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Autore: Melie Devour    25/10/2012    1 recensioni
«Do fastidio?» lui alza le sopracciglia.
«No, ma mi fai paura.» Lei sente le labbra impastate, e i polmoni non si dilatano abbastanza da permetterle di respirare con serenità.
«Lascia parlare me.» Fa lui «Non sono un chiacchierone. Il disegno nel tuo sketchbook l'ho fatto io.» Si ferma, guardandola. «Ti piace?»
Lei annuisce.
«Unice, io sono morto. Tu lo sai, no?»
«Sì.»
«Ma tu senti la mia voce nel cortile della scuola.»
«Cosa? Eri tu?»
«Già.»
Parole totali: 20k ca; Lunghezza capitoli: 2/3k ca;
[COMPLETATA]
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Istintivamente Unice portò le mani sulla bocca, soffocando la sua paura. Appoggiò la schiena sul muro della cabina e scorse verso il basso. Le gambe le tremavano e sembravano molli, incapaci di tenere il suo peso. Inspirò aria nei polmoni dopo una breve apnea e scoppiò in un singhiozzo. Le lacrime passavano dai suoi occhi alla pelle bagnata delle sue guance, invisibili. Con le mani si coprì gli occhi. Aveva paura.

Non aveva il coraggio di uscire da quella doccia. Non si sentiva in grado di asciugarsi e vestirsi. Le sue mani scorsero dagli occhi sulla fronte e poi portarono i suoi capelli indietro, e lei tornò a guardare il vetro di lato alla maniglia. Incredula leggeva la scritta bagnata in mezzo alla condensa. Quella scrittura che aveva visto in libreria, quando aveva sfogliato le pubblicazioni del diario che Kurt scriveva. Quella scritta che stava già scomparendo nell'umidità della stanza, e gocciolava in giù. Sotto alla prima, un'altra scritta era apparsa. "Non piangere". Soffocò un sobbalzo. Il suo corpo era assalito da scosse e tremiti, e il suo respiro era irregolare. Con la voce rotta e soffocata pianse «Com'è possibile tutto questo? TU SEI MORTO!» urlò in preda al panico. Si alzò di scatto, con rabbia passò la mano dove le scritte apparivano tra la condensa, spinse lo sportello ed uscì velocemente. Le mattonelle di marmo scuro erano gelate, sotto il suo piede scalzo. Con uno strattone sfilò l'asciugamano dal manico e se lo avvolse intorno al busto. Subito dopo sentì il bisogno di sedersi, si appoggiò al bordo della vasca da bagno. Con una mano teneva i lembi dell'asciugamano sul suo petto, con l'altra si reggeva la fronte. Gli occhi erano chiusi e nella mente continuava a ripetersi "Non è possibile, non è possibile."

Qualche minuto, poi alzò di nuovo lo sguardo, e si guardò intorno, nella stanza calda e immersa di vapore. Si alzò in piedi, e si mise davanti allo specchio. Si guardò negli occhi. I capelli bagnati le ricadevano in piccole onde sulla fronte e sulle spalle. Resti di occhiaie resistevano sotto al suoi occhi. Sospirò. Guardò il riflesso del muro dietro di lei. E al riflesso della sua sinistra. Alla sua destra. Quasi si aspettasse che i fantasmi, al contrario dei vampiri, apparissero solo negli specchi. Ma dietro l'appannatura non c'era niente di strano. Si voltò verso sinistra, guardando la stretta stanza vuota, tra lei e la finestra. Il suo sguardo fu attratto da una pozza d'acqua, sul pavimento. Dell'acqua nel mezzo alla stanza vuota, dove non sarebbe dovuta essere. Piano, si avvicinò, guardando fissa le mattonelle. Subito sopra a quella pozza, qualcosa stava facendo condensare il vapore di cui era piena la stanza. S'immobilizzò guardando la pozza lentamente allargarsi. Poi fu sicura di vedere una goccia formarsi a mezz'aria, e poi cadere creando una piccolissima increspatura sul pelo dell'acqua. Portò la mano a coprirsi la bocca, sgomenta. Guardò la figura immaginaria che se ne stava in piedi davanti a lei. Ricordò che era diceria comune che le apparizioni di fantasmi (a cui di sicuro non aveva mai creduto) fossero sempre accompagnati da una concentrazione di aria fredda spesso inspiegabile. Scosse la testa, tra sé e sé. Esitò, poi allungò la mano in avanti. Quando arrivò a cinquanta centimetri da lei, avvertì un improvviso gelo alle punte delle dita. Le ritirò subito. Con la voce tremante, sussurrò «Kurt, sei davvero tu?»

