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Autore: Lyoker    26/10/2012    1 recensioni
'Foglie di basilico' è una storia nata su EFP durante il mese di maggio-giugno-luglio.
Successivamente lo oscurai e mandai il manoscritto al Gruppo Albatros, che mi inviò un contratto di pubblicazione (che poi ho successivamente rifiutato).
Il protagonista, un ragazzo attaccato alla ripetitività del suo quotidiano, si ritroverà ad affrontare un viaggio, suo malgrado, che gli permetterà di staccarsi da queste sue radici, dolente o nolente. Un viaggio di avventure drammatiche, ricche di riflessioni e di domande rivolte a se stessi, e l'insaziabile ricerca della maturazione verso il mondo adulto, fatta di scelte, logica e volontà d'animo.
ATTENZIONE:
- Non è una storia YAOI, c'è solo un accenno di Shonen'ai, ma non tratta di una storia d'amore omosessuale. Grazie.
- La maggior parte dei personaggi sono minorenni.
- Ogni riferimento a cosa o persone è da considerarsi puramente casuale.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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'Foglie di basilico' è una storia nata su EFP durante il mese di maggio-giugno-luglio.
Successivamente lo oscurai e mandai il manoscritto al Gruppo Albatros, che mi inviò un contratto di pubblicazione (che poi ho successivamente rifiutato).
Il protagonista, un ragazzo attaccato alla ripetitività del suo quotidiano, si ritroverà ad affrontare un viaggio, suo malgrado, che gli permetterà di staccarsi da queste sue radici, dolente o nolente. Un viaggio di avventure drammatiche, ricche di riflessioni e di domande rivolte a se stessi, e l'insaziabile ricerca della maturazione verso il mondo adulto, fatta di scelte, logica e volontà d'animo.
ATTENZIONE: 
- Non è una storia YAOI, c'è solo un accenno di Shonen'ai, ma non tratta di una storia d'amore omosessuale. Grazie.
- La maggior parte dei personaggi sono minorenni.
- Ogni riferimento a cosa o persone è da considerarsi puramente casuale.

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Mi fa strano. Sento caldo.

   È l’effetto serra, forse. O forse è solo metà giugno nella parte più a sud dell’Italia.
 E qui, stanco, spossato, passato, al centro del mio vecchio studio, ripenso ai momenti andati della mia giovinezza.  Fa abbastanza caldo, forse troppo per la mia età. Eppure sento ancora un altro calore sulla pelle. Un calore che non deriva né dal sole, né dalla mia vecchiaia.
Un calore che non provavo dall’età di quindici anni.
Fa strano pensare alla mia età, un vecchio come me, ripensare al primo amore. Malgrado ciò, più vado avanti con gli anni, più i miei capelli brillino di candore, ripenso alle gioie e ai dolori di un amore che mi ha segnato, sebbene fossi ancora un ragazzo.
Non avrei mai creduto di vivere così a lungo.
 
Era il 2008, ed io ero al mio … Uh, credo fosse il secondo anno di liceo. Sì, sicuramente era il mio secondo anno. Avevo quindici anni all’epoca, una bella età, dopotutto. Un’età in cui si è ancora legati al mondo dell’infanzia, se non vuoi crescere troppo in fretta come la maggior parte dei miei coetanei, e allo stesso tempo ti affacci verso la finestra del mondo, per ammirarne tutta la sua spaventosa vastità. Ricordo il profumo di basilico. Mia madre lo coltivava sempre, in ogni periodo dell’anno, in ampi vasi di terracotta che esponeva fiera sul davanzale della cucina. Quando apriva la finestra, il vento entrava sempre come se chiedesse il permesso. Ogni volta che l’ombra padroneggiava sul posto, mia madre ne prendeva qualche foglia per buttarle in pentola, per poi sciacquare le altre. Quando l’acqua accarezzava quelle piccole foglie, l’odore di basilico si espandeva dolcemente per tutta la cucina. Mi piaceva vedere mia madre cucinare.
Ero solo, avevo lei. Lei e l’odore di basilico. Ricordo anche la ragazza del piano di sopra, che si allenava al pianoforte. Se non sbaglio, doveva avere la mia età, qualche anno in più perché era fresca diplomata.
Una ragazza allegra, pura, sorridente, che impiegava la maggior parte del suo tempo a suonare. Le note, come l’odore del basilico, occupavano tutta la cucina, e parte della casa. Era piacevole, mi dava un senso di armonia e tranquillità dopo la mattinata burrascosa a scuola.
Non che fossi un genio, ma per arrivare a un voto sufficientemente soddisfacente dovevo farmi in quattro.
All’epoca, ero un ragazzo come tanti, amante dei videogiochi, dei fumetti, forse un po’ troppo timido e riservato, non molto aperto. Ma c’era una cosa che mi faceva sentire libero. Diventare qualcuno che non ero io. A quell’età scoprii qualcosa che mi cambiò la vita.
Quella cosa si chiamava teatro.
Non era una cosa molto in voga tra i maschi, ma stare sulla scena mi rendeva felice. E anche piuttosto popolare, poiché la maggior parte degli attori della compagnia era costituita da ragazze.
Tuttavia, non ne ero molto interessato. Preferivo chiacchierare con loro, scherzare, uscire qualche volta, ma alla fine, solitamente imbarazzato, declinavo ogni interesse per loro. Mi ripetevo in continuazione che forse non ero pronto per questo genere di cose, ero ancora troppo giovane.
I miei compagni di classe e di teatro, a mio dispetto invece, erano già “uomini”, come si definivano. Solo perché a dodici o a tredici anni si erano portati a letto qualche ragazzina. Mi disgustavano.
Forse perché avevo ricevuto un’educazione diversa.
 
