Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Sam Vega    25/10/2012    3 recensioni
Shaun Fraser, diciott'anni, una chitarra e tanti sogni di diventare un cantante famoso. Ma Londra non sarà così scintillante come appariva quando la sognava dalla sua stanza in Scozia.
Storia ispirata alle canzoni e alla vita di Paolo Nutini
Genere: Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

banner

2.

High Hopes

Song



Ai nuovi inizi,

e a Londra, che qualsiasi cosa stai cercando, lì c’è la risposta


Quando l’odore pungente della caffeina colpì alle sue narici, Shaun tornò cosciente di essere al mondo, e soprattutto si ricordò di quelle fastidiose molle che spuntavano dai cuscini consumati del vecchio divano dall’improponibile fantasia fiorata sul quale aveva dormito, o almeno aveva provato a farlo. Ma non fece in tempo ad aprire gli occhi, che qualcosa di inaspettato e assolutamente gelido colpì la sua faccia, lasciandolo boccheggiante e stordito. Aprì gli occhi e ciò che gli si presentò davanti fu un metro e ottantasei di scozzese, in perfetta tenuta da futuro manager con tanto di camicia e borsa di pelle piena di libri in mano. Ciò che stonava nel ritratto del perfetto studente di economia della UCL, era il bicchiere ancora gocciolante nell’altra mano e l’espressione malandrina che sfoggiava. Nonostante fosse di un paio di anni più grande di Shaun, i due erano cresciuti insieme, visto che il negozio di fish and chips dei suoi genitori era a qualche metro di distanza dalla libreria della signora Fraser. Un giorno di agosto di svariati anni prima, il piccolo Callum stava sbuffando peggio di una vecchia ciminiera, lamentandosi della assolutamente ingiusta punizione che gli era stata imposta da sua madre; in fondo non era mica colpa sua se la donna aveva lasciato incustodite le patatine appena fritte e a lui era venuto un attacco di fame! E mentre osservava attraverso la vetrina i raggi del sole che raramente erano così luminosi, borbottava qualcosa da in cima all’alto sgabello posto nell’angolo del negozio, cercando di convincere sua madre a lasciarlo andare a giocare fuori. La donna, ormai esasperata dalla parlantina del figlio, cercò qualche istante di tregua nel retro, ignara delle conseguenze che ciò avrebbe avuto sui suoi nervi negli anni a venire. D’improvviso la porta si spalancò, e un quanto mai perplesso Callum si domandò cosa volesse quel bimbetto dalle gambette magrissime e dallo sguardo spaventato.

-Aiuto, salvami! Se mi trova la mamma mi strozza,- lo implorò, mentre si girava per controllare che nessun inseguitore avesse seguito le sue tracce.

A quell’accorata richiesta di soccorso, Callum gonfiò il petto e sfoggiando un cameratismo degno di nota, fece nascondere il bambino sotto al bancone generalmente destinato ai clienti che quel giorno scarseggiavano. In fondo non poteva abbandonare al suo destino un altro povero innocente bistrattato da degli assolutamente irragionevoli genitori. Come ulteriore protezione spostò il suo sgabello, cercando di proteggere e nascondere meglio il fuggiasco. Il bimbo disse di chiamarsi Shaun, e di essersi messo nei guai per aver rovesciato il succo di frutta su un paio dei preziosi libri di sua mamma, e di essere fuggito prima che lei se ne accorgesse, cercando di sfuggire alla sua ira. Callum annuì solennemente, fiero del suo gesto eroico. Inutile dire che appena la signora McGee uscì dal retrobottega con in mano un nuovo sacco di patate pronte per essere fritte, notò lo sguardo tipico che assumeva il figlio quando sapeva di aver combinato qualcosa; l’intenzione era quella di apparire un angioletto, ma il risultato era decisamente l’opposto. Un minuto e venti secondi dopo, la donna individuò l’infiltrato, e lo riconsegnò recalcitrante alla madre. Shaun non dimenticò mai il sacrificio compiuto da suo nuovo amico, a cui fu chiaramente aumentata la pena da scontare, trasformandosi dallo stare seduto sullo sgabello tutto il pomeriggio in silenzio a pelare cinque kili di patate sotto lo sguardo vigile della madre. Ma da quel giorno in poi, i due diedero vita a un’alleanza che godeva ancora di ottima salute nonostante gli anni passati insieme, movimentando, insieme agli altri ragazzi, la vita del quartiere.