Guardava nell'aria, nel niente che aveva preso la forma di una persona. Gli occhi che cercavano disperatamente qualcosa di diverso, dei tratti e un volto familiare, in mezzo a quel vapore che stava già scemando, in quella stanza che andava raffreddandosi. Qualcosa che la aiutasse a provare a sé stessa che non era in preda ad una dilagante schizofrenia. Ma un rumore la fece sobbalzare, mandandole il cuore dritto in gola. La porta principale si apriva cigolando un po', e poi era stata chiusa non troppo gentilmente, e una voce squillante aveva detto «Ciccia, sei a casa?»

Unice deglutì e d'un fiato disse «Sì, sono in bagno, arrivo.»

 

Le due donne erano sedute al piccolo tavolo traballante, e consumavano una cena a base di una bella insalata, del pollo e della frutta. Unice aveva ancora i capelli bagnati, e mangiava silenziosamente, col capo chino. Sua madre allora, dopo essersi schiarita la voce, debuttò «Beh? Raccontami qualcosa!»

«Che cosa vuoi sentire?» 

«Non lo so, tra la scuola e il lavoro, coi turni di notte, non ci siamo viste per due giorni di fila!» Disse ridendo.

«Già, è vero.»

«Insomma, come ti va l'accademia?»

«Ahm, tutto bene.»

Dopo qualche secondo di silenzio, Unice esortì «Mamma, tu ci credi ai fantasmi?»

Lei la guardò storto e chiese «Perchè me lo chiedi?»

«Così»

«Mh, non lo so. Non ho mai visto niente del genere.» Fece una piccola pausa con aria pensante, poi continuò «Tuo nonno raccontò a me e ai tuoi zii di averne visto uno.»

Unice posò la forchetta sul tavolo «Davvero?»

«Sì. Nella casa in campagna che al tempo avevamo. Disse.. vediamo.. di aver visto un cavaliere in groppa ad un cavallo.»

Unice annuì, non lo sapeva. La madre sospirò «Non ricordo altro.. Immagino non sapremo mai cosa vide.»

La ragazza annuì tristemente e tornò al suo piatto, mentre la donna si alzava e riponeva il suo nel lavabo, dicendo «Asciugati i capelli, che non è mica così caldo.»

 

Unice corre per le scale d'acciaio dismesse e arrugginite di una fabbrica abbandonata. I suoi passi creano echi inquietanti rimbalzando tra le mura ammuffite. Sarebbe stato molto buio là dentro non fosse per il tetto mezzo collassato, là infondo. Lei cammina su una grata che la sorregge sopra un vuoto alto.. beh, razionalmente sarebbero stati 5 metri, ma sembravano un precipizio. Smette di guardare attraverso la maglia del metallo sotto ai suoi piedi, le gira la testa. Agilmente salta su di una sedia con un piede e si da lo slancio per salire sopra un'enorme cassa di legno chiaro. Da quel punto di vista soprelevato può vedere tutto l'edificio. Prende aria nei polmoni e il suo urlo le ritorna addosso da ogni direzione. «Kurt?»

Nessuna risposta, un nuovo urlo «Kurt!»

Una voce leggera dietro di lei dice «Shh, rischi di far cadere un muro se urli così forte.»

Unice si volta, e sorride. Con un balzo scende dalla cassa e il metallo fa un brutto rumore. Corre verso di lui felice, e gli si ferma davanti. Lui e sorride da dietro i capelli a dir poco sconvolti, tutti sulla fronte e sul viso bianco. Indosso ha un maglione a strisce orizzontali rosse e nere, che gli sta grande, dei jeans un po' logori e ai piedi delle Chuck Taylor vecchie.

«Scusami per tutto quanto.» Dice lui, guardandola negli occhi.

«Per che cosa?»

«Beh, la notte scorsa ti ho graffiato un braccio, e oggi pomeriggio ti ho fatto quasi venire un infarto.»

«Un infarto? Come hai fatto? Che è successo?» Unice è confusa.

Kurt sembra ragionarci un po' su, poi realizza «Probabilmente non sei ancora in grado di sognare lucidamente. Non ricordi cos'è successo nei giorni scorsi?»

Unice tenta di rammentare, ma la sua mente le propone solo scenari fantastici e niente di quel che lei cerca. Nessun ricordo. Non è neanche sicura di ricordare correttamente il suo nome. Alza lo sguardo deluso verso quello speranzoso di lui, e quando incontra i suoi occhi è come se avesse dimenticato cosa stava per dire. La porzione precedente di conversazione è dimenticata, superflua. Guardandolo negli occhi, sorride. Allunga la mano e gli sposta le ciocche dal viso. Rimane impressionata dall'integrità del suo volto. Non è solcato da occhiaie o provato da un'espressione stanca. È il Kurt che lei ricordava in cuore, non quello che avevano trasmesso alla TV nei mesi passati, adornandolo di parole come "eroina", "suicidio", "drogato" e "depressione". Lui le restituisce il sorriso, poi si volta ed inizia a camminare.