Forse perché mi ricordava mio padre.
A dire il vero, ancora oggi non ricordo niente di lui, se non qualche amara reminiscenza quando ero bambino. Crescendo non chiesi molto di lui a mia madre. Lei si limitava a ripetermi che un giorno se ne era andato. Con il tempo, mi rifiutai di ripeterle sempre le stesse domande. Sapevo che, nonostante ogni volta fosse voltata di spalle, con gli occhi fissi sulla pentola che bolliva, piangeva, mentre gettava altro basilico nel sugo.
Fin da ragazzo, un solo e unico desiderio occupò la mia mente: non cercare di amare qualcuno se poi sai di spezzargli il cuore. Mio padre, per quanto potesse essere codardo, per quanto potesse essere crudele, indirettamente mi aveva dato un grande insegnamento. Ama solo se sei in grado di amare davvero.
 
Non mi ero mai innamorato. Non ne avevo mai trovato il motivo per farlo.
Io non mi amavo. Se non amavo me stesso, come avrei potuto amare qualcun altro?
Eppure amavo ogni mio personaggio. Sul palco, nelle prove o tra i riflettori, riuscivo ad imprimere ogni parte di me in ciò che stavo vivendo. Una volta ero un ricco mercante senza scrupoli, un’altra volta il servo di una nobile famiglia decaduta, un’altra ero una ragazza vittima degli abusi dei suoi tutori…
Esatto, una ragazza.
Per quanto il personaggio fosse lontano da me, io riuscivo a interpretarlo magnificamente, e ne andavo molto fiero. Tante volte, quando interpretavo una bambina, o una vecchietta, o un qualsiasi altro personaggio, il pubblico alla fine dello spettacolo si aspettava sempre che fossi così. Si sbagliava.
Non vedeva altro che un ragazzo appena adolescente con la pelle un po’ scura, lunghi capelli neri e gli occhi malinconici. Questo ero io. Il mio fisico rispondeva a qualsiasi vestito indossassi, con qualche aggiunta di sartoria qua e là, per obbedire esattamente ai miei desideri estetici. Potevo sembrare una bambina delle elementari, e subito dopo, con un cambio di abito e di trucco potevo apparire come un vecchio professore in pensione. Amavo tutte queste possibilità che mi facevano viaggiare da un carattere a un altro. Forse è anche per questo motivo che ancora oggi non ho una personalità definita. E accorgersene ora, dopo quasi un secolo di vita, decennio in più, decennio in meno, mi fa quasi ribrezzo.
 
I copioni divennero le mie parole, i miei personaggi divennero i miei sentimenti. Io non ero altro che la forma vivente di parole messe in riga da celebri autori.
 
Questa era la mia vita, una vita come tante altre, diversa, ma niente di speciale. Nessun talento speciale, se non quella misera vocazione verso un palco che non mi avrebbe protetto dalle avversità del mondo, troppo incline alla violenza e alla cupidigia. Non era il mio destino.

Ma un giorno il mio destino cambiò, e mi salvò la vita. Senza pretese, senza cortesie, cambiò e basta.
La dizione, accumulata nella mia esperienza teatrale, mi portava ad avere un ottimo controllo della lingua, che da sempre considerai il perno principale della mia esistenza. L’essenza stessa del discorso risiedeva alla base della vita di ogni persona, della mia principalmente.
Conoscevo eccellentemente la mia lingua in ogni forma, discorsiva, volgare e corrente. I dialetti mi affascinavano, ma non erano di mio vero interesse. Spostai il mio talento linguistico verso le lingue europee, l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo, lo svedese. Già nel 2008 era possibile utilizzare il computer per accedere a numerosi corsi linguistici. In fondo, me la cavavo abbastanza con le tecnologie, sebbene oggi siano considerate ormai obsoleti e superati. D’altro canto, gli anni passano per tutti.

