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Autore: Strega_Mogana    09/05/2007    4 recensioni
One-Shot scritta per il terzo contest del Severus Piton Fan Forum. Un giovane Severus alle prese con una drammatica notizia.
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La storia doveva esser ispirata a una delle quattro FanArt che ci venivano proposte. Io ho scelto questa: Free Image Hosting at www.ImageShack.us Ditemi cosa ve ne pare! Elena.


Lacrime di pietra
La notizia l’aveva colpito come un pugno nello stomaco.
Era uscito dall’ufficio di Silente camminando piano, a testa china. Si era rifiutato un qualsiasi tipo di aiuto, aveva detto che voleva restare solo e la McGranitt l’aveva esonerato dal resto delle lezioni.
Solo con i suoi pensieri.
Solo con il suo dolore.
Solo e basta.
Solo.
I corridoi gli sembravano improvvisamente più scuri, più lunghi, tortuosi ed insidiosi come le spire di un serpente velenoso. La fredda pietra grigia del castello lo stava soffocando. La stessa pietra che spesso l’aveva fatto sentire protetto quasi come se fosse una vera casa. La pietra che trovava confortate e calda, anche se in realtà perennemente umida e gelata. La stessa pietra che considerava come la sua migliore amica lo stava tradendo: vedeva i muri avvicinarsi facendogli mancare l’aria; lasciandolo solo in un anfratto, ansimante e tremante mentre impediva alle lacrime di scendere. Mentre impediva al dolore e alla disperazione di prendere il sopravvento.
Si appoggiò al muro con gli occhi chiusi: una mano stretta al petto, all’altezza del cuore come per impedirgli di battere più veloce; come se servisse a placare il suo dolore.
Fece due profondi respiri. La mano aperta contro la parete tremava, sentiva un nodo in gola che aumentava ogni secondo, sentiva una stretta al cuore che non avrebbe mai immaginato.
Cercò di rialzarsi, di lasciar scivolare lo sconforto sulla pelle; cercò di riprendere il controllo, di non crollare in quel modo così poco dignitoso.
Riaprì gli occhi. Il respiro tremò qualche secondo per poi tornare calmo e regolare. Il corridoio non sembrava più stretto. L’aria era tornata nei suoi polmoni. Il cuore stava tornando al battito regolare.
Severus Piton restò ancora fermo qualche istante, i suoi compagni erano in aula, nessuno si sarebbe preoccupato della sua assenza. Nessuno si preoccupava mai per lui.
Nessuno.
O quasi.
Avanzò di un passo, titubante, come se avesse il terrore di cadere svenuto da un momento all’altro, invece i suoi piedi furono decisi, nessun giramento, nessun mancamento; solo la vista era un po’ sfuocata per via delle lacrime che cocciutamente costringeva a non scendere lungo le guance pallide e scarne.
Un altro passo un po’ più sicuro. Un altro ancora e l’orgoglio tipico dei Serpeverde aveva ripreso il suo posto obbligandolo ad avere uno sguardo fiero e una postura da vero mago.
Attraversò l’arazzo che copriva l’entrata della sala comune della sua casa; i suoi compagni erano tutti a lezione. Una nota positiva. Così non era costretto a dover dare inutili spiegazioni sulla sua espressione vacua e sul colorito più pallido del solito.
Si sedette su una poltrona rivestita di velluto verde brillante e affondò le mani scarne dalle lunghe dita tra i folti capelli neri.
Solo.
L’unica parola che si ripeteva da quando era uscito dall’ufficio di Silente: solo.
Era rimasto solo.
Solo, con la sua insignificante vita.
Solo, con il suo segreto di mezzo babbano che non aveva rivelato a nessuno.
Solo, con il mondo che sembrava avercela esplicitamente con lui.
Solo, senza riuscire a dimostrare agli altri quanto anche lui potesse valere qualcosa.
Solo.
Strinse i braccioli imbottiti della poltrona mentre appoggiava la testa contro lo schienale, chiudendo gli occhi, serrandoli così forte da vedere lampi gialli dietro il nero delle palpebre.
Silente sembrava così dispiaciuto quando gli aveva dato la notizia, quando gli aveva comunicato che l’unica persona che gli aveva dimostrato un briciolo d’amore se n’era andata.
Odioso, vecchio mago.
Lui non sapeva cosa farsene della sua pietà e del suo dispiacere.
