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Autore: SAranel    26/10/2012    9 recensioni
Sherlock non ricorda minimamente cosa si provi a ricevere un abbraccio e di conseguenza, arriva alla conclusione che non debba essere un'esperienza tanto forte come tutti sembrano pensare. O forse, è perché non ha ancora trovato la persona giusta che glielo dimostri. Cosa succederà?
“Ci sono tanti abbracci, vero?” pronuncia quella parola con una smorfia, come se stesse parlando di qualcosa di disgustoso.
John rimane sorpreso da quella reazione.
“Beh, certo. Tanti abbracci. E baci, credo” risponde, sincero.
Sherlock tira fuori la lingua, arricciando il naso.
“Come nei film no?” John porta ad esempio, desideroso, per chissà quale motivo, che Sherlock capisse.
“Mamma cambia sempre canale quando ci sono quelle scene” Sherlock afferma, ricordando le manovre trafelate di sua madre per afferrare in tempo il telecomando.
John sorride.
“Anche la mia, ma qualcosa riesco sempre a vedere. Soprattutto quando non c’è” ammicca, complice.
Sherlock alza le spalle, facendo capire a John che è ok, che è tutto chiaro.
“Sarà” dice. “Però gli abbracci non mi piacciono. Quindi credo non lo farò”.[...]
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera adorabile e meraviglioso fandom!
Quando il pc deciderà di collaborare risponderò a tuuutte le recensioni in sospeso per l’altra storia, giuro! Siete stati gentilissimi e non ho parole per ringraziarvi, davvero!
Questa è una teen (inutile, mi sono innamorata delle AU!Teen) e spero vivamente che vi piaccia!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!

 S.


Hold me warm against your heart
*

 


Sherlock non ha bisogno di abbracci, perché semplicemente, non ricorda neppure cosa si provi, a riceverne uno.
La mamma ne era stata una gran dispensatrice, quando era più piccolo, ma varcata la soglia degli undici anni, aveva deciso che era ora che il piccolo Holmes diventasse un uomo e cominciasse a capire che non tutto può essere risolto nel calore di un abbraccio.
Con Mycroft era stato lo stesso, e Sherlock non sarebbe stato da meno, aveva deciso.
Avrebbe fatto come suo fratello maggiore e sarebbe entrato in un College prestigioso, diventando il più studioso e il più intelligente della classe. Non avrebbe certo fatto come il loro cugino Tom, il cocco di mamma, quello che non faceva altro che farsi scompigliare i capelli dalla zia Ellie, lasciandosi coccolare come una femminuccia. Sherlock non ha mai potuto sopportarlo.

Li vede a scuola, i suoi compagni e compagne che quando non sono impegnati a zampettare fuori dalle aule per scambiarsi figurine dell’Inghilterra o per contrabbandare, sottobanco, sgargianti smalti per unghie color pastello, non fanno altro che abbracciarsi. Si stringono, forte, fortissimo come se fossero stati separati per dieci anni invece che appena dalla mattina precedente. Sherlock li vede ogni giorno, e scuote la testa. Poveri illusi. Non andranno mai a Oxford, loro. Probabilmente vivranno con i loro genitori fino ai quarant’anni e si faranno portare le uova e i toast a letto, come fanno adesso.