-Non mi ricordavo di aver richiesto il servizio sveglia,- ironizzo Shaun, scrollandosi di dosso con una mano l’acqua che ancora gli gocciolava lungo il volto.

-No, ma sai che so sempre leggere i tuoi pensieri e prevedere i tuoi desideri, mia piccola casalinga disperata,- replicò l’amico.

Era in momenti come quello che Shaun si malediceva per tutte le occasioni che aveva sprecato da piccolo durane le quali avrebbe potuto imparare la nobile arte del farsi i fatti propri e abbandonarlo sanguinante sul marciapiede dopo una rovinosa caduta in bici, evento che accadeva all’incirca ogni giorno. Purtroppo quei bei giorni erano lontani e quelle preziose opportunità erano svanite, e a Shaun toccava sopportarlo così, sperando che i vari impatti con l’asfalto non avessero danneggiato troppo il contenuto della sua scatola cranica.

-Sono due giorni che stai facendo lo squatter sul divano, quindi la Signoria Vostra è pregata di alzarsi, ringraziarmi per il caffè, rendersi presentabile e uscire a respirare un po’ della salubre aria londinese.

-Ma se c’è più smog qui che…

Nessuno seppe mai quale fosse il secondo termine di paragone, perché, con una forza degna del miglior pilone degli All Blacks1, spinse il divano, catapultando il povero Shaun a terra. Dopo aver scosso la testa, e ancora cercando di riprendere il senso dell’orientamento, con un gesto stizzito il ragazzo si sistemò la maglia che gli si era arrotolata sul collo, rischiando di strozzarlo. Potendo ora fieramente sfoggiare la stampa di Physical Graffiti2 sul petto, si avviò verso il bagno, mostrando il suo sdegno sbattendo i piedi nel modo più rumoroso possibile, lasciandosi alle spalle un Callum ancora sghignazzante.

 

Dopo mezz’ora e un discreto numero di imprecazioni da parte di Callum, che quando si trattava di arrivare in ritardo a lezione si trasformava in un maniaco del controllo della miglior specie, i due ragazzi scesero in strada e furono avvolti dai colori e dagli odori così tipici di Bangla Town3. Nonostante ad un occhio estraneo Callum potesse apparire come un responsabile e maturo studente universitario nel suo cardigan blu e i mocassini, Shaun sapeva che non avrebbe potuto scegliere diversamente se non vivere nel quartiere più multietnico, colorato e rumoroso di Londra. Fin dalla prima sera Brick Lane l’aveva accolto tra l’odore speziato che fuoriusciva dai numerosi ristoranti orientali e le tinte forti dei murales che riempivano ogni centimetro di quei muri di mattoni. Shaun era rimasto affascinato dall’incredibile varietà di lingue che risuonavano lungo quelle vie; a un primo ascolto sembravano solo schiamazzi incomprensibili, ma con un po’ di attenzioni si riusciva a catturare le sfumature che permettevano di distinguere un idioma dall’altro.

All’entrata della stazione di Aldgate East, i due ragazzi si separarono, dovendo Callum andare verso sud per frequentare uno dei suoi preziosissimi e altrettanto noiosi seminari sull’imponente crescita economica di un paese del sud-est asiatico che Shaun aveva già prontamente rimosso dalla sua memoria. Cuffie nelle orecchie e canticchiando distrattamente Paint It Black4, si mise ad aspettare il treno della District line che l’avrebbe condotto alla prima tappa del tour che si era prefissato per quel giorno. Si sedette e, cercando di ingannare il tempo si mise a osservare distrattamente la gente che lo circondava, sorpreso e attratto da quanto fossero diversi rispetto alla gente a cui era abituato a Paisley. Era così immerso nei suoi pensieri che a malapena si accorse di essere arrivato a South Kensington; a dire la verità, avrebbe probabilmente continuato il viaggio indisturbato se non fosse stato per il provvidenziale intervento della voce metallica diffusa dagli altoparlanti e del suo “Next stop: South Kensington. Please mind the gap between the train and the platform”.