Mi dispiace Severus ma tua madre è morta.
Quella finta voce addolorata gli risuonò nella mente. Strinse di più i braccioli mordendosi un labbro e serrando ancora di più le palpebre.
Sua madre era morta.
Non doveva neppure chiedere come.
Lui sapeva.
Aveva sempre temuto che un giorno potesse accadere.
Quel babbano insignificante del padre l’aveva picchiata così forte da farla morire.
Ora lui, Tobias Piton, era in una prigione babbana, e non sarebbe uscito per parecchi anni.
Nessuno sapeva che il piccolo Piton, il bambino che stava nell’arido giardino di casa mentre i suoi litigavano facendosi sentire per tutto il quartiere, era in quella scuola. I vicini sapevano che studiava in una scuola privata, all’estero, ma non avevano mai saputo la verità.
Era solo.
Deglutì rumorosamente. La gola gli fece male per lo sforzo. Non sapeva cosa fare, non sapeva dove andare, sapeva che aveva un nonno da qualche parte.
Solo un nonno.
Un uomo che aveva ripudiato l’unica figlia quando era scappata con un babbano.
Un nonno che, probabilmente, non sapeva neppure di avere un nipote.
Un sospiro sfuggì dalle labbra serrate del giovane Piton.
Fuori un tuono rimbombò poco lontano.
Il ragazzo aprì gli occhi lucidi dalle lacrime che non scendevano, deglutì un altro paio di volte ricacciando indietro il magone che gli serrava la gola.
I Serpeverde non piangono mai.
Neppure quando muore la loro madre.
Si alzò. Alcuni compagni entrarono nella sala comune lanciandogli solo un’occhiata superficiale.
Andò nella stanza che condivideva con altri tre ragazzi insignificanti, si spogliò e si rifugiò in bagno per una doccia.
Aprì i rubinetti facendo scendere l’acqua più calda che riusciva e si buttò sotto lo scroscio senza pesare al calore. Le gocce bollenti gli lambivano la carne pallida come mille spilli roventi, la pelle si arrossò subito, ma di questo non si preoccupava. La sua mente era tornata indietro di anni, a fatti che aveva dimenticato.
Al tocco leggero che sua madre aveva quando gli accarezzava una guancia prima di dargli il dolce bacio della buona notte.
Al suo profumo di calendula e cannella.
Alle sue labbra sottili che metteva sempre in evidenza con un rossetto rosso scuro.
Ai suoi occhi penetranti e all’occhiata raggelante che poteva paralizzarti in pochi istanti.
Al profumo della sua colazione.
Piccoli particolari stupidi, che lui non aveva più notato come faceva un tempo, che erano rientrati nella normale routine di casa Piton. Piccoli gesti che non avrebbe più rivisto. Profumi che non avrebbe più sentito.
Abbassò il capo lasciando che l’acqua bollente picchiasse alla base del collo mentre i ricordi belli erano oscurati da quelli brutti: come suo padre ubriaco, le botte, le urla e i pianti isterici della madre. Un ricordo era come ogni goccia che lo colpiva, un dolore al centro dell’anima ogni perla bollente che colava sulla sua schiena. Chiuse l’acqua quasi irritato, uscì dalla doccia accaldato, con la pelle rossa. Prese un asciugamano e se lo mise in vita uscendo dal bagno e dirigendosi al suo letto. Si buttò sulle coperte verde smeraldo, mezzo nudo e bagnato, senza preoccuparsi delle lenzuola, tirò le tende e chiuse gli occhi.
Al resto ci avrebbe pensato domani.

***
Nei giorni, settimane, mesi e anni che seguirono, Severus Piton aveva iniziato ad odiare con tutto se stesso i mezzi babbani come lui.
Il suo unico pensiero era quello di punire le persone come suo padre. Lo stesso padre che era morto in prigione qualche mese dopo il funerale della moglie.
Funerale a cui lui non aveva partecipato.
Il nonno materno l’aveva preso sotto la sua custodia, denigrandolo per il suo fisico gracilino e pallido e guardandolo come l’essere più ignobile sulla faccia della terra.
Mancava poco alla fine del settimo anno.
E lui aveva già la sua strada da seguire.
Aveva trovato un maestro, una fonte di sapere e, nei rari momenti in cui era gentile, anche un padre. Uno vero.