Non smetterà mai di stupirsi che i genitori lascino loro fare certe cose liberamente, senza preoccuparsi neanche un po’. Comunque, non è certo un suo problema, in fondo. Meno concorrenza per lui, in futuro, anche se sa già, tutti gliel’hanno detto almeno una volta, lui non è affatto come tutti gli altri. Lui è diverso, speciale, strano, soprattutto quest’ultimo termine. Non avrebbe concorrenza in qualunque caso.
Mentre mangiucchia la sua merenda, seduto come sempre da solo al tavolo all’angolo della mensa, Sherlock ripensa all’ultima volta che qualcuno lo ha stretto a sé. Non ricorda bene se fosse stata sua nonna o addirittura suo fratello, in un momento di lucida follia. Non ricorda cosa avesse provato allora e si convince che, in fondo, non doveva essere stata un’esperienza poi tanto forte. Sherlock non ne ha bisogno. Sherlock è superiore a tutto questo.
Anche sulla strada di casa, tutti sembrano morire dalla voglia di abbracciarsi, stringersi e baciarsi come in una soap opera romantica del tipo tanto adorato da Mrs. Hooper, la governante. Seduto sulla panchina all’uscita della scuola, c’è un signore sui quarant’anni che abbraccia forte una bambina bionda con due codini che le scivolano graziosamente sulle spalle. Lei ride, lo abbraccia a sua volta e si crogiola nel calore di quella stretta.
Sherlock scuote la testa, girando i tacchi e passando loro davanti senza degnarli di uno sguardo. La vita è dura ripete sempre sua madre, e Sherlock sa che è vero, perché l’ha detto sua madre, e quello che dice lei è sempre vero. Quella bambina non lo sa, ma Sherlock si sente un po’ in pena, per lei. Dopotutto la sua unica colpa era non avere la Signora Holmes, come mamma.
Immagina di parlarne con lei, arrivato a casa, ma improvvisamente un pensiero tremendo lo costringe a fermarsi, turbato.
Pensa a cosa succederebbe se sua madre decidesse di dare lezioni di vita a tutti i bambini di Londra. Immagina sconosciuti maneggiare il suo microscopio, i suoi libri e le costruzioni di legno del nonno. Riesce a vedere ragazzini tremendi come Billy Stanford entrare in camera sua e gettare tutto all’aria, e un brivido di paura lo scuote da capo a piedi. Meglio rimanere zitto, pensa. Meglio tenere i consigli della mamma solo per sé.
Sul lungo viale di tigli, i piedi di Sherlock calpestano il tappeto naturale di foglie e rametti, provocando un lieve e monotono crac crac che ha sempre un effetto rilassante, su di lui. Chiude gli occhi e sorride tra sé e sé, cullato da quel rumore familiare, quando una risatina lontana attira la sua attenzione. Riapre gli occhi e rimpiange di averlo fatto nemmeno tre secondi più tardi.
Eccoli là, il signore e la signora Trevor. Lui è un rappresentante di una casa farmaceutica e lei è una casalinga e hanno due bambini piccoli che sono le pesti conclamate del quartiere. Lui rimane via di casa quasi quattro giorni a settimana, a causa del suo lavoro, e in quel momento, Sherlock osserva l’uomo assaltato in ogni dove dai due bambini e da sua moglie, che lo abbracciano, baciano e stringono come se non fossero minimamente ancora abituati alla sua lontananza, nonostante facesse lo stesso lavoro più o meno da sette anni.
Sherlock allunga il passo, sbuffando e tirando su la cartella sulle spalle.
Più avanti, non va molto meglio. Ci sono i ragazzi Potter appena rientrati dal college, incollati alla loro madre, e i due mielosi piccioncini Mary e Greg, che dal giorno in cui lui aveva dichiarato pubblicamente –lo aveva sentito tutto il quartiere quello strazio infernale- il suo amore, sembrava vivere in simbiosi con le labbra e le braccia di lei, come se ne fosse dipendente. Sherlock si domanda cosa succederebbe se andasse lì vicino a staccarcelo con la forza. Forse si affloscerebbe al suolo o volerebbe via a razzo, come quando si stacca la bombola d’elio da un palloncino non ancora ben legato.
Decide non avere poi tanta curiosità di saperlo, in fondo.
Arrivato quasi sul vialetto di casa, fortunatamente senza incrociare ulteriori scene di idilliaco affetto, Sherlock incrocia per caso un grosso camion bianco, che parcheggia proprio nella villetta accanto alla loro, fermandosi con un brusco bum.
Gli giunge inaspettata la notizia di nuovi inquilini nella villa accanto, ed è leggermente irritato al pensiero che sua madre non lo avesse avvisato: adesso avrebbe dovuto passare la serata a inventare una lista di scuse convincenti per evitare di essere preso a far parte del comitato di benvenuto per i nuovi vicini.
Prega che non ci siano altri bambini, ancora peggio se coetanei. Quelli hanno la brutta abitudine di voler giocare tutto il santo giorno, sprecando tempo prezioso utilizzabile molto più proficuamente. Per non parlare della loro mania di abbracciare. E sarebbe stata la fine, se il marmocchio di casa si fosse rivelato una ragazzina. Le ragazzine erano le più terribili e lui sembrava attirarne a sciami, come una specie di orsacchiotto inzuppato di miele dentro un alveare.
Quando entra in casa, né suo padre né sua madre passano a dargli il bentornato: in verità, non sembra nemmeno che siano in casa. Mycroft è certamente chiuso in camera sua, a studiare, da bravo ragazzo qual è. Una lieve melodia proviene dal piano di sopra, probabilmente da camera sua. Schubert. Lui lo adora. Lo aiuta a pensare.
“Bentornato, piccolino” Mrs. Hooper lo saluta sbucando dalla soglia della cucina, sistemandosi il grembiule. Ha i capelli castani raccolti in una crocchia quel pomeriggio e sembra allegra, più del solito.
“Ciao Molly” Sherlock la saluta, con un cenno del capo. “I miei genitori non ci sono?” domanda, anche se già conosce la risposta.
“No” risponde lei, e il suo viso diventa improvvisamente più triste, come se l’assenza dei suoi padroni la demoralizzi in qualche modo. “Sono partiti per il Surrey, oggi pomeriggio. Tuo padre è stato chiamato urgentemente e tua madre è voluta andare con lui”.
Sherlock annuisce, comprensivo. Succede sempre. Sua madre è fatta così, quando si parla del lavoro di suo marito. Ormai è abituato.
“Mi dispiace che non abbia potuto dirti ciao, piccolo. Mi ha detto di darti i suoi saluti, quando saresti tornato”.
Molly l’ha chiamato di nuovo ‘piccolo’. Sherlock non lo sopporta e forse un giorno glielo dirà. A dirla tutta, non sa nemmeno lui perché non gliel’abbia ancora detto.
“Non preoccuparti. Non fa niente. Dopotutto, torneranno presto” Sherlock chiude lì, diplomatico. Una vocina remota nella sua testa gli dice che dovrebbe prendersela, che dovrebbe pestare i piedi e mettersi a piagnucolare per il disinteressamento dei suoi genitori, così come farebbe qualunque dei suoi deboli compagni di scuola. Sherlock però conosce la verità. Gliel’hanno detto, tante volte. Gliel’hanno detto perché Sherlock è un bambino intelligente, diligente e serio e può comprendere che il cavarsela da soli potrà servire, da grandi. Lui doveva impararlo da adesso, per essere pronto. I ragazzini in gamba come lui sono privilegiati, mamma lo dice sempre. E quello che dice mamma…