Così divennero le mie nuove giornate al ritorno da scuola, con la ragazza del piano di sopra che suonava dolci melodie, che ancora oggi mi sembra di sentire quando il vento muove le foglie dell’albero fuori la finestra del mio studio, il fuoco ai fornelli, la schiena di mia madre e l’odore di basilico. E poi, i miei amici.
Avevo amici in quasi ogni parte dell’Europa, tramite quelle funzioni che permettono di comunicare a distanza tra due connessioni in rete. Avevo conoscenze in Scozia, in Francia, in Norvegia, in Polonia, in Austria, in Ungheria e persino in Romania.
Ma un giorno, mi ritrovai a parlare con Lui.
All’epoca, non immaginavo neanche lontanamente chi fosse, ma oggi, con un sorriso amaro mi convinco ogni minuto di più che Lui era il mio destino.
Parlavamo spesso il pomeriggio, fuso orario permettendo. Battevo felice le mani sulla tastiera, formulando frasi sempre più complesse, mentre la ragazza che suonava mi dava ogni momento sempre più ispirazione.
Mi rendeva felice, tanto felice quanto stare sul palco. Era come se, per una volta, i miei personaggi non interferissero con i miei pensieri e le mie opinioni. Ciò che scrivevo erano mie parole.
Si chiamava Howaito, che nella sua lingua significava “bianco”. Sì, per la prima volta parlavo con qualcuno che non fosse europeo. Questo contatto arrivava dall’isola di Hokkaido, parte dell’arcipelago giapponese.
All’inizio nacque tutto un po’ per caso, ci conoscemmo su un forum americano per appassionati di un gioco di carte collezionabili. In una lunga discussione di dibattito, mi ritrovai tutta la comunità del server contro, tranne Lui. Era l’unico che la pensava come me. Ne fui felice, perché ero davvero convinto delle mie tesi, sebbene ormai non ricordo neanche più di cosa trattasse.
Mi chiese l’e-mail via messaggio privato ed io accettai. Cominciammo a discutere sull’argomento che trattammo nel server, per poi passare a cose più banali, spaziando sempre nell’ambito dei nostri interessi in giochi e intrattenimenti. Messaggio dopo messaggio, giorno dopo giorno, diventammo sempre più intimi. Iniziammo a parlare di noi stessi, ed io ne fui abbastanza felice. In seguito però, mi resi conto di quanto fossimo diversi.
Aveva la mia età, un paio di mesi più vecchio. Mi scriveva della sua vita e di quanto fosse complessa e allo stesso tempo privilegiata. Una famiglia benestante, genitori divorziati che si contendevano da anni la proprietà della celebre azienda di famiglia, due fratelli che giocavano in borsa e aspiravano alla presidenza dell’azienda. Nonostante la ricchezza sfrenata, manifestava un forte senso d’insicurezza e solitudine, sebbene cercasse di mostrare il contrario. Anzi, era abbastanza arrogante, nonostante le sue fossero solo parole scritte all’interno di messaggi di posta elettronica. Insomma, non avevo nessuna prova di quanto stesse dicendo fosse vero, mi sembrava più di far parte a qualche gioco di ruolo di pessimo gusto. A questo punto, potevo inventarmi qualche storiella fantastica su di me, come essere il figlio di qualche archeologo intrappolato in mani di briganti e seducenti streghe, ma non ero il genere di persona che mentiva. Io recitavo. E sì, ero davvero tentato a usare una storia di uno dei miei tanti personaggi… Ma non lo feci.
Finalmente riuscivo a parlare da me stesso, senza dare conto di un’esperienza che non mi apparteneva.
Per una volta potevo guardarmi allo specchio, e vedere la mia immagine riflessa. Non quella di qualcun altro. Potevo essere me stesso senza vergognarmene.
Più di una volta gli chiesi se le sue parole fossero verità, e più di una volta mi arrivò una risposta affermativa. Sinceramente, non m’importava più di chi fosse. Ormai riuscivo a sentirmi in pace con me stesso.
Gli raccontai della mia vita di ogni giorno, del teatro, di mia madre, delle melodie del piano e del basilico.
Perché per quanto fossero magri appigli, questi elementi erano parti culminanti della mia vita, principi fondamentali sui quali basavo il mio equilibrio. Ciò nonostante lui non ne sembrava annoiato, anzi, lo trovava estremamente interessante. Sembrava alla ricerca di una forma modesta di una vita normale come se fosse ossigeno. Non immaginavo davvero che qualcuno potesse considerare la mia vita così interessante al di fuori dello spazio teatrale.
 