Uscito dalla stazione, ancora ammaliato dal profumo dei dolci esposti nella vetrina del negozio che aveva appena superato, si incamminò verso Cromwell Road finché davanti ai suoi occhi non si stagliò il profilo di un enorme palazzo vittoriano, dominato dalle alte torri e dall’imponente scalinata. Se i ragazzi a casa avessero saputo che la sua prima tappa a Londra sarebbe costituita da una visita al Natural History Museum, probabilmente l’avrebbero preso in giro a vita, o meglio, Callum, Darren e Cameron avrebbero aggiunto l’evento alla lista degli aneddoti da cui attingere per sfotterlo. Dylan, invece, sarebbe andato alla disperata ricerca dello spigolo più vicino, che avrebbe potuto finalmente prendere a testate per esprimere tutto il suo sdegno nei confronti di quel tale che andava definendosi il suo migliore amico, che aveva avuto la faccia tosta di snobbare tutti quei luoghi sacri del rock in favore di un mucchio di ossa ammuffite. Al pensiero Shaun ridacchiò tra sé, attirando gli sguardi degli altri visitatori, perplessi sul cosa fosse così divertente nell’attendere in fila per entrare. Effettivamente si rendeva conto di quanto fosse una scelta bizzarra, eppure fin da quella gita a Londra anni prima, continuava a ricordare quel luogo, sperando un giorno di tornarci; aveva solo sette anni quando era rimasto affascinato dal salone d’entrata, dove di fronte allo scheletro di un Diplodocus, aveva attirato l’attenzione di tutti, guardie di sicurezza comprese, con un sonoro “guarda, papà! Piedino!”. Ovviamente a nulla erano serviti i discorsi dei suoi genitori, mentre cercavano di spiegargli tutte le assennate motivazioni per cui non poteva portarsi a casa la tigre siberiana imbalsamata. Nemmeno la ragionevole obiezione che aveva condotto e cioé, Dylan e Callum non l’avevano vista, era valsa a molto: i suoi genitori avevano liquidato la faccenda con un sintetico e deciso, no. Per tutta la mattina gironzolò per le varie sale, osservando scheletri, fossili preistorici, balene blu e insetti vari, con la stessa curiosità e meraviglia di undici anni prima. Mentre si dirigeva verso l’uscita, tra il chiacchiericcio dei turisti che affollavano la caffetteria, notò la vetrina contenente i panda, e cominciò a domandarsi quanti secondi ci avrebbe messo Teri a spalmarcisi contro, implorandolo di mettere in atto le sue doti da Lupin per rubarglieli, sostenendo che si sarebbe abbinato perfettamente con il divano del salotto.

 

