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Autore: Guardian1    26/10/2012    1 recensioni
“C’era una volta una ragazza di nome Yuffie, ma questa storia fa schifo, perché lo sanno tutti che le principesse delle fiabe sono bellissime, hanno gli occhi dolci e splendidi nomi fiabeschi come Aeris.”
Non funziona. Io non sono una principessa.
Sono solo una viaggiatrice.
… Sì, così può andare.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Vincent Valentine, Yuffie Kisaragi
Note: Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: FFVII
Capitoli:
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Sunshine in Winter


il terzo mese






Siamo andati a vedere il dottor Bannon prima di partire. Continuava a terminare le frasi molto rapidamente, lasciandole palesemente incompiute per cercare di essere cortese. Poco male; potevo completarle io per lui.

« Adesso le somministrerò queste pillole, e questi, hm, tranquillanti, per il prossimo mese. » Dopodiché, pupa, sei tanto ma tanto fottuta. « Dopo un certo tempo potrebbe trovare difficile camminare a causa della sua spina dorsale… » … quando si scioglierà e comincerà a uscirti dalla schiena! « Le raccomando una serie di esercizi che il signor Valentine può aiutarla a compiere. » Mangio micetti per sport. « La trovo in ottima forma. » Per un paziente terminale avvelenato, tesoro. « Sono sicuro che potrà beneficiare di una pacifica, uh… »

Il silenzio si è teso nell’aria e d’improvviso mi ha fatto molta pena. Doveva essere diventato medico di recente, e non era abituato alla frustrazione di un malanno incurabile. E punto a suo favore, non mi aveva sganciato il grande Io-L’avevo-Detto. Mentre balbettava e incespicava sulle parole, era ovvio che odiasse questa parte del suo lavoro.

Ma questo non significa che lo stronzo mi piacesse di più.

« Non mi piace assumere tranquillanti » ho borbottato, avvilita solo un po’.

« Non c’è altro che…? » Vincent ha dato voce a quello che stavo per chiedere. Lo sapeva anche lui che non c’era.

« La medicina a base di erbe non è abbastanza forte » ha risposto schiettamente Bannon, e ho apprezzato il fatto che non stava spezzando lì la frase per ripartire poi come un motore difettoso, « anche se fino a questo momento ho avuto fiducia nelle doti di Asako Guirasame. Forse potreste provare con un po’ di mahocine cetrinide. »

Il mio cervello non stava seguendo, ma quello di Vincent sì. « Vuole somministrarle della calentura? » ha domandato debolmente, nominando una droga di prima categoria. « Per farla delirare? »

« Viene usata a scopi medicinali, e- »

« E lei noooooon mi darà quella robaccia, doc. Vada per i tranquillanti. »

« Bene » ha detto lui, in tono incolore. « Signor Valentine, le dispiacerebbe seguirmi nella mia farmacia? »

Vincent si è alzato e ha fatto quanto detto, ma il dottor Bannon si è fermato un istante per guardarmi.

« Signorina Kisaragi? »

« Hm? » Ho girato la testa verso di lui; mi stavo mordicchiando l’interno di una guancia.

« Mi- »

Cazzo. Stava cercando di dire che gli dispiaceva. Mi sono schiarita la gola. « Non ci vedremo mai più. »

Mi è parso sul punto di aggiungere qualcos’altro; poi ha chinato la testa con una nuova risolutezza e ha imitato Vincent.

Siamo partiti per Wutai quasi subito dopo.




L’autunno nel mio paese natale, la morte dell’anno. Non sono una ragazza da autunno. Io sono per l’estate, quando le cose sono pigre e in pieno corso, e fa tanto caldo che nemmeno le formiche si disturbano a mettere le antenne fuori dal formicaio e quelle adolescenti dicono alla regina di andare a fare in culo. Ogni cosa è viva, e quando una brezza leggera soffia su tutto nel modo giusto, vedi il mondo respirare. Quand’ero più piccola il cuore mi si gonfiava tanto anche solo stando seduta su un albero a guardare Wutai vivere attorno a me, pensando che non avrebbe resistito.

L’autunno è la fine di tutto questo, più uggioso dell’inverno, con la vegetazione che invecchia e gli animali che si prodigano nella costruzione di tane e si preparano per una lunga, noiosa stagione di gelo. La monotonia cosparge il suolo sotto forma di foglie ramate sporche di terriccio e si sente il tanfo della dolce putrefazione delle piante. Quand’ero più piccola mi infilavo tra le foglie con indosso i maglioni di lana che mi facevano le zie, slabbrandoli tanto da renderli irriconoscibili con le punte affilate e tenaci delle fronde degli alberi.