O così pensava.
L’unico suo rimpianto era quello di non aver visto, almeno una volta, la tomba della madre. Suo nonno non gli aveva detto dove l’aveva sepolta, non voleva che si rammollisse sulla lapide dell’unica donna che l’aveva amato. Così aveva passato quegli anni ad osservare l’unica foto che quel mago non gli aveva sequestrato. Quella foto che conservava con religiosa cura. La foto dove Eileen sorrideva e lo salutava.
Uno dei suoi rari sorrisi.
Non aveva mai pianto per la sua morte.
Mai.
Era arrivato a pensare che lei meritasse quella fine; aveva scelto lei quell’uomo come marito. Aveva rinunciato alla sua vita, alla sua natura per seguire un babbano manesco e perennemente ubriaco.
Lei aveva deciso tutto. Anche come morire, alla fine.
Non meritava le sue lacrime, non meritava proprio nulla dal figlio che aveva abbandonato in un mondo che non lo voleva.
Eppure quella notte ricorreva il terzo anniversario dalla sua morte.
Doveva far qualcosa, anche perché sapeva che il suo maestro non gli avrebbe permesso di cercare la tomba della madre evitando gli altri compiti che poteva affidargli.
Per andare avanti con la sua vita doveva prima chiudere con il passato.
Aveva aspettato la notte; sdraiato nel suo letto, fingendo di dormire con le tende verdi tirate in modo che nessuno potesse vedere che indossava la divisa della scuola e non il solito pigiama grigio.
Quello che doveva fare era solo recarsi nel suo vecchio quartiere; entrare nella chiesa dove si era sposata la madre e fare qualcosa per lei. Magari accendere una candela.
Un piano semplice, lineare. Tempo due ore e sarebbe tornato nel suo letto con la coscienza sollevata. Avrebbe svolto il suo compito di figlio. Dopo aver acceso la candela poteva esser libero e riprendere la sua vita.
Il suono del grande orologio arrivò debole nei sotterranei del castello, ovattato dalla pietra del corridoio. La pietra che amava così tanto. La pietra che lo raffigurava alla perfezione. I respiri pesanti dei suoi compagni gli fecero capire che tutti e tre dormivano profondamente. Sgusciò via velocemente dal letto, con passo felpato e stando attento a non fare il minino rumore uscì dalla stanza. Superò l’arazzo che nascondeva l’entrata della sala comune e percorse i corridoi che lo avrebbero portato fuori dal castello.
Non c’era bisogno di passare dalla porta principale; Regulus gli aveva indicato un passaggio segreto che si snodava sotto i corridoi del castello e che lo avrebbe condotto alle porte del maniero, appena fuori dal cancello d’ingresso. Arrivò al quadro indicatogli dal suo amico. Regulus aveva anche sistemato un mazzo di rose rosse dentro il piccolo corridoio che portava al di fuori delle mura.
- Regulus…- mormorò Severus osservando i fiori. Un lieve sorriso incurvò le sottili labbra perennemente imbronciate, un lieve ringraziamento per il suo unico amico.
Li raccolse e si incamminò mentre la luce diminuiva ad ogni passo. La punta della bacchetta illuminava solo pochi metri davanti a lui. Con la mano libera si teneva al muro corridoio sperando che quel passaggio non gli riservasse delle sorprese. Dopo quelli che gli parvero anni vide una fievole luce provenire da una piccola apertura. L’odore dell’erba del giardino gli arrivò alle narici; alla fine il corridoio era serrato con una grata sporca. Il muschio cresceva sulle sbarre di ferro arrugginito, era umida e puzzava di marcio ed erba bagnata.
Severus provò a spingere la grata cercando di muoverla, ma questa sembrava ferma al suo posto. Tastando il muschio il giovane studente trovò la serratura arrugginita, la liberò dal muschio e dalle altre piante che vi si erano arrampicate sopra e puntò la bacchetta. Con un cigolio sinistro e un rumore metallico la serratura scattò facendo saltare qualche scaglia di ruggine, un altro colpo di bacchetta e la grata si spostò quel tanto che bastava per farlo passare.