Molly sorride appena e si avvicina a Sherlock, allungando le braccia verso di lui come ha già tentato di fare altre volte. Sherlock sa benissimo cosa vuole fare. Lei non è da meno rispetto a tutti gli altri, dopotutto. Si scansa, velocemente, e non gli importa se lei si accorgerà di quella deliberata fuga. Dovrebbe conoscerlo ormai, lo ha cresciuto anche lei, in fondo.
Il sorriso di Molly scompare dal suo viso lentamente, e Sherlock può vedere la delusione dipingerle il volto, prendendo prepotentemente il posto della velata allegria di poco prima. Lei distoglie lo sguardo da quello di Sherlock e scrolla le spalle, cercando di mascherare il suo stato d’animo.
“Bene” dice, sforzandosi di mantenere un tono equilibrato. “Se…se hai fame, il pranzo è quasi pronto”.
Sherlock scuote la testa, indifferente.
“Credo che rimarrò di sopra, devo finire un libro. Chiamo Mycroft, comunque”.
“Devi mangiare, Sherlock”.
“Mangerò stasera” il suo tono è categorico, serio. Non sembra un bambino di dieci anni quando fa così, ma in fondo, Sherlock non è mai sembrato davvero un bambino.
Molly fa per replicare, ma le parole le muoiono sulle labbra. Si limita ad annuire, il viso incupito, le spalle basse.
“Va bene Sherlock. A stasera. Se cambi idea, sono qui”.
Sherlock non risponde e sale di sopra, salendo le scale a due a due incurante del preoccupante cling delle assi di legno sotto le sue falcate troppo energiche.
Bussa alla porta di Mycroft, un paio di volte.
“Myc, il pranzo è pronto!” annuncia, attendendo la risposta del fratello. Schubert cessa, e un rumore di suole rigide sul parquet si avvicina alla porta, gradualmente.
“Dirò a Molly che ho da studiare, non scendo” la voce di Mycroft è ovattata, da dietro la porta.
“Vuoi che glielo dica io?” Sherlock chiede, con una gentilezza che riserva solo a suo fratello.
“No tranquillo. Rischieresti di beccarti un abbraccio” lo canzona, ridacchiando.
Sherlock non risponde ulteriormente e bussa con forza alla porta, per far capire a suo fratello che il messaggio è stato ricevuto. Non vuole approfondire ulteriormente un argomento già troppe volte affrontato quella mattina.
Una sensazione di enorme sollievo e soddisfazione lo pervade nel momento esatto in cui chiude la porta della sua stanza dietro di sé, come succede ogni giorno.
E’ il suo regno, il suo spazio perfetto, la sua coperta di Linus come adora dire Molly. Si sente se stesso in quella camera come in nessun altro posto dove sia mai stato. Si chiede spesso se sarà così anche in futuro; si domanda se quando sarà più grande e andrà a vivere per conto suo riuscirà ad amare un luogo allo stesso modo in cui adora quella stanza. Un appartamentino, magari. Sherlock si è sempre visto in un piccolo appartamento del tutto simile alla sua attuale stanza, caotico ma familiare, pieno di libri, fogli, roba sparsa un po’ ovunque secondo il suo caos controllato. Sherlock spera di realizzare quel sogno, un giorno, ma dopotutto, lui è speciale. Non ha bisogno di sperare: ci riuscirà.

Si sporge alla finestra che affaccia sul cortile, proprio di fronte ad una delle stanze singole della casa accanto. Sposta leggermente le tendine, curioso, cercando di intravedere attraverso i vetri qualcuno dei visi nuovi che si sarebbe dovuto abituare a incrociare ogni giorno.
Inaspettatamente, non deve aspettare molto per vedere realizzata la sua curiosità: nemmeno dieci secondi più tardi il vetro si apre, riflettendo la luce del debole sole e rivelando la figura minuta di un ragazzino, forse sui tredici anni, con un viso gentile e corti capelli biondi.
Lo straniero lo individua immediatamente, nonostante Sherlock non avesse tardato a nascondersi di più dietro la tendina, temendo di risultare indiscreto.
“Ehi, ciao!” il ragazzo di fronte esclama, sorridendo. “Sei il figlio dei vicini?” domanda.
Sherlock sbuffa, gettando gli occhi al cielo, spazientito. Che razza di domanda è, quella?
E’ ovvio, no?
“Sì. Benvenuto” si costringe a dire, a denti stretti. Sua madre non avrebbe tollerato che il suo figlio minore sembrasse maleducato ai nuovi arrivati. “Come…come ti chiami?” aggiunge, e la domanda gli sorge sulle labbra senza che il suo cervello avesse mandato alcun impulso.
L’altro sorride, ancora.
“Io sono John” risponde. “E tu?”.
“Io sono Sherlock” Sherlock risponde, sbucando leggermente fuori dal suo rifugio. “Ho undici anni” Anche quella volta, l’esclamazione sorge spontanea. Si morde la lingua, arrabbiato con se stesso.
“Io tredici” risponde l’altro affacciandosi di più, come se non riuscisse a vedere bene Sherlock. “Hai un nome simpatico, sai?”.
Sherlock non sa esattamente cosa dire. Suppone sia un complimento comunque, ed è proprio per questo che rimane interdetto. Se gli avesse detto che era un nome brutto, strano, orrendo, come aveva sempre fatto la maggior parte della gente, avrebbe avuto certamente la risposta pronta.
“G-grazie” risponde alla fine, sentendosi decisamente stupido.
John sembra soddisfatto della risposta.
“Hai altri fratelli? Io ho una sorella, Harry. E’ più grande”.
Dannazione. Una donna. L’unica cosa che lo rincuora è che abbia più di tredici anni. Le sue mire non si sarebbero certamente rivolte a lui, per fortuna.