Credo che Vincent potrebbe essere un ragazzo, o meglio un uomo, da autunno. Ha ripreso lo yukata, mischiandosi delicatamente nel paesaggio con il suo materiale ruvido, i capelli sistemati in una treccia accuratamente irregolare che le mie dita artritiche impiegano anni a realizzare. Ogni tanto, quanto lavoravo sulle ciocche lui si voltava verso di me per l’accelerarsi del mio respiro; non c’era pericolo. Amavo i suoi capelli, morbidi, bellissimi e angosciosamente perfetti – mi ricordavano in modo davvero inquietante e incestuoso-lo-so quelli di mia madre. Avevo voglia di nasconderci la faccia e inspirare il suo odore, il profumo dolce di pulito fuso con la polvere della montagna. All’ombra degli alberi sembrava tanto Wutaiano che mi aspettavo estraesse un wakizashi dal nulla da un momento all’altro, mettendosi a tirare di scherma al crepuscolo. Lui è la morte dell’anno. Cammina perpetuamente nella morte. È la vita che si intreccia fino a sparire; non ha nulla della sterile delicatezza dell’inverno, è quel momento di trepidante preparazione al lasciarsi andare che caratterizza la stagione.

Tutta questa morte mi ha caricato dello strano bisogno di stargli vicino. La voglia di premere un orecchio contro il suo petto per ascoltare il suo cuore a volte ha la meglio. Non ho mai avuto tanta paura come quando l’ho guardato, chiedendomi quanto fosse lento e regolare il suo cuore, e lui mi mi ha preso per il mento e si è abbassato per farmi posare la testa sul suo torace. Era lento. Stranamente lento. Ho alzato gli occhi, inarcando un sopracciglio.

« Cuore modificato » ha spiegato concisamente.

« Ewww » ho fatto io vivacemente, rovinando allegramente il momento. « Ma che schifo, Vincent. Perché batte più lento? »

« I battiti sono più forti, per questo ne servono di meno. » Ha allungato due dita sul mio collo, verificando il mio. « Il tuo è più veloce, ma comunque sotto la media. È una buona cosa. »

« Hai altri organi assurdi? »

« … Migliorie al cervello. »

« Ewwww. »

« … Migliorie alla vista… »

« Ewwwww. »

« Maggiore efficienza nell’utilizzo delle materia dovuta all’incremento di ghiandole; un sistema respiratorio più funzionale; un orecchio dietro il collo e due milze. »

« … Okay, adesso sfotti. »

Lui è rimasto impassibile. « E tre stomaci. »

« Ora puoi anche stare zitto. »

« E cinque gole. »

« Tutte le tue cinque gole possono tacere. »

« Trasudo una sostanza viscida quando ho paura. »

« Per tua informazione, sei rivoltante. »

« Ho una sacca per le uova incorporata nella coscia. »

« Vincent, ti vomito addosso. »

« E un piede tarocco. »

« Vincent! »

Credo di avere una cattiva influenza su di lui. Credo che potrei adorarlo.




… resti di sacrifici sono stati rinvenuti sull’altare; tuttavia, è ancora da stabilire se i rituali e la possibile evocazione di Aesculapius avessero luogo all’interno del tempio stesso o in un altro impianto. Molti documenti religiosi, che avrebbero potuto essere illuminanti in questo senso, furono incendiati come parte del processo di purificazione dopo la febbre, inconsapevolmente…

Lo leggevo fino a farmi sanguinare gli occhi e a ricordare perché mi addormentavo sempre a scuola.

… frammenti di materia ritrovati al…

… punto di coagulazione a nord-est del…

… ad ogni modo, nessuno di essi è stato ritrovato…


I risultati della mia ricerca non erano esattamente buoni. Dieci miliardi di persone erano andate a cercare Aesculapius prima che io facessi i miei piani. E non avevano trovato una mazza. Però c’era questa vocina nella mia testa che bisbigliava: “Provaci, Yuffie. Provaci.”

… prodotto un’elevata quantità di “Heal” e “Restore” materia. Non abbastanza, comunque, da giustificare l’ipotesi che la zona fosse un tempo un centro di culto dello spirito Guaritore, tanto che in molti sostengono che sia stato sorvolato un luogo chiave, ma con tutta probabilità Aesculapius altro non era che una figura religiosa primitiva, piuttosto che un potente spirito da evocare…

Non dovrei mai dare ascolto alle voci nella mia testa. Sono le stesse che mi dicono di rubare la roba. Ero sicura di avere un demone al posto della coscienza.

… con l’estinzione della tribù giasonica, la più vicina al centro interessato, si è persa ogni possibile traccia, e gli unici indizi riguardanti la verità celata dai racconti ci vengono da qualche sporadico antenato…

Ho progettato di partire a metà autunno. Qualche giorno in più e avrebbe potuto essere troppo tardi.

È andata a finire che tanto era già troppo tardi.




Siamo rimasti in casa quell’autunno. Lasciavamo aperte le finestre per far passare la brezza dei fiori estivi che appassivano, ma a parte le volte in cui lui mi metteva a sedere alla luce del sole non uscivo. Vincent era fissato con la storia che dovevo stare abbastanza tempo alla luce del sole; conteneva una qualche vitamina pallosa o che so io. Mi sentivo come una pianta in vaso; strano che non mi abbia innaffiato.