Howaito prese sempre più spazio nella mia vita, diventando anche lui un elemento di fondamentale importanza, come le note del piano, come i copioni ammassati sulla mia scrivania, i raggi di sole che entravano dalla finestra della mia stanza e l’odore delle spezie mediterranee.
Il mio inglese con lui migliorava sempre di più, dal momento che era l’unica lingua che avevamo in comune.
Non m’importava più se quel ragazzo mi stesse mentendo o no della sua vita di ogni giorno, perché quel momento divenne il più importante di tutta la mia giornata. Spesso i suoi racconti erano tristi, deprimenti, buttati nel buio, altre volte avevano seguiti di dolce amarezza, malinconia, speranza in un futuro felice.
Sentivo che quel ragazzo provava le mie stesse emozioni di ogni giorno, per quanto diversi potevano apparire, almeno secondo le sue parole, i nostri mondi, ed io sentivo in me una forte sensazione di gratificazione al sentirlo dire dalle stesse lettere che mi scriveva.
 
Con il tempo, gli chiesi se voleva una mia foto, per dare un volto al suo compagno di discussione di ogni giorno, ma lui rifiutò. All’inizio non riuscivo a capire. Si limitò a dirmi che ormai per lui avevo un volto, e non voleva distruggere l’immagine che si era creato di me. Allora gli proposi qualche mia foto in costume teatrale, poiché ero completamente irriconoscibile quando mi trasformavo per uno spettacolo. Anche lì rifiutò.
Non riuscivo a capire, credevo di aver fatto qualcosa di sbagliato. Riversai colpa al mio essere italiano, sicuramente troppo invadente rispetto alle usanze orientali, come numerosi fumetti mi avevano insegnato sulla vita di tutti i giorni nel paese dove nasceva il Sole.
Cominciai allora a domandargli sempre di più alle sue tradizioni, cosa amava, cosa odiava, se gli piaceva qualcosa in particolare. Anche qui trovai un campo a dir poco miseramente vuoto. Non amava niente di specifico, né tantomeno odiava qualcosa su cui fosse focalizzato. Sembrava piuttosto vuoto d’interessi.
Aveva buon gusto nei videogiochi, su questo non c’erano dubbi. Evitava il troppo commerciale, preferiva i giochi di logica ai giochi dove devi massacrare il nemico con armi bianche o a fucile. Se non altro aveva metodo, anche se qualche titolo famoso gli era passato tra le mani con successo. Era molto inclinato per l’angst e quel pizzico di violenza demoniaca presente nella maggior parte dei videogiochi per tutte le console dell’epoca. Un po’ com’era nel suo stesso carattere insomma.
I mesi trascorrevano, io avevo ancora qualche problema con la scuola, ma a casa, sia con la neve, che con la pioggia o con il sole cocente, avevo sempre le delizie armoniche del piano e l’inebriante profumo di basilico fresco che appassiva ogni mio dolore e ogni mia preoccupazione. E poi c’era Lui.
Howaito ormai, per quanto la distanza non fosse neanche misurabile per me, era diventato l’altra parte di me che tenevo nascosta, che si era liberata come un’aquila ferita e tenuta in gabbia per tanto tempo, fino al momento della sua liberazione verso l’immensa vastità dei cieli azzurri.
Era il mio ossigeno, la mia boccata d’aria fresca, le mie lacrime mai perdute. Era la mia terra, il mio cielo, le mie ali, le mie gambe. Ero felice e non me ne pentivo. Non me ne sono mai pentito.
Eppure un giorno, tornando da scuola, riaprì la casella di posta elettronica e vidi una sua risposta a un vecchio messaggio. Quando lo lessi, rimasi interdetto, non sapevo come reagire.
Rilessi velocemente quella frase scritta in inglese, formata da due semplici parole. Ma non ne capivo il senso. Cioè il senso l’aveva ma, non capivo come potesse avere a che fare con me. Perché scrivere quelle due parole? Che cosa avevano a che fare con me? Come poteva sperare che io potessi realizzare una cosa simile?
Al centro della mail, in semplici caratteri neri, brillava sullo sfondo bianco una frase composta di due semplici parole, quasi impercepibili ma visibili.

 
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