Si chiede se sia il caso di avvisare Mycroft, ma respinge l’idea. Non crede di averlo mai visto con una ragazza, da quando si ricorda.
Sherlock annuisce comunque, ma non è sicuro che John possa vederlo. Si schiarisce la voce.
“Sì, ne ho uno. Più grande anche per me”.
John si sporge ancora, ma sempre facendo attenzione a rimanere con i piedi ben saldi per terra. Sherlock immagina non sia tanto alto, anche se non può vederlo completamente ed è chino sul davanzale.
“Sono contento di aver conosciuto qualcuno, sai?” John lo coglie di sorpresa. “Ci spostiamo spesso, per via di papà. Adesso però mi ha promesso che rimarremo qui per sempre” guarda nel vuoto per un secondo e Sherlock capisce che si sta probabilmente perdendo in sciocche fantasticherie. “Non ho mai avuto il tempo di fare davvero amicizia con qualcuno”.
Sherlock si blocca, guardando il ragazzino dall’altro lato del vialetto a bocca aperta, sconvolto dalla troppa istantanea confidenza che lui non gli aveva affatto concesso. Chi aveva mai parlato di amici, in fondo? Sherlock non ne ammette anche solo il concetto. Sherlock sa bene cos’è un amico. Qualcuno su cui fare affidamento, qualcuno su cui riporre la tua fiducia, una persona vicina che è sempre con te nel momento del bisogno. Sherlock non sopporterebbe di doversi accollare i bisogni, le grane e i problemi di un altro essere umano. 'Chi fa da sé fa per tre' dice sempre la mamma ed è un’assoluta e sacrosanta verità.
Sherlock non da fiducia, non l’ha mai davvero data a nessuno, a ben pensarci e sta bene così. La gente mente, cambia, e non importa che tu sia un ragazzino o un adulto. La solitudine è quello che ha ed è l’unica cosa che potrà sempre proteggerlo.

“Tu non sei mio amico” Sherlock sbotta, indispettito, preso in contropiede dalla situazione. “E cosa ti fa credere che vorrei che tu lo diventassi?”.

L’espressione di John gli ricorda vividamente quella di Molly pochi minuti prima. Non è arrabbiato, infastidito o colmo di qualunque altro sentimento Sherlock pensa si debba provare in una situazione del genere. E’ solo delusione, pura e semplice.
“Oh, io… mi dispiace” dice l’altro, a capo chino, guardandosi le mani. “Scusa se ti ho disturbato, allora”.
“Non mi hai disturbato. Non ho detto questo” Sherlock ribatte, ma una strana morsa allo stomaco, qualcosa che raramente ha provato in tutta la sua vita, lo costringe a non andar via.
“Lo so, ma è come se l’avessi detto. Io…” il biondino guarda dietro di sé, oltre le tendine colorate, come se cercasse una scusa per rientrare. “No, nulla. Lascia stare. E’ colpa mia. Va tutto bene. Ciao, comunque”.
“Aspetta…” Sherlock non sa esattamente perché gli abbia chiesto di non andare, quando tutto ciò che in realtà desidera è chiudere quella finestra e rientrare nella sua stanza a finire quel dannato libro che lo aspetta sul comodino, mettendo fine a quella faccenda.
“Tutto ok, ho detto” John si sforza di sorridere, ma non è molto convincente. “Devo rientrare. Ci si vede in giro” la voce va via via scemando mentre il ragazzino scivola via dalla visuale di Sherlock, sparendo dietro le tendine mosse dalla brezza.

Quando anche Sherlock chiude i vetri delle ante, tirando verso di sé anche la persiana verde giusto per essere sicuro di non trovarsi costretto a intavolare una nuova conversazione, sente qualcosa di strano, dentro di sé.
Quel ragazzino, John, non era stato certo il primo a provare ad attaccare bottone con lui e non l’avrebbe certo avuta vinta. Sarebbe finita come con tutti gli altri. Sherlock non ha bisogno di loro e sa che non ne avrà mai. Respinge qualunque strana sensazione stesse prendendo piede dentro di lui e si rannicchia sul suo letto, aprendo il suo libro e lasciandosi trasportare in un altro mondo: un universo senza scuola e compagni infernali, senza nuovi vicini impiccioni e soprattutto, senza baci e senza abbracci.