Rimanevo seduta per lunghe ore, tiravo su la maglia e giù i pantaloni di cotone per studiare il mio corpo. I marchi tondeggianti del veleno si erano attorcigliati su di me come l’edera su una quercia; avevano seguito le vene della coscia e della pancia, e stavano strisciando sulla gabbia toracica, dritti il cuore. Una morte lenta. Una piccola vite avanzava lentamente verso la mia ascella. Avevo l’abitudine di guardarle e rabbrividire finché Vincent non mi aggomitolava in una coperta e mi dava il tè cattivo di Asako, contro le mie deboli non proteste. Ho scoperto che il suo scopo era prevenire la febbre, bloccarla. Prima non sapevo esattamente a cosa servisse la febbre. Il mio corpo si riscaldava continuamente nel tentativo di distruggere l’infezione, che viveva alla mia temperatura corporea e magari sarebbe morta se esposta ad una maggiore. Ma questa non era un’infezione comune, e avrei bruciato come un legnetto asciutto se il mio corpo avesse preso il controllo.

Ancora mordevo le dita di Vincent ogni volta che nonna mi apriva la gamba. Ancora la solita coniglia.

Il mio ritmo sonno-veglia è mutato drasticamente, e non so proprio quand’è che Vincent dormisse. A volte dormivo tutta la notte; a volte di giorno. A volte dormivo dalle cinque alle tre del mattino. Mi svegliavo sempre con lui che mi scrutava, irrigidita dal sonno e dalla malattia, e gli facevo delle piccole fusa di soddisfazione mentre mi massaggiava via tutta la tensione. Mi si arricciavano le dita, la schiena si piegava, e la gamba buona si tendeva. Non toccava mai la gamba malandata, non troppo; faceva un male cane. L’unica volta che ci ha provato ho pianto come una bambina.

Mi sono svegliata di nuovo alle tre del mattino, in un buio tenue, il cielo blu scuro trapuntato di stelle. Lo vedevo dalla finestra. C’era anche la luna, un’esile mezzaluna crescente d’argento. O era gibbosa? Non ricordavo; Vincent una volta si è seduto accanto a me e mi ha spiegato tutto quello che c’è da sapere sulle fasi lunari, ma l’unica cosa che mi era rimasta impressa era il fatto di aver riso per ore come una maniaca per la parola “gibbosa.”

Eh, eh. Scimmie.

« Buongiorno, Yuffie. » La sua voce era purissimo velluto luminoso. « Come ti senti? »

« La schiena, Vinnie. » Ho gli occhi, facendo mente locale del mio corpo. « Mi fa male la schiena. » Non era esatto, visto che più che altro non riuscivo a sentirla. Non riuscivo a sentire neanche i fianchi. Mi sentivo come un blocco di marmo nero. Ho cercato di dimenare le dita dei piedi; si sono mosse, per quanto a fatica.

Lui mi ha rigirato, alzando la maglia di cotone madida di sudore per praticare la sua magia sulla mia schiena. Le sue dita lunghe mi hanno sbrogliato i nodi sul collo, suscitando un lungo, flebile sospiro di sollievo, e poi ha tolto le mani.

« Non smettere » ho mormorato mezz’addormentata.

« … Yuffie, non ho smesso. »

Mi sono immobilizzata.

« Ho le mani sulla parte inferiore della tua schiena. »

« Non le sento. Stamattina devo essere intirizzita. Probabilmente a breve partiranno fortissimi formicolii. »

Ha lavorato un po’ sul mio corpo. Riuscivo a sentire le sue mani spostare la mia pelle da quel punto, ma per il resto niente.

« Va meglio? » ha chiesto dopo un po’.

« No. »

Standomene sdraiata lì, al buio quasi totale, con addosso le sue mani che non riuscivo neppure a percepire, ha iniziato a salirmi paura.

« … Questo l’hai sentito? »

« Non ho sentito nulla. »

« Ti ho appena dato un pizzicotto. » La sua mano è scivolata sulla mia gamba, dove sentivo ancora qualcosa. « Riesci a- »

« La gamba la sento, però- »

« Ti sei fatta male la schiena e- »

« Te l’avrei detto, Vinnie- »

« Voglio che provi a sederti. »

Mi ha rigirato nuovamente sulla schiena. Il mio cervello ha ordinato alla mia schiena di piegarsi e a tutta la piccola magia del mio sistema nervoso di tornare a sprizzare scintille, di farmi sedere. Ho ansimato nei vari tentativi, come un pesce, contorcendomi, arcuando il collo e scalciando la gamba per cercare di trascinarmi in avanti. Era come se avessi un peso invisibile sui fianchi e sulla schiena; le parti inferiori non rispondevano e stavano mandando a puttane il resto della mia spina dorsale. Non riuscivo a sedermi.

« Vincent » ho biascicato col fiatone, « Vinnie, io – io non riesc- io- »

« Forza, Yuffie. » Un incoraggiamento così gentile, che nascondeva un qualcosa di acuminato che urlava. « Puoi farcela. »

« Non ci riesco » ho piagnucolato. « nonciriescononciriescononciriescostupidoddiomoriromoriromorir- »