Dieci minuti dopo si trovò di nuovo nella metro, questa volta direzione St. John’s Wood, diretto a un luogo che stavolta anche Dylan avrebbe apprezzato. Seppe che la sua meta era straordinariamente vicina quando vide decine di persone affollarsi lungo il marciapiede per attraversare una particolare serie di strisce pedonali; il fatto che fossero in gruppi diversi da quartetti, o che andassero nella direzione sbagliata non sembrava tangerli minimamente: l’importante era farsi scattare una foto nello stesso luogo in cui erano stati immortalati i Beatles quarant’anni prima. Una volta compiuto quel rito, i vari visitatori si dirigevano lungo la strada, fino a fermarsi davanti a quella cancellata nera posta al di sopra di quello che una volta era stato un muro immacolato, ormai così pieno di scritte che a malapena si vedeva il colore dello sfondo. Dietro di esso si stagliava un edificio bianco facilmente confondibile con le altre costruzioni lungo la via, se non fosse stata per la discreta insegna che capeggiava in cima alla porta, recitando Abbey Road. Shaun si fermò lì, socchiuse gli occhi, assorbendo dentro di sé l’idea che nell’esatto luogo in cui era, in quel metro quadrato occupato da lui, era probabilmente stato anche uno dei suoi miti. Si inginocchiò davanti al muro, dove lasciò un ringraziamento a coloro che, seppur indirettamente, per primi l’avevano spinto verso la musica e promettendo che un giorno ci sarebbe tornato, non come turista, ma come frequentatore dello studio di registrazione. Si perse leggendo le frasi di tutti coloro che erano stati lì prima di lui, domandandosi che fine avevano fatto, se avevano realizzato i propri sogni o meno, sentendo crescere dentro di sé una punta di malinconia per il non poter condividere quel momento con l’unica persona che sapeva avrebbe capito perfettamente i suoi desideri di grandezza, che avrebbe compreso quanto non fossero legati all’idea di fama e fortuna, quanto al voler dire qualcosa e il saperlo fare solo attraverso le note. In quel momento sopraggiunse alle sue spalle un gruppetto particolarmente rumoroso che, con urla e schiamazzi in una lingua a lui sconosciuta, finì per spezzare definitivamente l’atmosfera, spingendolo a incamminarsi di nuovo lungo quella strada. Per un po’ respirò la tranquillità di Maida Vale, camminando tra le eleganti case dai colori chiari, perdendosi tra i sentieri dei Violet Hill Gardens, canticchiando tra sé e sé un famoso successo dei Coldplay. Mentre percorreva uno dei viottoli del parco, divertendosi a calciare un sasso che aveva avuto la sfortuna di capitare davanti ai suoi piedi, scorse in lontananza una panchina, sulla quale era seduta una persona, troppo distante per poterne definire l’identità; l’unica cosa certa era che costui o costei stava leggendo godendosi i tiepidi raggi di sole. D’improvviso la persona con un sospiro chiuse il libro, si alzò e si incamminò lungo il sentiero, lasciando dietro di sé il volume. Tale comportamento stimolò la curiosità del ragazzo, che allungò il passo diretto verso quella panchina, deciso a risolvere il mistero. Prese in mano il libro, Never Let Me Go di un tale Kazuo Ishiguro; i due ragazzi che si inseguivano sulla copertina fecero storcere il naso a Shaun, sicuro di trovarsi davanti al solito libro da una sterlina e mezzo venduto in edicola e avente come target donne in crisi amorosa ma impegnate in una relazione stabile con il gelato al cioccolato. Riappoggiò il libro sulla panchina, quando questo, probabilmente grazie alle pieghe dovute alle troppe letture, si aprì sulla prima pagina, rivelando una scritta lasciata lì da un precedente proprietario. L’inchiostro nero, sbavato in alcuni punti e ritoccato in altri, dimostrava come piccoli imprevisti quali una penna difettosa non avessero fermato lo sconosciuto dal voler lasciare un messaggio.

 

Giovedì, 8 Giugno, 2010


Chiunque possieda sensibilità e amore per il genere umano dovrebbe leggere questo libro.

Quindi io te ne faccio dono affinché tu possa assaporare queste parole lasciandoti smuovere dentro e lasciando che esse agiscano sul tuo animo. Ti domando, però, di non interrompere il suo viaggio e di lasciarlo in un luogo a te caro, affinché altri dopo di te possano goderne.

Io un giorno andrò nel Norfolk e lo ritroverò.

 

Un Amico


Incuriosito da questo strano scambio di libri tra sconosciuti e dal numero di mani in cui doveva essere passato vista la data del messaggio, si infilò il volume in tasca; in fondo, non doveva essere troppo male come libro se qualcuno aveva speso parole così profonde e pesanti per convincere altra gente a leggerlo.

 