Per quanto si sforzi, però, non riesce a isolare completamente la mente dalle parole di John.

Pensa a lui tutto il pomeriggio, e durante la cena e prima di andare a dormire.
E anche durante il sonno, che non dura più di due ore, il viso rassicurante di John fa capolino nei suoi sogni, senza che Sherlock possa fare nulla per spingerlo via.

 

 

§



Mentre Sherlock si agita tra le coperte, cercando in tutti i modi di evitare che il suo cervello riportasse alla mente la stessa scena in loop come una specie di pellicola inceppata, qualcosa finalmente lo distrae dalle sue peregrinazioni mentali.

E’ solo un lieve toc toc toc, come di nocche che battono contro una porta, ma leggermente diverso, intervallato, come se la mano del misterioso avventore non potesse garantire una continuità a quel bussare. E soprattutto, cosa decisamente strana, il rumore non proviene affatto dalla porta, bensì da qualcosa vicino alla finestra.
Sherlock si alza immediatamente, senza nemmeno infilare le pantofole e rabbrividendo in un primo momento al contatto con il pavimento freddo, e riflette sul da farsi, combattuto. Non ci sono alberi nel vialetto su cui la sua stanza affaccia, e quindi non è possibile che sia un ramo a provocare quel suono. L’unico modo di scoprirne la fonte, è uno solo: aprire i vetri della finestra.
Sherlock cammina piano, non vuole rischiare di svegliare suo fratello che dorme profondamente nella stanza accanto e nemmeno Molly e suo marito, che al minimo rumore piomberebbero di sopra per assicurarsi che Sherlock fosse tutto intero e non piallato contro la parete dopo uno dei suoi strani esperimenti da piccolo chimico. Arrivato alla finestra, gira piano la maniglia di metallo ottonato, senza farla cigolare, e fa lo stesso con le persiane di legno, aprendole con lentezza.
Per fortuna, grazie ad una fortuita prontezza di riflessi, riesce a tapparsi la bocca con una mano appena in tempo quando scorge la sagoma di un ragazzino biondo aggrappato all’abbaino come una buffa scimmia allo zoo.

John.
“Ciao” il ragazzino gli sorride, con la buona creanza di parlare a voce bassissima. “Mi fai entrare? Ti devo parlare”.
Sherlock è troppo sconvolto per dire qualunque cosa, figurarsi per scuotere la testa o per dirgli di andar via di corsa dalla sua stanza, quindi si limita a fissarlo, senza nemmeno sbattere le palpebre e John sembra interpretarlo come un ‘sì certo, entra pure’.

Sherlock si rende conto, appena il piede scalzo e sporco di terra di John si posa sull’elegante parquet, che quello è il primo ragazzino in assoluto che avesse mai messo piede nella sua stanza, da quando è nato.

“Scusa l’improvvisata, Sherlock” John sorride, imbarazzato. La lampada sul comodino gli illumina il viso e Sherlock può studiarlo più da vicino. E’ sudato, e leggermente arrossato: forse per l’imbarazzo o per lo sforzo dell’arrampicata.
“Che ci fai qui?” Sherlock sussurra, riacquistando l’uso delle corde vocali.
“Non ho fatto altro che pensare a quello che ci siamo detti oggi” John spiega, e arrossisce ancora di più. Adesso il suo viso sembra una bislacca zucca di Halloween illuminata. “Lo so che è sciocco. Lo so che abbiamo parlato solo cinque minuti, ma… ma volevo dirti che mi dispiace di essere stato troppo diretto” dice, tutto d’un fiato. Sherlock capisce che ci ha pensato davvero tutto il giorno.
“Diretto?” il ragazzo dai capelli neri ripete, guardando John con il viso inclinato, come se lo stesse studiando.
“Sì. Di averti fatto sentire sotto pressione. Con la questione degli amici” John spiega, rimanendo in piedi vicino alla finestra. “Io… io non so esattamente come fare amicizia, e forse sono stato un po’…brusco”.