Uscì nell’aria calda di Maggio: il cielo era sereno, una piccola falce di luna splendeva nel manto blu scuro mentre miliardi di piccole stelle brillavano per farle compagnia. Severus trovava quello spettacolo demoralizzante, avrebbe preferito una notte di pioggia o una notte grigia di Novembre. Quello spicchio di luna gli sembrava un ghigno: il ghigno di scherno che avevano Potter e Black, oppure il ghigno malefico che aveva suo nonno ogni volta che i suoi occhi neri si posavano, rigorosamente per sbaglio, su di lui.
Scrollò le spalle cercando di levarsi di dosso quella fastidiosa sensazione e strinse i fiori nella mano. Un colpo sapiente di bacchetta e si smaterializzò nei pressi del piccolo torrente putrido che scorreva nel quartiere malandato. Attraversò i campi di erbacce nere e puzzolenti, alzò lo sguardo verso la grande ciminiera che dominava su tutto il quartiere. Quella torre di pietra, da cui usciva spesso del denso fumo nero, era la parte più alta della fabbrica chimica dove lavorava suo padre prima che venisse buttato in mezzo alla strada per il suo continuo bere. Osservò la struttura intimorito come quando aveva cinque anni e suo padre sbraitava contro di lui dicendogli che da quella torre lui poteva vedere tutto e che se combinava qualche altra diavoleria l’avrebbe gonfiato di botte.
Lui faceva il bravo, cercava in tutti modi di compiacere suo padre, di farlo sentire orgoglioso di lui.
Invece quello non provava che disgusto in sua presenza.
Chiuse gli occhi stringendo ancora di più il mazzo di rose, alcune spine bucarono il foglio di carta bianca che Regulus aveva messo come protezione ferendogli il palmo della mano. Ma non ci badò, chiuse gli occhi ricacciando indietro la voce bruta del padre e continuò per la sua strada. Un castoro, o forse un ratto particolarmente grosso, gli tagliò la strada, lo osservò appena e si immise nella stradina di terra battuta che entrava a Spinner’s End.
Il quartiere non era mai stato uno dei più ricchi della zona, anzi la desolazione e la povertà regnavano sovrani, ma non era mai stato raggiunto un livello così alto di abbandono. Molte case erano vuote; sbarre di legno erano inchiodate alle finestre, i pochi lampioni che c’erano sulla strada andavano ad intermittenza dando al visitatore l’idea di passeggiare per un quartiere fantasma. Non si sentiva nessun rumore, un cane magro e molto brutto sbucò da una piccola stradina secondaria, gli rivolse uno sguardo di sufficienza e poi tornò indietro.
Severus continuò per la sua strada, unici testimoni i miliardi di occhi del cielo, e andò avanti fino ad una diramazione. Si fermò al centro osservando prima una e poi l’altra stradina polverosa. Una portava nella sua vecchia casa, l’altra alla chiesa. Si chiese se ci fosse ancora la chiave che sua madre nascondeva nel vaso di gerani accanto alla porta. Si domandò se, per caso, suo nonno l’avesse solo chiusa o se l’avesse svuotata e venduta. Si chiese se suo nonno l’avesse bruciata, come se avesse voluto bruciare anche il ricordo di una figlia traditrice del suo stesso sangue. Prese il sentiero di sinistra senza rendersene conto, c’era una parte di lui che voleva vedere se quella casa esisteva ancora. Più camminava più il suo cuore aumentava il battito, più si avvicinava, più sperava che suo nonno l’avesse bruciata. Perché rivederla voleva dire riaprire vecchie ferite che, forse, non si erano rimarginate del tutto. La sagoma nera della sua vecchia abitazione gli apparve in lontananza. Ormai stava quasi correndo, la facciata era rimasta la solita, le finestre erano annerite dalla polvere, ma non erano state sbarrate con le assi, la porta era scrostata in diversi punti, la vernice bianca era caduta sullo scalino lasciando intravedere il legno chiaro. Si avvicinò ansante, il cuore che gli batteva furiosamente in petto e nelle tempie. Il vaso era ancora al suo posto, accanto alla porta d’entrata, i fiori ormai erano morti. Restava solo un vaso di terra secca e dal colore scuro. La chiave doveva esser nascosta sotto il vaso, in una piccola buca che sua madre aveva fatto anni addietro. Molto probabilmente quella chiave non c’era più. Eppure si avvicinò lo stesso al vaso di terracotta, si chinò poggiando le rose a terra, spostò il vaso certo di trovarci solo la buca vuota. Invece la chiave c’era, coperta di terra e con qualche scheggia di ruggine, ma c’era. La raccolse con due dita, quasi avesse il timore che la piccola chiave di metallo potesse morderlo. Non poteva lasciarla lì, qualche malintenzionato poteva trovarla ed entrare con facilità in casa sua. La mise in tasca, riprese le rose e ritornò sui suoi passi. Ne fece solo cinque e poi si voltò di nuovo. Non aveva intenzione di entrare. Solo non ricordava se aveva lasciato qualcosa di importante tra quelle mura sudice.