Nonostante fosse stanco di continuare a spostarsi sottoterra, lui che era abituato agli ampi spazi della Scozia, tornò verso la stazione della metro, dirigendosi verso ovest. Scese a Camden Town e si perse a passeggiare lungo il Regent’s Canal, inoltrandosi tra i vicoli e assorbendo tutti i colori che dalle facciate sembravano sfidare sfacciatamente il cielo grigio di Londra. Dopo mezz’ora di vagabondaggi senza meta, si decise a chiedere informazioni a un ragazzo dal giubbotto borchiato dei Distillers e dalla cresta colorata. Seguì le indicazioni dategli, non senza sbagliare a imboccare qualche strada, troppo impegnato a notare le varie scelte di abbigliamento a dir poco bizzarre dei passanti che incrociava, finché non raggiunse quello che una volta era stato un deposito per materiale ferroviario e bellico. Ma il Roundhouse era molto di più: era forse uno dei luoghi che meglio riassumeva la potenza di Londra nel creare qualcosa che a distanza di decenni univa ancora generazioni e luoghi. Su quel palco circondato da colonne si erano susseguiti gli Stones, the Zeps, David Bowie, Jimi Hendrix, Pink Floyd, Doors, Ramones, Clash, Patti Smith… Varcò la soglia e si trovò al centro della platea. Chiuse gli occhi, immaginando di tornare indietro nel tempo, pigiato tra la folla accaldata e urlante, a guardare da lontano coloro che un giorno avrebbero scritto pagine di storia. Poteva sentire nelle orecchie il ruggito della folla, il rumore di quelle povere chitarre fatte a pezzi sul palco, l’odore degli spettatori accaldati mescolato con il fumo delle sigarette e della droga. Poteva vedere le luci stroboscopiche e i laser sfrecciare vicino al suo volto, e sentire gli occhi lacrimare dall’eccessivo uso di fumogeni. Quelle riflessioni vennero però interrotte da una guardia, che gli comunicava di dover uscire dall’edificio, poiché quella sera andava in scena uno spettacolo teatrale e il palco andava ancora allestito. Salutò con lo sguardo un’ultima volta quella stanza, e si rituffò tra il dedalo di vicoli di Camden Town.

Tornando poi verso il centro della città, si diresse verso 34 Montagu Square. All’apparenza sembrava un tipico edificio dell’epoca vittoriana, dalla facciata metà bianca e metà composta da mattoncini scuri, con l’immancabile porta nera accessibile tramite tre gradini. Ma in quell’appartamento al piano terra, una volta appartenuto a Ringo Starr, si erano susseguite tra le più grandi figure della musica. e quelle stesse mura erano state immortalate in una delle più controverse foto del secolo precedente. Se la ricordavano bene sia lui che i suoi genitori, e non di certo per la poesia dell’immagine. Alla veneranda età di otto anni era scoppiata la sua passione insana per la musica, e passava pomeriggi interi a curiosare tra i dischi di suo padre. Un giorno, quasi per sbaglio gli capitò tra le mani Unfinished Music No.1: Two Virgins di John Lennon e Yoko Ono. Osservando la copertina, si domandava perché quel signore e quella signora se ne stessero lì in piedi tutti nudi, chiedendosi perché nessuno gli aveva spiegato che non era affatto educato; continuava a rimuginare sulla questione, ma non riuscendo a raggiungere nessuna conclusione, andò da sua madre a chiedere spiegazioni. La povera donna, totalmente presa contropiede, sbiancò e dovette finalmente affrontare il famoso discorso, mentre malediceva mentalmente suo marito per aver lasciato in giro quell’album e per non essere lì a toglierla dall’imbarazzo.

Ringo, Paul, John, Yoko e Jimi ti fanno ciao con la manina. Su da bravo, saluta!

Con un ghigno malefico, Shaun inviò l’sms a Dylan, allegando ovviamente una foto del portone, e temendo di sentire le urla di disperazione dell’amico fino a lì. Ancora gongolando immaginandosi la reazione scatenata da quell’innocuo messaggio, si incamminò verso Wimpole Street, dove, tra i numerosi studi dentistici, trovò finalmente in numero 57, conosciuta anche come Ashers’ House, dove Paul McCartney aveva vissuto per anni, e dove nel seminterrato, insieme a John, vennero composte pietre miliari come I Want To Hold Your Hand e Yesterday. Si immaginò di essere tornato indietro fino agli anni ’60, quando la fama degli inquilini fece diventare quella strada una delle più frequentate di Londra, quando orde di fan affollavano il marciapiede, urlando e dando vita a scene di isterismo collettivo, sperando di vedere anche solo per un istante i loro idoli. Osservando quel seminterrato, cominciò a crescere in lui una sorta di malinconia mista a quel senso di impotenza che coglie stando davanti a qualcosa di assolutamente maestoso. Si sentiva come se avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco, ma anziché dolore, ciò gli provocava solo una sensazione di piacere, mentre si immaginava seduto su uno sgabello ad osservare i due musicisti comporre, ignorando l’umidità che gli arrivava fino alle ossa. Dopo qualche istante, il suo cellulare richiamò la sua attenzione vibrando, strappandolo così dalle sue fantasie. Rovistò in tasca finché non lo trovò. Aprendo la cartella dei messaggi in arrivo, scoprì che era di Dylan, che gli elencava tutti i vari luoghi immaginari e non in cui lui l’avrebbe scovato se ci si fosse rifugiato, facendogliela pagare per l’affronto di poco prima. Shaun scoppiò a ridere sonoramente, lieto di aver potuto condividere in un certo modo quella tappa con l’altro ragazzo, dimostrando come, anche se fisicamente lontani, loro fossero sempre in sintonia su quel fronte. Ripensando all’impegno e alla fantasia che Dylan impiegava nel mandarlo cortesemente a quel paese, riprese a camminare, proseguendo sempre lungo la stessa strada. Essendo stato cresciuto da un’amante della letteratura come sua madre, qualche nozione era stata trasmessa anche a lui, probabilmente per osmosi. Quindi non poté far altro che fermarsi anche davanti all’edificio che corrispondeva al numero civico 50, scattando una foto così da aver una prova tangibile per dimostrare alla signora Fraser di essere andato a porgere i suoi omaggi anche a Elizabeth Barrett Browning5.