Sherlock guarda John a lungo, cercando di capire se stesse dicendo sul serio o se avesse deciso di impiegare una notte insonne a prenderlo in giro per poi farsi quattro risate con sua sorella o con chissà chi. A guardarlo però, Sherlock non riesce a intravedere nulla di sospetto negli occhi del biondino.
“Va bene” Sherlock sente la propria voce dire. “Va bene. Stai tranquillo”.
Sherlock non si è mai sentito a quel modo in tutta la sua vita, improvvisamente incapace di negare qualcosa a un perfetto chiunque conosciuto appena cinque ore prima.
John sembra comunque non accorgersi delle paturnie interiori del ragazzino più alto, e sospira all’affermazione di Sherlock, come se si fosse improvvisamente tolto un peso gigantesco dal cuore.
“Grazie mille. Sei gentile” il biondino gli dice, appoggiandosi di più al davanzale. Guarda fuori con una smorfia, verso la sua finestra, come se il solo pensiero di ritornarci lo mettesse a disagio. Ovviamente, Sherlock se ne accorge.
“Di niente” Sherlock risponde. Succede di nuovo. Di niente? Quante volte aveva formulato quella frase in tutta la sua vita?
“Vuoi rimanere?” gli domanda ancora, senza esitazione. No. Decisamente c’è qualcosa che non va, qualcosa di assolutamente e totalmente fuori posto. Sherlock si domanda se John non sia un qualche ipnotista/mago/manipolatore della mente. E’ un’idiozia, e lo sa bene, ma è l’unica spiegazione plausibile, o almeno, l’unica che riesce a trovare un passaggio nel suo pensiero semi-razionale, al momento.
John sembra felicissimo della proposta. Annuisce e sistema la coperta del letto di Sherlock, sedendosi a gambe incrociate ai piedi di esso, appoggiato con la schiena all’asse di legno.
“Ti ringrazio tantissimo” John gli dice, con un sorriso a trentadue denti, come se Sherlock gli avesse appena regalato uno scrigno pieno d’oro invece che chiedergli, semplicemente, di rimanere nella sua stanza. Sherlock annuisce e va a sedersi di fronte a John, appoggiato alla testiera.
“Non ti piace camera tua?” Sherlock domanda, mordendosi un labbro. Forse è troppo inopportuno da chiedere, ma ormai è fatta.
John ridacchia, facendo attenzione a non alzare la voce.
“Oh no. E’ per mia sorella. Ha portato a casa un’amica, stasera” il biondo storce il naso, scrollando le spalle. “La stanza di mamma e papà è insonorizzata, ma la mia no. E sento tutto. E’ imbarazzante, la mattina dopo”.

Sherlock lo fissa ma non capisce a cosa si riferisca. E questo gli da enormemente fastidio. Si sente leggermente frustrato dal non sapere, e decide di chiedere adesso che ormai il danno era fatto.
“Perché è imbarazzante? Che succede?” chiede, ma lo sguardo che John gli rivolge lo fa pentire della sua curiosità. Il ragazzino di fronte a lui ridacchia.
“Non lo sai?” gli chiede, sconvolto. “Io a undici anni lo sapevo. Insomma…è come tra ragazza e ragazzo. Quelle cose, sai.”
Sherlock avvampa, quando comprende a quale genere di cose sta facendo riferimento John, parlando di sua sorella. Il cervello di Sherlock elabora dati e domande furiosamente, tanto che se rimanessero il silenzio per dieci secondi riuscirebbero a sentire un rumore di ingranaggi proveniente dalla sua testa. Non può fare a meno di sentirsi terribilmente in imbarazzo per aver fatto la figura del bimbetto, davanti ad uno più grande. Lui è Sherlock Holmes, diamine!
“Oh, quelle cose” Sherlock afferma, con tono di voce da uomo vissuto. Tanto vale rimediare al danno fingendo indifferenza. “Io non sapevo… non sapevo si potessero fare, tra ragazza e ragazza”.
John ride e scrolla le spalle. Si vede benissimo, dai suoi occhi, che in passato si era fatto la stessa domanda più e più volte.
“Non ho idea di come facciano, ma sembra che funzioni, qualunque cosa debba funzionare. Insomma, non che io stia ad ascoltare ma lei non va mai da un'altra parte. Sempre nella sua stanza, che è sempre accanto alla mia. Anche nelle vecchie case”.
Sherlock pensa alla logistica e alla praticità della cosa, perdendosi tra le nuvole per due minuti buoni. Alla fine decide di lasciar perdere, imbarazzato.
“Non starai pensando a mia sorella e alla sua ragazza, vero? E’ già abbastanza agghiacciante che ci pensi io” John sembra avere un brivido alla sola immagine.
Sherlock scuote la testa energicamente, come a voler sottolineare che no, non ci sta affatto pensando, almeno dal momento in cui John gli ha fatto pesare il fatto che ci stesse pensando.
“No no no” Sherlock dice, in fretta. “Stavo pensando che io non farò mai quelle cose con mio fratello vicino. Anzi, credo di non avere alcuna voglia di farle affatto, effettivamente”.

John si sistema meglio sulla sua porzione di materasso e si afferra le caviglie con le mani, dondolando su e giù contro il suo appoggio. Inarca un sopracciglio e torna a guardare Sherlock, con espressione curiosa.
“Io un po’ curioso lo sono” ammette, ma non riesce a mantenere lo sguardo di Sherlock, dopo. “Insomma, sono uno che prova le cose prima di dire che non gli piacciono”.
Il ragionamento non è poi tanto sbagliato. Sherlock tossicchia.
“Ci sono tanti abbracci, vero?” pronuncia quella parola con una smorfia, come se stesse parlando di qualcosa di disgustoso.
John rimane sorpreso da quella reazione.
“Beh, certo. Tanti abbracci. E baci, credo” risponde, sincero.
Sherlock tira fuori la lingua, arricciando il naso.
“Come nei film no?” John porta ad esempio, desideroso, per chissà quale motivo, che Sherlock capisse.
“Mamma cambia sempre canale quando ci sono quelle scene” Sherlock afferma, ricordando le manovre trafelate di sua madre per afferrare in tempo il telecomando.
John sorride.
“Anche la mia, ma qualcosa riesco sempre a vedere. Soprattutto quando non c’è” ammicca, complice.
Sherlock alza le spalle, facendo capire a John che è ok, che è tutto chiaro.
“Sarà” dice. “Però gli abbracci non mi piacciono. Quindi credo non lo farò”.
John lo guarda come se avesse appena visto passare un fantasma, con tanto di lenzuolo bianco svolazzante e catene tintinnanti ai piedi.
“Non ti piacciono gli abbracci?” ripete le parole di Sherlock, come fossero di una lingua sconosciuta. “Pensavo fossi particolare, ma non fino a questo punto”.
Particolare. Sherlock pensa a tutti gli aggettivi usati da una moltitudine di persone per definirlo, ma non riesce a trovare, nonostante ne ricordi a bizzeffe, qualcosa di così delicato come particolare.
“Dillo che sono strano” Sherlock lo invita. Lui è pronto, non gli da fastidio. Lo supererà come ha già superato tante cose.

