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Autore: ArtemisGin    24/10/2012    0 recensioni
"Due dicembre mille novecento novantotto. Questo è il giorno su cui si è basata la mia intera esistenza. Non è il giorno di un matrimonio, o cosa. E’ il giorno in cui è nata la mia bambina, nelle mura fredde di un ospedale altrettanto freddo."
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Due dicembre mille novecento novantotto. Questo è il giorno su cui si è basata la mia intera esistenza. Non è il giorno di un matrimonio, o cosa. E’ il giorno in cui è nata la mia bambina, nelle mura fredde di un ospedale altrettanto freddo.

Fuori mi ricordo si era scatenata una vera e propria tempesta di neve, qualcosa di così immenso da bloccare tutti i mezzi di trasporto, pur
e i nostri piedi. Io ero in sala d’aspetto quando un’infermiera sulla trentina mi raggiunse con una coperta nel braccio sinistro e Ginevra nel braccio destro. Per prima cosa, come un istinto, porsi le mani a mia figlia. Era così piccola, e indifesa. Era la creatura più bella che avessi mai visto in vita mia. Nonostante avesse solamente poche ore di vita, nel suo piccolo corpicino si vedeva il riflesso della madre. Sorpresi una lacrima scorrermi sul viso mentre ero in piedi con la mia piccola bambina in braccio. L’infermiera se ne andò, e dopo una decina di minuti ritornò da me riprendendosela. In quel momento potevo dire di essere felice. Potevo dire che tutta la tristezza che avevo accumulato nei miei anni l’avevo spazzata via con l’arrivo di quella creatura perfetta da crescere insieme alla persona cha amavo, la mia futura moglie. Mi ero preparato un discorso perfetto per chiederle di sposarmi, l’avevo ripassato tutto il giorno. poco dopo tornò l’infermiera che mi aveva fatto vedere mia figlia, e le chiesi di mia moglie. Potevo andare a vederla? A quell’ora un ‘non è ancora pronta’ mi bastava. Ero l’uomo più felice del mondo, e credo che potevo conservarmi un po’ di felicità per dopo, no?
erano le 19:33 quando un dottore in camice bianco mi venne incontro per dirmi che mia moglie era morta. Vidi quell’uomo sottrarre i colori al mio mondo. Mi aveva distrutto i sogni, le speranze, l’amore della mia vita. Lacrime che provenivano dallo stesso luogo da dove venivano quelle per mia figlia non riuscirono a contenersi e io, uomo forte che ero, le lasciai andare insieme a tutta la mia vita. Le braccia mi caddero sui fianchi, e per poco non svenì. Non ebbi reazioni. Ero troppo devastato per averne. Mi ributtai sulla sedia scomoda dove ero seduto fino a poco tempo prima con gli occhi fissi sulla parete di fronte a me. Volevo morire.

due giorni dopo mia Ginevra era pronta per uscire da quell’ospedale, ma io no. Rimasi lì per altri tre giorni in cura alle infermiere per la quale, donne sole e abbandonate, ero come un figlio cresciuto che torna a fare visita. Al sesto giorno un’infermiera più giovane delle altre, ma comunque sulla quarantina mi portò un volantino. E mi si aprì un mondo intero. Ginevra sarebbe stata felice senza di me, un padre solo e triste per l’eternità. Avrebbe avuto un’altra famiglia, un altro cognome. Avrebbe avuto una vita normale, come doveva essere. 

La struttura dove risiedeva l’orfanatrofio più vicino era dipinta di giallo fuori, che con il tempo si era sbiadito e i muri iniziavano a scrostarsi. L’unica immagine che ricordo di quel luogo sono i volti spaesati dei bambini che ci sono dentro. All’entrata c’era una signora con un camice bianco e i capelli neri raccolti. Aveva l’aria un abbastanza trasandata, un po’ come tutto quello che era lì dentro. Tenevo in braccio la mia bambina con una tristezza improponibile addosso. Quando mi chiesero se ero convinto di voler abbandonare lì la mia Ginevra l’immagine del nostro primo abbraccio mi ritornò in mente più nitida di una fotografia. Dopo ricordo solo di essermi alzato con la mia Ginevra in un braccio e una vita felice di sacrifici nell’altro.
  
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