 

Erano ormai ore che girava imperterrito per la città macinando chilometri, e né lui né le sue vecchie All Star avrebbero retto ancora per molto. Alla vista della celeberrima insegna verde e bianca, Shaun ebbe la stessa reazione di un beduino arso dalla sete di fronte a un’oasi: affrettò il passo, cercando di raggiungere il locale il prima possibile. Di certo non era la bontà del caffè a spingerlo verso quel luogo, quanto la promessa dei comodi divani su cui accasciarsi e riposare. Dopo aver fatto impazzire la commessa vista la sua perenne indecisione prima tra cookies e muffin, e poi tra muffin ai mirtilli o al doppio cioccolato, si decise finalmente a ordinare una cioccolata calda, le scoccò un occhiata da cucciolo alla domanda “con o senza panna?”, sperando così di ottenerne una razione extra; inutile dire che il suo piano di alleanza con il colesterolo fallì miseramente e fu costretto a dirigersi mogio verso una delle numerose poltrone marroni che riempivano il locale. Scelse quella incastrata nell’angolo, assolutamente intenzionato a godersi la quiete del luogo e, dopo aver appoggiato tazza e piattino sul tavolino accanto a lui, si accomodò e prese a leggere il frutto della sua visita al parco. Mezza tazza di cioccolata calda e un muffin dopo, era ormai immerso nell’atmosfera di Hailsham, nelle sue aule, nella Galleria e nel campo da calcio. Proprio in quel momento stava commentando a modo suo le vicende, spiegando a Ruth con coloriti consigli quali potessero essere eventuali mete per un suo trasferimento definitivo, quando la campanella posta sopra alla porta suonò, lasciando entrare un gruppo di ragazzine. Stavano ridacchiando tra loro a voce decisamente troppo alta per gli standard dei londinesi, mentre si liberavano dai cappelli e dalle grosse sciarpe in cui erano avvolte, nonostante fuori non facesse così freddo. Con la coda dell’occhio Shaun le vide dirigersi al bancone e chiedere in un inglese stentato dei cappuccini rigorosamente da portare via, per poi ammassarsi intorno a uno dei tavolini non troppo distanti da lui. Per la terza volta stava tentando di rileggere la stessa frase che non riusciva a portare a termine, quando un flash lo interruppe nuovamente. Alzò gli occhi infastidito, cominciando a inveire contro i turisti, ignorando bellamente il fatto che ne fosse praticamente uno anche lui; tuttavia i suoi impropri si bloccarono a metà strada tra il cervello alla bocca, quando notò quale fosse il loro grande intrattenimento pomeridiano: farsi fare a turno delle foto sfoggiando la tazza di Starbucks, con tanto di logo bello in vista. La vicinanza tra il suo sopracciglio sinistro e l’attaccatura dei capelli era direttamente proporzionale alla grandezza della domanda esistenziale che affliggeva il ragazzo in quel momento: da quale paese potevano mai provenire tali fanciulle, visto che, evidentemente, non avevano mai avuto sotto mano una vera tazza di carta? E per quale rituale propiziatorio erano obbligate a storcere la bocca nei modi più bizzarri possibili? Ormai tutte le possibili combinazioni di coppie e terzetti erano state immortalate dalle cinque clienti, che erano dunque passate alla foto di gruppo, la quale però risultava abbastanza complicata da scattare. La più audace, calandosi perfettamente nel ruolo di donzella in difficoltà si mise alla ricerca di un baldo giovane da sfruttare per i suoi loschi scopi. Shaun cercò di mimetizzarsi il più possibile con la poltrona cercando di sprofondare nell’imbottitura, ma di certo la sua maglietta rossa non era facilmente confondibile con la tappezzeria verde. La ragazza si avvicinò e cercò di comunicare con lui, che per tre volte fece finta di non riuscire a capirla. A quel punto cominciò a domandarsi quale grave problema di apprendimento potesse avere lui: nonostante il ripetuto utilizzo della parola photo associato alla macchinetta che gli aveva messo in mano e i gesti con cui aveva indicato sé stessa e le amiche, lui non era riuscito a comprenderla. Purtroppo però ella si stava dimostrando più insistente di quanto si aspettasse, e alla fine, sbattendosi la fronte con la mano esclamò:

-Ah, vuoi una foto!

Shaun si avvicinò, ma nonostante stesse tentando di fare lo spavaldo, era notevolmente in imbarazzo, probabilmente a causa dello sguardo perplesso della ragazza di fronte all’illuminazione divina che l’aveva colto. Le cinque provarono a mettersi in posa, ma al momento della foto scoppiavano puntualmente a ridere, mandando a monte l’opera del ragazzo. Finalmente, dopo svariati tentativi, riuscì a scattare loro una foto, ma dopo avergliela mostrata si dimostrarono insoddisfatte del risultato, e il povero sventurato dovette ricominciare di nuovo. Provvidenziale fu l’intervento di Callum, che ebbe la stupenda idea di telefonargli in quel preciso istante, e che ricevette una risposta che indicava decisamente più entusiasmo di quello che si aspettava.

-Contento di sentirmi, baby?- ironizzò il biondo.

-Non immagini neanche quanto!- rispose l’altro, esalando un sospiro di sollievo

-Tranquillo, potrai ringraziarmi a dovere stasera…- replicò con fare allusivo Callum, distruggendo però l’atmosfera romantica che aveva cercato di creare in un istante, scoppiando a ridere e trascinandosi dietro l’amico. –Senti, io sono appena uscito dal seminario. Se hai voglia andiamo a farci un giro prima di tornare a casa.

-Sì, certo. Dove ci incontriamo?- domandò Shaun, mentre osservava le ragazze uscire dal locale, non senza che una di esse si voltasse indietro per lanciarli una lunga occhiata.

-Marble Arch?- propose il biondo.

-Sì, ok, dove precisamente?

-A Marble Arch ti ho detto!- replicò l’amico.

-Ma come lo riconosco? Cioè, c’è qualcosa di particolare o…

-C’è un fottuto arco di marmo, ed è pure bello grosso!- rise il biondo che poi chiuse la telefonata, ma non senza rendere partecipe Shaun delle sue opinioni su quanto anche ad un occhio non medico fosse evidente che doveva aver subito un qualche trauma da piccolo cadendo dal seggiolone. 

Il ragazzo si alzò dalla poltrona, e dopo essersi lisciato i jeans, si infilò il libro nuovamente in tasca e uscì dal locale, dirigendosi alla stazione della metro più vicina. La sua vita a Londra era iniziata da meno di settantadue ore, e già lì si sentiva a casa nonostante le profonde differenze che la rendevano così estranea al luogo dove era cresciuto. Di certo non si sarebbe mai lamentato della sua infanzia e adolescenza che erano state quanto di più felice e sereno avrebbe potuto immaginare, ma era giunto per lui il momento di andarsene e di cercare la sua strada in quel mare di opportunità che era la capitale. Aveva il diritto e il dovere di cambiare ciò che poteva, accettando e aggirando tutti quegli ostacoli inamovibili, e così aveva fatto, abbandonando la sua amata Scozia, portando sempre con sé i consigli e gli insegnamenti che gli erano stati tramandati dalla sua famiglia, e in particolare dalla saggezza dei suoi nonni. Sapeva che non sarebbe stato affatto facile, ma per il momento ignorava volutamente le difficoltà che sapeva avrebbe incontrato, lasciando volare in alto i suoi desideri.