“Non sei strano” l’altro dice, e Sherlock sbarra gli occhi, sorpreso. “Solo che sei il primo che conosco a cui non piaccia essere abbracciato”.

“Conoscerai tanta gente noiosa”.
“O tanta gente normale”.

“Vedila come vuoi”.

Rimangono in silenzio, un silenzio imbarazzato che nessuno dei due sa come colmare.

John però sembra volenteroso di riportare a galla l’argomento, come se ci tenesse particolarmente.
“E’ bello abbracciare qualcuno” John infine esclama, e Sherlock vede che non è riuscito visibilmente a trattenersi. “E’…caldo” aggiunge ma non sembra del tutto sicuro della semplicità della definizione.
Sherlock inarca un sopracciglio.
“Caldo?” ripete, non troppo convinto.
John annuisce.
“Sì. Caldo. E…familiare” aggiunge, gesticolando in modo buffo.

“Come dormire sotto una coperta?”.
Lo sguardo di John s’illumina.
“Sì una cosa del genere…ma di più” aggiunge.“Ti da una sensazione che non si può descrivere a parole”.

Sherlock tossicchia, combattendo con se stesso per imporsi di non dire quello che sta per dire. Non ci riesce, è più forte di lui.

“Non esiste” dice.
John non comprende.
“Cosa?”.
“Qualcosa impossibile da descrivere a parole”.

John scuote la testa, sicuro di sé. Esiste, lo sa. Lo sa perfettamente ed è suo dovere far si che Sherlock lo capisca.
“Invece sì, certo che esiste. Come…come l’amore. O l’affetto. O un abbraccio” spiega.
Sherlock scuote la testa cambiando posizione e inginocchiandosi con le spalle al muro, sedendosi sui talloni.
“Solo il nulla non può essere descritto a parole” Sherlock dice la sua, sempre. “E se tu dici così, significa che un abbraccio è il nulla”.

John sbuffa, sicuramente spazientito dalla testardaggine di quel ragazzino.
“Da quanto tempo nessuno lo fa con te?”.
Sherlock ci pensa su un attimo, anche se sa perfettamente di non averne bisogno.
“Non lo so”.
“Non lo sai?” John è sempre più sconvolto. “Mio Dio, dove sono capitato?” ridacchia, scherzoso.
Sherlock non può fare a meno di sentirsi mancante, anche se sa perfettamente che non deve, che non sta bene, che qualunque cosa dica quel ragazzo non servirà a buttare all’aria gli insegnamenti di sua madre.
“Mia madre dice che ricevere una rigida disciplina da ragazzini ci temprerà da uomini” dice, a sua discolpa, come se quel ragionamento potesse servire a convincere John delle regole in casa Holmes. John, se possibile, lo guarda dieci volte più sbigottito.
“Che razza di principio è, questo?” risponde, sincero, anche se sembra pentirsene dieci secondi dopo. Forse è stato troppo brusco, forse l’ha offeso. Il biondo spera fortemente di no.
Sherlock, per fortuna, non dice nulla.
“Qui funziona così”.
“Beh, non funziona granché bene, mi pare”.
Sherlock non sa se sentirsi offeso da quella frase. Alza le difese in ogni caso, pronto a colpire, pronto per ogni evenienza.
“Non è molto carino, da dire”.
“Oh, ma lo faccio per temprare il tuo spirito” John lo prende in giro, sorridendo per fargli capire che non vuole realmente offenderlo.
Sherlock alza le mani, e suo malgrado, non può respingere il bocciolo di un sorriso sulle sue labbra. Lo ha battuto, in un certo senso.
“Incasso il colpo, John”.
“Molto sportivo da parte tua”.

“Già. Lo so.”

John si tormenta le mani, nervosamente, schioccando le nocche e mangiucchiandosi le unghie. Ha una domanda inespressa sulle labbra, che preme per essere liberata. Lo fa, pochi instanti dopo.
“Adesso hai cambiato idea, Sherlock?”.