Deciso ed efficiente, mi ha dato uno schiaffo. Non uno schiaffo leggero, uno schiaffo abbastanza forte da farmi vedere le stelle e buttare la testa all’indietro. Senza tanti preamboli, mi ha rimesso prona, armeggiando con la mano buona, e ha fatto una cosa alla mia spina dorsale che sono stata lieta di non poter sentire. Ho potuto solo piangere lacrime silenziose e infelici, poi ho sentito tutta l’aria uscirmi dai polmoni quando lui mi conficcato un pugno nell’area dei reni. Il mio pianto si è ridotto a piccoli singhiozzi infantili e sorpresi di dolore. Ho creduto sinceramente che mi odiasse in quel momento. Che mi odiasse perché ero malata e che mi odiasse perché non miglioravo e mi odiasse perché stavo morendo, che mi odiasse per tutto, che mi odiasse e basta. Poi mi ha rivoltato lentamente – le vertigini – e mi portato in una posizione seduta lui stesso, la faccia contratta in una maschera mortuaria di dolore. I suoi occhi sanguinavano di rosso. Era il nostro colpo di grazia. La mia schiena ha ceduto; i miei nervi hanno ceduto; quanto manca al resto? La morte si forma a strati. Io stavo scivolando sempre più in basso, in basso, in basso-

« Vado a prendere Asako. » La voce di velluto aveva cambiato tessuto, era diventata ruvida e scabra.

« No » è stato il mio gemito istantaneo. « Vinnie no, ti prego. Resta qui. Non lasciarmi. Non ancora. »

Mi ha raccattato fra le sue braccia e ha riposto le lunghe gambe sul lato del letto. Era ancora buio e non c’era un solo accenno di sole, nessuna macchia di grigio a est. Mi ha sorretto e mi ha portato la tazza alla bocca mentre bevevo il tè tiepido che mi aveva preparato, sorso dopo sorso. Piangevo e bevevo, il petto preso da convulsioni, lui mi ha asciugato con l’indice le goccioline che mi sfuggivano.

Non avrei camminato mai più. Non avrei corso mai più. Non sarei mai andata a cercare Aesculapius ed ero già morta.

« Pensavo che prima di arrivare a questo » ho detto, un gorgoglio di acido tannico e saliva, lacrime e sudore, « sarebbero passati mesi! »

« … Non è tutta la tua schiena. Non saprei dire con precisione cosa è stato colpito, non sono un esperto, ma- »

« Ma non posso camminare, non posso sedermi, non posso - non posso fare niente, Vincent! Sono un – una – una maledetta mongoloide! Una ritardata! Una storpia! »

« No, sei ancora Yuffie. » ha ribattuto, in tono tanto esausto.

Per qualche ragione, quelle parole mi hanno calmato un po’, o almeno hanno solleticato la mia fantasia quel che basta per farmi ridere nel tè e sbuffarmelo sulle guance. Ho accettato e ho buttato giù l’ultimo sorso amaro che mi ha porto. Ha afferrato il portapillole dal tavolo vicino al mio lettino improvvisato con inconsapevole naturalezza e ha schiacciato la medicina con l’artiglio per versarmela nel tè. Stupefacente, la destrezza con cui si giostrava con quella cosa. Ho preso la tazza in silenzio, avvertendo il sapore delle pillole, facendo una smorfia.

« Respira » mi ha istruito gentilmente, vedendomi soffocare, andare in iperventilazione. Mi metteva tanta claustrofobia, stare al buio, nel calore delle sue braccia. « Inspira. Espira. Inspira. Espira. »

Ho preso delle boccate d’aria, parzialmente sorpresa di me stessa. La vecchia Yuffie non avrebbe permesso a nessuno di dirle come fare le cose; e invece adesso Vincent mi diceva come respirare, e io accoglievo i suoi consigli con gratitudine, come se lui fosse la ragione per cui l’ossigeno mi entrava nei polmoni. Alla fine la barriera si è sciolta e ho respirato di nuovo liberamente.

Il tè era finito, erano rimaste solo delle erbe pesanti sul fondo della tazza. Le ho rivoltate tristemente. Vincent ha riposto la tazza sul mobile.

« Adesso andiamo da Asa. » ha imposto, in una voce che non ammetteva repliche. Mi ha preso in braccio, la mia schiena era come marmo. Ora c’era un po’ di luce, quella delle stelle, e ho visto che era a torso nudo e indossava ancora solo i pantaloni della tuta, i capelli legati disordinatamente sopra la testa. Era bello abbastanza da spezzarmi il cuore quando ha aperto la porta facendo entrare l’aria fredda della notte, senza disturbarsi a mettersi una maglia o a trovarmi dei pantaloni, e ha sceso gli antichi gradini di pietra sotto casa mia.

Ricordo di aver pensato che la luna era effettivamente gibbosa.




Nonna, che non era Dio, non ha potuto farmi un cazzo, ma quello lo sapevamo fin dal principio. Abbiamo costruito un fermo per la schiena perché potessi stare in una posizione seduta senza afflosciarmi in un ammasso di gomma. In fin dei conti era Vincent che mi trasportava a destra e manca, quindi le cose non cambiavano più di tanto, ma adesso dovevo essere sostenuta quasi costantemente e avevo ormai poco tempo da passare da sola. Vincent mi svegliava tante volte per rivoltarmi; dopo un po’ ho imparato a ignorarlo e a rimanere addormentata.

Mi lagnavo ininterrottamente della cosa. Questo sembrava risollevare il morale chi mi stava intorno.

A papà si sono ingrigiti i capelli. Se non dormivo, al pomeriggio Vincent mi portava come di consueto a casa sua e rimanevamo seduti insieme a guardare i suoi pesci e i laghetti artificiali, parlando col nostro silenzio. I suoi capelli non erano bianchi e puri come gelato alla vaniglia stile Asako – erano grigi come le ceneri consumate della legna. Non mi ero accorta di quanto in fretta stesse invecchiando. Avevo l’orribile sensazione di conoscere la causa.