 

 

NOTE:


Innanzitutto vorrei scusarmi per il terribile ritardo. So che un mese è decisamente tanto, ma io e questo capitolo abbiamo litigato a lungo e non sono ancora completamente sicura di chi abbia vinto la lotta. Volevo rendere omaggio a Londra, che per quanto non sia la mia città di origine, è uno dei pochi luoghi dove mi sento veramente a casa. Questo capitolo è innanzitutto una dichiarazione d’amore alle strade, alle piazze, agli edifici e alla sua gente.

Chiedo scusa a tutti coloro che non hanno la mia stessa passione per la musica per l’infinita lista di gente e luoghi più o meno sconosciuti che per me sono assolutamente sacri. So che probabilmente per voi è stato noioso, ma volevo cercare di portarvi almeno per un attimo nel mondo di Shaun e nelle sensazioni che lo colpiscono visitando tali luoghi. Vi assicuro che la prima volta che sono stata ad Abbey Road ho seriamente ricevuto una mattonata nello stomaco. 

Nonostante le insinuazioni di una certa Milla Padella, il Naural History Museum si è conquistato il suo ruolo in questo capitolo esattamente come se lo è conquistato nel mio cuore. Per quanto potrei ormai girarlo a occhi chiusi, mi ostino a tornarci ogni volta che mi trovo a Londra, ovviamente trattenendomi dall’abbracciare i panda attraverso il vetro come ho fatto la prima volta. Se non ci siete mai stati, andateci. 

Altro tributo assolutamente dovuto è la citazione a Never Let Me Go. L'ho finito di leggere da poco, e mi ha toccato nel profondo in un modo che pochi libri hanno saputo fare. Quando l'avrete letto, capirete anche il riferimento al Norfolk. L'abitudine di lasciare in giro libri particolarmente amati in modo da farli leggere ad altri esiste veramente, e la trovo assolutamente deliziosa e decisamente troppo poco diffusa. 

Ora, prima di rischiare il linciaggio di massa, chiedo perdono, ma ho dato ascolto alla mia parte non italica non ce l’ho fatta proprio a trattenermi dall’ironizzare sulle bizzarre abitudini degli italiani all’estero. Una volta, mentre ero ospite presso una famiglia, mi è stato proprio chiesto appunto il perché di questa sorta di rito delle foto dentro a Starbucks con i bicchieri in mano. Ho chiaramente esagerato il tutto, ma vi assicuro che ho assistito ad alcune scene che si avvicinavano molto a quella descritta.

Anche il discorso finale tra Callum e Shaun è ispirato a una scena realmente accaduta, a cui purtroppo non ho assistito di persona, ma per cui ho riso una buona mezz’ora quando mi è stata raccontata. I meriti per la frase iniziale su Londra vanno a quel genio incompiuto di SidRevo

 

I ringraziamenti per questo capitolo vanno principalmente alla mia famiglia pennuta e a Matisse, che mi hanno sopportato con monumentale pazienza mentre non riuscivo a scrivere. Grazie anche a LyraWinter che è tornata giusto in tempo per betare. Ora non azzardarti mai più a partire!

Grazie anche a tutti coloro che hanno letto il primo capitolo e che hanno recensito. Da egregia signorina nessuno di EFP non mi aspettavo foste così tanti, quindi grazie.



[1] Nazionale di Rugby della Nuova Zelanda. Il pilone è uno dei ruoli, ed è colui che deve spingere durante la mischia, quindi di sicuro non è un fuscello.

[2] Album dei Led Zeppelin, personalmente il mio preferito.

[3] Il quartiere è stato rinominato così nel gergo londinese a causa dei numerosi ristoranti orientali che sono stati aperti lì.

[4] Canzone dei Rolling Stones.

[5] Poetessa inglese vissuta in quella casa nel diciannovesimo secolo prima di fuggire e trasferirsi a Firenze.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Sam Vega