esce dalla gola troppo acuto. Il cuore le batte frenetico nel petto, l’adrenalina scorre nel sangue e gli occhi diventano due pozze nere.

“E’ sempre stato il migliore e il bello è che non sapeva nemmeno di esserne capace. Un giorno ha preso l’arco e ha cominciato a provare, il giorno dopo non sbagliava un colpo, il cerchio al centro è una sua esclusiva. E’ l’unico momento in cui quel diavolo chiude gli occhi e si abbandona ad una pace che credo il suo corpo non abbia mai avuto modo di conoscere.”

Abigail non ha bisogno di voltarsi, riconosce il suono della voce di Imre a pochi centimetri dal suo orecchio, il suo respiro le sfiora la guancia e si mescola al sussurro che senza sosta squarcia millimetri d’ aria intorno alle sue labbra.

“Quando chiude gli occhi, è come se smettesse di piovere nelle sue pupille, lo sguardo diventa limpido. Ecco guarda, poco prima di chiudere gli occhi..hai visto?”

Si volta e guarda Imre dritto negli occhi.

“Non stavi guardando”

Non è un rimprovero solo un’osservazione. Imre conosce lo sguardo di Aàron, ha osservato per anni quei nuvoloni grigi caricarsi fino a scoppiare e riversare la loro forza nel corpo dell’amico, sa di come le sue mani tremano incapaci di contenere quell’immensa scarica di energia, c’era quando Aàron decideva di rincorrere qualcosa solo per il gusto di non lasciarselo sfuggire.

Rincorre la vita, in tutte le sue forme, la rincorre fino allo sfinimento, fino a cadere riverso a terra senza più nemmeno la forza di respirare. Vive fino a rischiare di uccidersi ma si salva sempre, nell’attimo in cui la tempesta sta per esplodere nei suoi occhi, nell’attimo in cui il fulmine sta per squarciare le pupille nere, la pioggia comincia a scendere e a scaricare quegli ammassi grigi di nuvole che rimpiccioliscono fino a diventare piccole macchie indistinte.

Ciò che non conosce Imre sono gli occhi di Abigail, grigi come quelli del suo amico ma nemmeno lontanamente paragonabili, come due mondi estremamente simili ma profondamente diversi. Quando lei punta gli occhi su di lui si sente strappare dal petto qualcosa, come se con quel suo sguardo scavasse lentamente in lui. Riesce a vedersi, vede il suo viso fissare beota le iridi di lei, si specchia e si accorge di non essersi mai guardato per davvero in vita sua, nota cose che non sapeva nemmeno di avere.

Poi capisce. Quando Abigail sussurra il suo nome e lui abbassa lo sguardo sulle sue labbra, solo per un secondo, un piccolissimo secondo, si rende conto che il suo riflesso negli occhi della ragazza è la somma di ciò che lei vede in lui. Parole sussurrate, messe a caso, senza il ben ché minimo ordine. Prima il naso, poi le orecchie, poi il colore della sua pelle e dei suoi capelli, il suono della sua voce e poi le sue vibrazioni. Vibrazioni? Che diamine sono le vibrazioni? Si guarda la mano che tamburella contro la gamba il ritmo delle parole di Abigail e capisce di che diavolo di vibrazioni parla.

La stronza! Quella fottuta stronza!

“Che stai facendo?”

“Scusa?”

“Non sei idiota, hai capito. Guardami e dimmi che stai facendo.”

Abigail sorride. Guardami, come se non avesse fatto altro da quando l’aveva presa all’aeroporto e trasportata in quel posto uscito dalle scatole dei cereali per bambini. Guardami, come se i suoi occhi non fossero ad un centimetro dal suo naso in cerca dell’unica storia che Abigail sa di non poter lasciarsi sfuggire. Guardami, come se ci fosse realmente bisogno di chiederglielo. Ma obbedisce, lo guarda, una volta, due, lo guarda ancora fino a quando le sue labbra smettono di sussurrare e lo sguardo di lui si sposta negli occhi di lei.

“Perché hai smesso?”

“Di fare cosa?”

“Di sussurrare come una dannata parole senza senso.”

“Non sono senza senso.”

“Lo sono per chi ti guarda e non capisce quello che dici. Sembri sociopatica.”

“Sarei sociopatica?”

“Sembri, ho detto sembri.”

“E tu sembri un po’ troppo sicuro di te Imre, cos’è che ti fa parlare con così tanta sicurezza?”

“Dico solo quello che pensano gli altri.”

“Gli altri.”

“…”

“Tu cosa pensi?”

“Non importa quello che penso io.”

“Però dovrei tenere conto di quello che dicono gli altri..”

“Non ho detto questo!”

“No tu hai detto esattamente questo.”

“Senti, sono solo curioso. Parli da sola e non fai altro che scattare foto.”

“Si da il caso che io sia fotografa. Sai no? Quei tipi strani che vanno in giro con un aggeggio diabolico dalla forma strana e che non fanno che scattare, scattare, scattare..”

“Hai capito cosa intendevo.”

“Fai le domande sbagliate Imre.”

Imre vuole solo che parli, vuole dare il testo a quel ritmo di sussurri che le esce dalla gola, le aprirebbe la bocca e le infilerebbe un braccio per l’esofago, le strapperebbe le parole direttamente dal diaframma, dove nasce quel suono cantilenante, e la costringerebbe a trasformare le sue cazzo di foto in fottute parole.

E questo solo perché vuole farle provare la sensazione di essere stati scoperti, di aver smascherato la sua insensata ossessione e disarmarla. Vuole disarcionarla e metterla con le spalle al muro per un confronto alla pari. I suoi sussurri con le sensazioni che lo uccidono e che si trasformano in vibrazioni.

Tutto solo perché non è stato capace di trattenere il maledetto bisogno di tamburellare le dita sui jeans sbiaditi.

***

Io sono troppo, e quando dico troppo intendo veramente troppo, stanca. E devo stirare, e lavare i piatti, e mettere a posto casa, e mi sa che non lo faccio..mi metto a letto e leggo un libro, con i piedi sul muro e le gambe per aria, giusto per aiutare il pranzo a risalire su..giusto perchè non ce la faccio veramente nemmeno a muovere un passo. Ho perso il ritmo ed è solo il terzo giorno.

Bien, per una volta sono tutti e tre insieme, cioè prima solo Abi e Aàron ma poi risbuca anche Imre. Sono legata a quel ragazzo come con nessun altro, so che lo dico spesso dei miei personaggi, ma Imre rispecchia molti lati delle persone che mi girano intorno che ho assorbito e resi miei, nel tempo. Le sue manie, la sua musica, sono tutti ricordi o sensazioni, quel ragazzo è nato da un qualcosa assolutamente indefinito, come Abi, infatti si completano quasi. Realtà e finzione mischiati insieme, non so se esserne spaventata o incuriosita.

Bien, io mi eclisso, vado a bere un pò d'ace e finisco di vedere New Girl, geniale, davvero troppo geniale.

Tante coccole.

Lis

   
 
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