Ma non voleva entrare.
Eppure una parte di lui, la stessa che l’aveva spinto fin lì, gli diceva che era il caso di controllare che tutto fosse a posto, che nulla fosse stato portato via. Si avvicinò esitante, la chiave entrò con facilità nel buco della serratura, ci mise un po’ prima di scattare ma alla fine la porta si aprì. L’odore che lo accolse era di chiuso, muffa e polvere vecchia. La casa era del tutto buia, nessun tipo di luce, neppure quella tremolante del lampione riusciva ad oltrepassare lo strato spesso di sporco sulle finestre. Fece un passo, il pavimento di legno scricchiolò pericolosamente sotto le scarpe nere, tossì un paio di volte poi il suo naso si abituò all’odore e i suoi occhi al buio. Si mosse cauto, guardandosi attorno. Nulla era cambiato. L’intero mobilio era ricoperto da uno strato di polvere alta un dito, le ragnatele pendevano dal soffitto rendendo la casa ancora più inquietante di quanto ricordasse. Salì piano gli scalini che portavano al piano di sopra, i suoi passi attutiti dalla polvere. Si rese conto di star trattenendo il fiato solo quando i polmoni chiesero altro ossigeno. Respirò l’aria malsana della casa; al secondo piano faceva ancora più caldo, percorse lo stretto corridoio. Fece capolino nella porta del bagno: le piastrelle bianche erano diventate marroni, i sanitari grigi e i rubinetti si erano arrugginiti, un ragno aveva trovato il lavabo comodo e vi aveva tessuto la sua intrigata ragnatela, qualche mosca morta spiccava qua e là. Superò la stanza dei suoi genitori rigorosamente chiusa e arrivò all’ultima: la sua stanza. Mise la mano tremante e sudata sul pomello e lo girò, forse ci mise troppa forza o forse la serratura era talmente arrugginita che bastava poco per romperla, sta di fatto che il pomello gli restò in mano e la porta rimase chiusa. Fissò l’oggetto nella sua mano per qualche istante poi lo fece cadere a terra. Sfondò la porta con una spallata neppure troppo forte, il legno era marcio abbastanza da poterlo sfondare anche per un ragazzo gracilino come lui. Poteva usare la magia, ma non era abituato a usare la bacchetta in casa, suo padre urlava sempre quando vedeva segni di magia e le sue urla sembravano echeggiare tra quelle mura: il fantasma indelebile di Tobias Piton. La sua stanza era esattamente come la ricordava: piccola, spoglia, con solo un letto appoggiato al muro, una scrivania ed un misero armadio dall’altra parte della stanza. Non entrò, rimase solo sulla soglia mentre si rivedeva più piccolo, rannicchiato nell’angolo a piangere con le urla dei suoi genitori in sottofondo. Mentre, in preda alla rabbia verso il genitore, uccideva le mosche usando la magia come segno di ribellione alle sue stupide regole.
Strinse i pugni, la tentazione di distruggere quel posto era immensa, era quasi impossibile resistere.
Il sole sorgeva all’orizzonte baciando la terra con i suoi raggi ramati.
Severus Piton stava ancora nella sua vecchia casa seduto sulla poltrona impolverata che un tempo era appartenuta al suo odiato padre. Fissava con sguardo vacuo la televisione, quello stupido aggeggio che quell’uomo guardava in continuo. Fissava lo schermo nero mentre la sua mente gli proiettava una serie di spezzoni della sua misera vita. Un raggio di tepido sole penetrò lo strato di polvere e illuminò un angolo dell’apparecchio. Il giovane ragazzo sbatté un paio di volte le palpebre rendendosi conto di esser in ritardo.