Stavamo sulla panchina. Per me c’era una poltrona con le cinghie, ma la scartavo quasi sempre perché troppo umiliante, preferendo stravaccarmi per terra. Papà voleva che la usassi e avevamo avuto un piccolo ma assai rinvigorente diverbio sull’argomento. Alla fine gli ho poggiato la testa sulla coscia, sdraiata sulla panchina, a respirare il suo odore di linfa di denti di leone e a guardare il cielo e il suo naso.

« Vecchio, i peli del naso ti stanno diventando grigi. »

« Come tutto il resto. »

« Dovresti depilarteli. »

« In inverno mi tengono le narici calde. »

« Sei un vecchiaccio disgustoso e decrepito. »

« E tu una figlia degenere e ingrata. »

È caduto un altro lungo momento di silenzio. Una densa nuvola di cotone grigio correva veloce sopra di noi. Il cielo era del colore del ghiaccio artico. Vincent era da qualche altra parte in giardino, quasi sicuramente grato di potersi congedare per un po’ dalla mia presenza. Allungando un po’ il collo mi pareva di poter vedere il braccio del suo yukata.

« Yuffie » ha detto Godo all’improvviso, con voce dolce e molto bassa. « Dobbiamo parlare. »

« Spara. »

« Come ben sai, ti ho ceduto formalmente il governo di Wutai prima della tua partenza. In tua assenza il mio ruolo è stato quello di reggente. »

« In realtà no, non lo sapevo. » Non ci avevo neanche pensato. Lady Kisaragi. Tanto mi ci chiamavano già.

« Possibile che non stai mai attenta? Yuffie, è una questione molto importante, quindi per piacere, apri bene quelle sciocche orecchie e ascolta, per una volta. »

Ho aperto quelle sciocche orecchie e ho ascoltato.

Mi ha accarezzato i capelli. Un gesto così tenero da mettermi immediatamente sul chi vive. « Yuffie, ogni leader di Wutai, se non ha figli o figlie, deve scegliere un erede prima di morire. »

« Se io muoio, non tornerai tu a essere il leader? »

« In teoria. Potrebbe succedere. Ma sarebbe il caso peggiore. Non puoi scegliere me legittimamente come tuo erede – se lo facessi, la cosa potrebbe essere vista come una presa di potere da parte mia, e qualcun altro potrebbe tentare di diventare lord, dicendo che tu non eri nel pieno delle tue facoltà. La gente vuole un erede giovane. Sarebbe meglio che tu scegliessi qualcuno adesso – uno dei tuoi cugini, forse – una persona giovane. »

« Shake? Chekov? »

« Loro sono servitori, Yuffie. Giovane. Stavo pensando ad Arin, o forse a Kaede- »

« Papà! » sono esplosa subito. « Arin non vuole governare Wutai! » Era il mio cugino timido, che attualmente lavorava al Turtle’s Paradise per poter guadagnare i soldi necessari per trasferirsi a Junon. In quelle rare occasioni in cui avevamo parlato, avevo sempre avuto l’impressione che non volesse affatto diventare leader di nulla. « Odierebbe il lavoro. E Kaede è una cretina. Si farebbe sposare da chiunque volesse impadronirsi del potere. »

« Lo so » ha ammesso mestamente. « Ma dev’esserci un erede. Perché credi che volessi tanto dei nipoti da te? »

« Perché eri un vecchio, lurido sadico! »

« I tuoi parenti più piccoli sono fin troppo giovani » ha proseguito piano. « E con quello che probabilmente ti rimane da vivere, permettimi di essere schietto, non riusciranno mai a essere pronti entro la tua dipartita da questa valle di lacrime. » La sua voce si era indurita. Stava cercando di non piangere, forse. « Potresti semplicemente scegliere Arin come intermediario, che possa cedere a sua volta il potere quando giungerà il momento opportuno, magari- »

« Allora è così che finisce la dinastia dei Kisaragi? In un manipolo di custodi? »

« » è sbottato all’improvviso. « Finisce con la morte prematura della Lady perché è stata abbastanza idiota da girare il mondo per Dio sa quanto tempo ignorando i suoi compiti, da farsi mordere da un baka nemakki velenoso, e da avere l’accortezza di morire quando a suo padre già rimanevano pochi anni di vita. Tutto quello per cui abbiamo lavorato e che abbiamo conseguito potrebbe sbriciolarsi nel nulla se tu ci lasci senza un capo! »

Sul giardino è sceso il silenzio.

« La gente vuole una persona nobile » ho mormorato.

« Sì. »

« Forte. »

« Sì. » ha ripetuto lui, malinconico.

« Che non abusi del potere. »

« Sì. Yuffie, cosa stai- »

« Approvata da me. »

Il sospetto gli ha scurito gli occhi. « Yuffie- »

« E che, elemento da non sottovalutare, duri un po’. Ehi, Vincent » ho strillato, facendo leva sulla gamba di mio padre per provare a tirarmi su. Lui mi ha tenuto su immediatamente. « Vinnie, vieni qui. »

Lui ha smesso di studiare le rose e si è accostato, elegantissimo, gli occhi interrogativi. Mio padre mi stava fissando come se avessi appena innescato una bomba a orologeria.