Lei lo segue, a passi lunghi per tenere il suo ritmo. Si avvicinano ad una scala fatta di tubi d'acciaio saldati insieme, e la salgono raggiungendo il tetto. La luce abbagliante del giorno li investe. Unice si accorge di non camminare su cemento o tegole di ceramica, ma su qualcosa di più morbido, verde. C'era uno strato di erba e muschio, sotto i loro passi.

Kurt si siede su una ex conduttura dell'aria, e le fa cenno si sedere accanto a lui.

«Come mi hai trovata?»

Lui non risponde, ma chiede «Perchè odi Tourette's?»

Lei rimane attonita, non si aspettava una domanda del genere.

«Ma non è che la odio.. Solo che mi mette tristezza.»

«Mi hanno detto tante cose su Tourette's, ma mai che metteva tristezza. Non è una canzone malinconica!»

«No, infatti.» Kurt continua a guardarla negli occhi, aspettando una risposta.

«Come l'ho capito io, il testo è triste. Ma nessuno, che io sappia, ha capito bene cosa dice il testo.»

Poi è colta da una specie di buddha, un'illuminazione. «Cosa dice il testo?» chiede entusiasta e curiosa.

Lui ride e scuote la testa «Eh no, così è troppo semplice. Ognuno da la sua interpretazione. Io potrei solo darti la mia.»

Unice alzò un sopracciglio «Ma l'hai scritto tu quel testo.»

Lui sorridente le chiede «Tu come l'hai interpretato?»

Lei ci pensa, era stato veramente difficile estrapolare delle parole o frasi sensate da quelle urla strazianti. «Per quanto ho capito io dice qualcosa su un attacco di cuore, una richiesta d'aiuto. Un'ingiustizia…»

Lui sembra pensarci su «Capisco.»

Di fronte a loro il sole sta tramontando affogandosi nel rosso fuoco.

«Si sta bene, da morti.»

Unice lo guarda quasi incredula.

«Davvero, sono serio. Da vivo stavo male, avevo dolori e soffrivo per tutto. Ora va meglio.»

«Ah... beh, meglio così.»

Lui la guarda di nuovo. La squadra un attimo, poi sorride «Guarda, sei un ragazzo adesso.»

Unice abbassa lo sguardo e per un attimo poté giurare di essersi vista in terza persona. Del suo aspetto non cambiava molto, solo i capelli erano evidentemente più corti. Non c'erano prove tangibili della sua trasformazione, ma lei ne era perfettamente cosciente, ne era consapevole. Nei sogni non serve vedere qualcuno un faccia per sapere chi sia, né guardarsi allo specchio per conoscere il proprio aspetto.

Intorno a loro la luce diminuisce sempre di più. Nella strada sotto al palazzo passano macchine tutte nere e fumose, facendo molto rumore. Non c'è gente a passeggio, non ci sono parchi né cani che corrono su e giù, nessuno in bicicletta o a fare jogging. Un secondo prima che l'ultima sezione di sole oltrepassasse orizzonte lineare e tutto diventasse scuro, Unice si volta verso di lui, incontrando il suo sguardo, la sua espressione serena e tranquilla. All'improvviso sente l'impulso di dirgli, urlargli quanto significasse per lei potergli parlare, sentirlo, vederlo nei suoi sogni, e fa per avvicinare una mano a lui, per non perderlo nell'oscurità. Appena le sue parole escono dai polmoni, però, sono coperte da un suono forte che rimbomba nell'aria, un suono tanto familiare quanto odioso. 

 

Un secondo, un attimo infinitesimale, e i suoi occhi si aprirono verso il soffitto del salotto. Si issò a sedere contro lo schienale del divano e sbuffò contro il suono della sua odiata sveglia che veniva dall'altra parte del corridoio. Si era addormentata a tarda notte, stravaccata sul sofà, con in mano il suo sketchbook e una penna a sfera.

Sulla faccia le si era scolpito un broncio spaventoso. Si alzò in piedi, raggiunse la camera e con una manata fermò il piccolo pendolo di metallo che batteva sul campanello della sveglia. Aveva ancora i jeans del giorno prima addosso e decise che andavano bene. Si sfilò la maglietta, raggiunse il bagno e si dette una rinfrescata.

Dieci minuti dopo aveva agguantato la cartella dal suo posto, attaccata per la tracolla alla maniglia del termosifone di fronte all'entrata, e si era buttata di fretta sulle scale per non perdere il pullman.

 

***

  
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