Si alzò dalla poltrona spolverandosi i pantaloni marroni e uscì dalla casa, chiuse a chiave la porta usando un incantesimo in modo che nessuno potesse metterci piede in sua assenza. Fissò un’ultima volta la facciata desolante della casa promettendo a se stesso che un giorno avrebbe distrutto quel luogo colmo solo di dolore e lacrime. Prese il mazzo di fiori che aveva lasciato vicino al vaso e tornò indietro.
I raggi arancioni bagnavano la terra rendendola meno fredda e desolata. Percorse il sentiero di sinistra e arrivò alla piccola chiesa abbandonata.
Si rese subito conto che qualcosa non andava: la facciata era completamente annerita, le vetrate colorate quasi del tutto fracassate, alcuni muri erano in parte crollati e il soffitto non esisteva più. La chiesa era una delle ultime rimaste con il tetto ancora di legno, così com’era stata costruita centinaia di anni prima. Ed era bruciata. Il tetto era crollato distruggendo la chiesa sottostante.
Forse era stato un fulmine, forse un ragazzino che voleva divertirsi con i fiammiferi.
Ma fu solo allora che Severus Piton si rese conto che Spinner’s End non esisteva più, quella che sembrava inquietante silenzio non era altro che vuoto. Desolazione pura.
Ora era veramente solo.
Neppure i luoghi della sua infanzia riuscivano a colmare il gelido vuoto che aveva nel cuore.
Barcollando si avvicinò a quello che era rimasto della costruzione, il cielo si stava tingendo di violetto mentre i raggi del sole penetravano nelle finestre senza più vetri illuminando la navata centrale o quello che ne restava. Superò l’arcata di pietra che segnava la porta d’ingresso. L’interno era enorme, alcune pietre erano annerite dal fumo, altre sembravano non esser state toccate dal fuoco. Il pavimento era stato pulito, probabilmente avevano usato la chiesa anche dopo l’incendio prima di abbandonarla a se stessa. L’edera era cresciuta sui muri, fin sopra le arcate a volta, alcuni fiori bianchi sbucavano dalle crepe ricoprendo le macerie. Il sole filtrava dai vetri colorati lasciando scie piacevoli di colore. Severus stava nel centro della navata centrale, si guardava attorno incredulo da tanta bellezza e abbandono nello stesso tempo. Sua madre adorava quella chiesa, l’aveva sempre trovata confortate anche se non credeva nel Dio dei Babbani. Diceva che quello era il luogo ideale per pensare, stava ore a fissare gli affreschi e le vetrate.
Ed ora non c’era più nulla.
L’unica cosa che gli restava di quel ricordo era la pietra.
Fredda, umida, solida pietra.
Esplose. Con un grido carico di frustrazione scagliò i fiori a terra, alcune rose si ruppero spargendo i loro petali color del sangue sul pavimento di terra battuta, alzò lo sguardo dove un tempo c’era il soffitto e gridò. Un rido di rabbia. Di tristezza. Un grido che esprimeva tutto quello che aveva sopportato in quei tre anni di abbandono.
Si guardava attorno e l’unica cosa che vedeva era la pietra, la stessa pietra che doveva dagli conforto ma che ora gli dava solo tristezza e solitudine. Pietra fredda come suo nonno. Pietra dura come la vita che stava vivendo. Pietra impenetrabile come quella che avvolgeva il suo cuore e che non permetteva ai sentimenti di entrare.
Una lacrima gli solcò la guancia pallida.
Un'altra.
Un'altra.
Un’altra ancora.
Lacrime di rabbia per il nonno che lo detestava. Per il padre che aveva trovato la via più breve per fuggire dai problemi della vita invece di affrontarli. Per la madre che non aveva fatto altro che farsi picchiare senza mai difendersi fino a morire e lasciarlo solo. E per se stesso che non riusciva ad esser diverso da quello che era in realtà. Per essersi rinchiuso nella sua cella di roccia buttando via la chiave. Per esser diventato come il nonno che detestava e rispettava nello stesso tempo. Cadde in ginocchio alzando una nuvoletta di polvere marrone, si coprì il viso con mani, i capelli neri gli coprirono il volto come a nascondere la sua debolezza e singhiozzò più forte.
La luce tagliava l’aria a metà.
Solo a piangere in mezzo ad un cimitero di pietra. Lacrime che avevo atteso anni prima di scendere.
Lacrime di tristezza.
Solitudine.
Rabbia.
Abbandono.
Lacrime di pietra.

FINE
   
 
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