« Yuffie? »

« Vincent? Quanto sangue wutaiano hai nelle vene? »

Lui ha corrugato la fronte pensando alla risposta, curvando le labbra in sorrisetto sardonico. « … A tredici anni ho lavorato in un takeaway. »

« Perfetto. Papà? Scelgo lui. »

« Yuffie, non puoi scegliere lui come tuo erede! »

« … Yuffie, non puoi scegliere me come tuo erede. »

Lo hanno detto nel medesimo istante. Che spalle comiche.

« Come hai fatto a sentirmi dall’altra parte del giardino? » ho sbraitato a Vincent, sospettosa, poi sono tornata a Godo. Forse aveva davvero un orecchio dietro il collo. « Senti. Vincent è bravo. Alla gente piace e anche lui ha fatto parte dell’AVALANCHE – più di lui c’è solo quel dannato di Cloud Strife, ma lui non saprebbe guidare un villaggio neppure a pagarlo, già è tanto che riesca a spazzolarsi i capelli senza perdere il pettine. »

« Se si spazzola i capelli perché dovrebbe usare un pettine? »

« Beh, ti ho appena detto che è idiota. »

« Yuffie! » La voce di Vincent lasciava trasparire un po’ di panico. « Yuffie, io… io non ho la più pallida idea di come si guidi un villaggio, un – una città! Non voglio quel genere di potere. Voglio essere lasciato in pace » ha concluso lamentosamente.

« Peggio per te. Vincent, se non posso scegliere te, non posso scegliere nessuno. Vuoi che Wutai muoia con me? Vuoi che le morti siano due anziché una? » Ho serrato le mani in due pugni, torcendo le labbra in una smorfia che preannunciava il pianto. « Quando morirò, lo so già cosa ne sarà di te. Ti rinchiuderai di nuovo nel tuo loculo, o te ne tornerai a Gongaga a vivere in una casetta senza mai parlare a nessuno – e questo se va bene. Potresti anche andare alla Cascata dove passeresti il resto dei tuoi giorni a leccare la muffa dei muri e a compiangerti perché non solo hai lasciato morire Lucrecia, ma hai lasciato morire pure me. » Qui ha indietreggiato. La diceva lunga! La rabbia immediata che gli si è formata negli occhi era difficile da sopportare, ma ho incalzato. « Stai facendo tutto questo solo per farti del male, Vincent? Vuoi vedermi morire? Vuoi sentirti in colpa per la mia morte per le prossime dieci ere geologiche? Non ti permetterò di usarmi per una cosa simile. Mai e poi mai!
« Perciò, Vincent Valentine, in qualità di Lady Kisaragi, con la mia parola legalmente vincolante ti proclamo mio erede e Lord al posto mio. Ti adotto anche come Shinobi; il tuo onore è il nostro onore; il tuo disonore il nostro disonore. » La mia voce è rifluita nella cadenza tonante dei rituali. Mio padre osservava la scena, sgomento, ma ormai era troppo tardi. Vincent aveva tutta l’aria di aver appena inghiottito una rana che gli scendeva giù scalciando. « Il tuo sangue è il nostro sangue. Questa famiglia è la tua famiglia. Tu sei Kisaragi Vincent. »

I miei logori polmoni avevano già esaurito l’ossigeno, e così ho dovuto prendere un bel respiro per riempirli. Amen.

Godo e Vincent sono stati colpiti da muta apoplessia e sono morti sul colpo. Beh, almeno credo che gli sarebbe piaciuto. O forse l’ictus stava venendo a me. Dalla faccia, sembrava che Vincent morisse dalla voglia di diventare Chaos per strangolarmi.

All’improvviso, mio padre si è sputato in mano. « Ne sono testimone » ha sussurrato in wutaiano cadenzato, « e lo dichiaro vincolante. »

Io ho sputato nella mia. « Ne sono testimone » ho bisbigliato, « e lo dichiaro vincolante. »

Abbiamo guardato Vincent. Molto, molto lentamente, lui si è sputato in mano, e ce le siamo strette. Mi sono chiesta per un attimo perché non si potesse usare qualcosa di meno disgustoso per i patti vincolanti, tipo vomito o sangue arterioso.

« Ne sono testimone » ha brontolato, la voce dalle parti dei piedi. « e – e lo dichiaro vincolante – e – Yuffie- »

Ha incrociato i miei occhi. Erano colmi di rabbia, e azzardato risentimento, e di una cosa talmente tenera, giovane e insicura che non me ne fregava più niente.

« Se dovessi vivere » ho iniziato, e non sapevo perché l’avevo detto così, ma solo che d’un tratto mi sentivo tanto vecchia, più di lui – merda, tanto non sapevo neanche cosa stavo dicendo, era nella mia voce, non nelle parole – « se dovessi vivere, lo farei per te, Kisaragi Vincent. »

Lui mi ha abbracciato, con tutto lo sputo. Godo si è alzato e ha avuto il tatto di lasciarci quel momento privato e appiccicoso. Avevo la testa sulla spalla di Vincent, e non so cosa stesse pensando. Kisaragi Vincent. Aveva un suono perfetto. Come se finalmente l’avessi assorbito e l’avessi reso parte di me, per tutta l’eternità.

« Ti voglio bene, sai » ho detto piano.

Vincent mi ha guardato. Nei suoi occhi senza tempo c’era qualcosa di così ventisettenne che la mia bocca si è sciolta in un sorriso.

« Il tuo amore, Yuffie, è una cosa feroce. »

Nel battito di quel secondo ho pensato che mi avrebbe baciato. Aveva le mani calde, a sostegno della mia inutilizzabile schiena, il corpo premuto con cautela contro la gamba pulsante. All’improvviso non era più Vincent, un vecchio sessantenne nel corpo di un uomo giovane; era l’altra parte di me, vivo, appassionato e cristallino. Nessun demone. Nessuna ferita.

Invece mi ha sollevato e si è messo in piedi. « … E francamente, fa cagare. »

« Vincent! Vincent! Hai detto “fa cagare!” »

Mi ha stretto le mani attorno con un sospiro. « … Sì, Yuffie. »

« Hai usato un esempio di cultura pop! Oh, Vincent! » Ho drizzato la testa. « Sta arrivando la Meteora? Perché, dico, hai appena detto “fa cagare.” »

« … Sì, Yuffie. »

« E l’hai usata nel senso figurato, non in quello proprio, ché te l’avrei pure potuto abbonare un “io cago nella tazza,” no, tu hai detto proprio “fa cagare,” un’espressione popolare per descrivere negativamente qualcosa! »

Ha portato gli occhi al cielo in un gesto disperato alla “perché a me?”, e siamo rientrati in casa a lavarci le mani. Beh, a fargliele lavare a entrambi.

« … L’hai detto veramente! »

« … , Yuffie… »




Buffo come vadano a finire le cose.

E quanto poco tempo passa dal lutto alla gioia, dai sorrisi alle lacrime, dal dolore all’adolescenza. Per me ormai la vita era come un filo che si accorciava velocemente, un lasso di tempo da terminare, ogni fibra del mio essere era ricoperta dallo strato spesso e lucente della mortalità. Avevo un erede. Avrei dato il mio trono a Vincent dopo la mia morte. Lo avrei avuto con me sino a quando il cuore non mi avesse ceduto e fossi partita verso la grande Capanna di Materia che sta nei cieli. Adesso faceva parte della mia famiglia – che figata pazzesca. Avevo tante cose.

Un salto dal lutto alla gioia. Dalla speranza alla delusione più nera. Ero stata così impaziente di scivolare via mentre suonava il mio canto del cigno per poi tornare intera, radiosa, guarita, Aesculapius. Dio, come avevo anche solo potuto pensare che io sarei riuscita dove milioni di altri non avevano potuto, loro che avevano tempo, risorse e salute a disposizione? Sarei morta.

Non volevo morire adesso. Non in silenzio. Non con eleganza.

Mio padre mi aveva raccontato-

Nessuno muore con eleganza, Yuffie, o con dignità – sono tutte bugie. Tua madre… nelle ultime ore… ha rifiutato ulteriori cure e mi ha implorato di portarla fuori per farla morire. Con dignità.

È morta che sputacchiava e ansimava, incapace di muoversi, implorandomi con gli occhi di non farla morire, Yuffie. È morta senza dignità. È semplicemente morta sotto i raggi del sole. Non esiste l’eleganza quando abbandoni tutto – e raramente – se non mai – e qui di sicuro non ci sarà mai… I Kisaragi muoiono in battaglia. Non perché sia una morte dignitosa – ma perché almeno ha la misericordia di essere rapida, e perché nessuno si aspetta eleganza da un campo di battaglia…


Avevo letto e riletto i paragrafi riguardanti Aesculapius (e Ashura) tanto da impararli a memoria, poi avevo depredato la biblioteca di mio padre per ricercare altre informazioni. Le avevo sfogliate sul letto, nelle notti piovose, tenuta su dai cuscini. C’era pochissimo su questo maledetto spirito! Alcuni libri lo liquidavano come diceria, altri lo dichiaravano un fatto. Avevo studiato ogni libro – ogni tomo sulla materia, ogni volume di geografia. Vincent non aveva ancora capito una ceppa della ricerca del mio miracolo, per quanto diamine fossi stata esplicita – avevo spillato tutti i resoconti, le cartine e gli articoli, e li avevo tenuti nascoste sotto il materasso. Dopo me la ridevo istericamente, al pensiero di essere riuscita a fare tutto da sola come ai vecchi tempi.

E adesso? Non potevo camminare e stavo appassendo in fretta. Senza la regolare dose di medicine – medicine che proprio non sapevo come scegliere e amministrare da sola – avrei potuto tirare le cuoia entro una settimana. Mi serviva più tempo per cercare Aesculapius. Ero malata da quasi quattro mesi – anzi, di più – e solo avendo fortuna avrei potuto viverne altri due. La mia vita era come uno straccio che mi veniva strappato da sotto ai piedi, ed ero già caduta sul sedere facendo il botto. Ero ricaduta nello stesso tipo di depressione che avevo sperimentato nel primo periodo della malattia a Wutai: qualunque cosa Vincent potesse fare, io mi limitavo a dormire, e quando mi svegliavo ero tetra e taciturna.

Perciò, per recitare un ultimo amaro addio alle mie speranze, ho deciso di bruciare tutti i tabulati che avevo racimolato su quelle stupide montagne, su quello stupido spirito e su quelle stupide cartine e poi di dare un bacio alle ceneri prima di buttarle. Essendo io un emerita deficiente, ho chiesto a Vincent di prestarmi la Fire materia.

« Perché odi così tanto la geografia delle montagne di Icicle? » mi ha domandato mitemente, scrutando i fogli, le mappe e i punti che avevo segnato, i sentieri da percorrere.

« Tu dammi quella cavolo di materia » ho bofonchiato. « Voglio mandare tutte queste stupidaggini all’inferno. »

Lui ha scartabellato i rapporti con un sopracciglio inarcato. « Perché? »

« … Prometti di non ridere di me? »

« Lo giuro. »

Mi si sono accasciate le spalle e ho incrociato le braccia. « … Volevo andare a cercare uno spirito da evocare, uno spirito che guarisce dai veleni. Non so perché ho pensato che potesse funzionare. Sarà stato soltanto uno di quei sogni impossibili, un ultimo tentativo dettato dalla disperazione. »

« Aesculapius. » Non mi aveva praticamente neanche ascoltato, aveva continuato a sfogliare. « Tu… tu volevi andarlo a cercare? »

« Sì. »

« Anche la Shinra l’ha cercato. Quand’ero un Turk… »

« Mi spiace se mi sono emozionata tanto per una stronzata, allora. »

Ha fissato il mio viso infelice e tirato, con le ossa che sporgevano. « È per questo che eri così allegra, Yuffie? Prima… della schiena? Volevi trovare questo spirito? »

« Volevo vivere. »

Lui è rimasto in silenzio per un bel pezzo.

« Se neanche la potente Shinra ha trovato qualcosa, » ho deciso facendo spallucce, « suppongo che dovrei essere lieta di non averci provato. Probabilmente sarei soltanto morta tra le montagne. Però, in realtà, sarebbe meglio crepare in mezzo a tutta quella neve. Tempo pochi istanti diventi un ghiacciolo, non marcisci o altre cose schifose… »

Altro momento di silenzio. Lui è andato nella mia piccola cucina per versarsi e bere un po’ di tè, gli occhi rosso sangue a un milione di chilometri di distanza. Sembrava che stesse riflettendo con tanta intensità che quasi gli fumava il cervello.

« Yuffie » ha detto alla fine, a bassa voce. « Non ho mai detto che la Shinra non ha trovato niente. »

Il mio cuore si è fermato.

« Hanno trovato… hanno trovato tracce, hanno… »

Ho proteso una mano e l’ho agganciato per la vita, gli occhi che ardevano. Anche se il braccio era debole, l’ho trascinato verso di me con più forza che potevo, praticamente cadendo dal letto. « Vincent Valentine, tu mi porterai su quella montagna che ti piaccia o no. »

« Yuffie, la tua schiena… »

« Tu puoi portarmi in braccio. »

« … Si gela. »

« Metterò una giacca in valigia. »

« È pieno di mostri. »

« Dammi una pistola. »

« Tuo padre. »

« E tu non dirglielo. »

« Ci sono una mezza dozzina di cose che potrebbero ucciderti nelle tue condizioni… »

« Che ci provino. »

« … »

« Hai sentito sì o no la proposizione “che ti piaccia o no?” »

« Fammi indovinare » ha ricapitolato in tono pesante, mentre lunghe ciocche di capelli neri come l’ebano si liberavano della coda ordinata che aveva sulla nuca e gli sfioravano le guance. « Alla fine ti ci porterò, vero? »

« Puoi scommetterci, baby. » Avevo le guance rosse come pomodori, e non riuscivo a staccarmi quel sorrisone dalla faccia. Un passo, per tornare dalla delusione alla speranza. « Mi ci porti davvero? »

« Certo, Yuffie. » Un sorriso ironico gli ha stirato i lineamenti mentre una sua mano scivolava dietro la mia inutile schiena per sorreggermi. « Io non infrango le mie promesse. »

« Quale promessa? »

« Una che ho fatto a me stesso, per assicurarmi che tu vivessi. »

« Oh, Vin. Non so cosa farei senza di te… » Gli ho stretto le braccia al collo, appoggiandogli la guancia sulla spalla. « In realtà vuoi che non muoia solo per non essere costretto a diventare Lord Vincent, stronzo » ho aggiunto affettuosamente.

« Esatto. »

Gli ho dato un bacio sulla guancia, anche se quasi quasi mi sarebbe piaciuto ficcargli la lingua in gola e giocare a hockey con le sue tonsille spinta soltanto da gratitudine. Però forse sarebbe stato esagerato. In quel momento mi sembrava il mio angelo vendicatore, gli occhi cremisi tranquilli. Non riuscivo a credere che avesse acconsentito con tanta facilità, che mi ci portasse davvero, che ci sperasse. Non potevo non trovare Aesculapius dopo una tale dimostrazione di fiducia. « Vivrò, Vincent. Lo giuro! Vivrò! »
   
 
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