Il ragazzo più piccolo lo osserva, confuso, cercando di leggere il significato di quella domanda negli occhi blu di John.
“Idea?”.
“Sugli amici, Sherlock”.
Sherlock ci pensa, non è sicuro. Non sa neppure cosa significhi, in fondo. Sa della fiducia, e di tutta la manfrina di poco prima, ma non ha esperienza per poter realmente giudicare. Pensa se sarebbe poi così orribile provare, tentare. Guardando John, il suo sorriso gentile e i suoi modi garbati, decide che non può essere poi tanto male.
“Credo di sì”.
John sorride. E’ felice, glielo si legge nel brillio nei suoi begli occhi. Sherlock non ha mai visto occhi così. Dovrà chiedergli di che colore sono esattamente, un giorno.
“Sono contento” John risponde. “Tu mi piaci, molto”.
Silenzio. Un nuovo silenzio scende nell’atmosfera della stanza, ma non è affatto pesante e pregno di disagio come quello di poco prima. Qualcosa è cambiato, radicalmente, anche se nessuno dei due può ancora realmente rendersene conto. E’ il primo vero complimento che qualcuno gli abbia mai rivolto.
“Vuoi che ti abbracci, Sherlock?”.

La domanda inaspettata quasi rischia di far cadere rovinosamente il ragazzo sul pavimento, a gambe all’aria; per fortuna, riesce a reggersi giusto in tempo alla testiera di legno, portandosi via un pomello.
“Che hai detto?”.
John è visibilmente imbarazzato, ma ormai sa di non potersi più tirare indietro.
“Ti ho chiesto se vuoi che ti abbracci. Per provare” bisbiglia.
Sherlock non sa cosa dire, e sinceramente ha paura. Non vuole dire di no, ma allo stesso tempo, è spaventato da un possibile sì. Lui non può, non deve, non ha alcun diritto di andare contro i principi di Casa Holmes.
“E’ quello che serve per diventare amici?” chiede Sherlock, non riuscendo a placare il rossore che sta colorando le sue guance a poco a poco.
John scuote la testa, energicamente, come se fosse dispiaciuto di avergli dato un’impressione sbagliata.
“No, no, affatto” John si appresta a dire. “Era solo per...beh, per farti vedere. Ma non fa niente se non vuoi”.
Sherlock annuisce, ma non lo guarda.
“Non mi parlerai più se ti dico di no?” Sherlock domanda, preparandosi già a una possibile risposta affermativa. Dopotutto, gli eventi di quella sera si erano rivelati talmente strani e a lui così sconosciuti da lasciarlo preparato a ogni possibilità.
John sembra quasi interdetto dalla domanda.
“Ovvio che no. Certo che ti parlerò ancora” risponde, come se la domanda di Sherlock fosse stata la più sciocca che gli avessero mai posto. “Va bene. Tutto a meraviglia” gli sorride, allegro.
Sherlock sorride anch’egli, di nuovo ed è un nuovo record anche quello. Due volte in una sola notte, davanti ad una persona che conosceva da meno di un giorno, oltretutto. Forse sta sognando. Non può saperlo.
“Bene”.
“Bene” ripete John, suggellando quel patto silenzioso. “Però adesso devo tornare in camera mia. Penso che Harry abbia finito, finalmente” ridacchia, guardandolo con aria complice. Sherlock annuisce, e in fondo al cuore è dispiaciuto che debba andar via. Si alza dal letto e lo accompagna alla finestra, spalancando le imposte per facilitargli il passaggio. John scavalca abilmente il davanzale, e con un’agilità che Sherlock non si sarebbe mai aspettato, si aggrappa al tubo di ferro, lanciandogli un’altra occhiata prima di scivolare giù.
“Sei un bel tipo, Sherlock Holmes” gli dice, a bassa voce. “E quella di stasera è la conversazione più strana e piacevole che io abbia mai avuto con qualcuno della mia età”.
Sherlock sorride, è la terza volta ed è un evento che dovrebbe segnare sul calendario, ma per qualche motivo non ci fa neppure più caso. Sembra che sia naturale sorridere in compagnia di John. E’ un po’ come portare i pattini alla pista ghiacciata, la domenica. Per stare in compagnia di John è necessario il sorriso più bello.
“Anche per me” è una piccola ma innocente bugia. Era stata la più bella conversazione che avesse mai avuto con un coetaneo, certo, ma anche la prima vera conversazione che avesse mai avuto con uno di essi.
“Ci vediamo domani?” domanda poi a John, inaspettatamente. Questa volta non è una frase di circostanza. Vuole saperlo davvero.
John annuisce, categorico.
“Certo che sì. E anche dopodomani. E il giorno dopo ancora” bisbiglia, scivolando giù sul prato senza staccare gli occhi dal ragazzo alla finestra.
Sherlock ci crede. Qualcosa dice a Sherlock sa che John non mente. E che non lo farà mai.

 

 

§

 

E non lo fece mai, né all’indomani, né al giorno successivo e nemmeno quello dopo ancora.
John non lo lasciò, da quel giorno. Da quella notte, seduto sul letto di Sherlock, John non lo abbandonò mai più.
Molly fu la più felice del cambiamento radicale del suo adorato bambino, molto più dei Signori Holmes comunque, che vedevano nel nuovo piccolo vicino di casa una possibile distrazione per Sherlock da cose molto più importanti. Li aiutò a vedersi anche durante le sorvegliatissime serate studio, anche solo per dieci minuti –l’importante era incontrarsi- e un giorno aiutò addirittura Sherlock a scappar via dalla sua camera, coprendolo con i suoi genitori, per tutta un’intera notte.
Era stata meravigliosa, quella notte, per entrambi.
Sherlock aveva portato John al suo primo concerto per archi e pianoforte alla Royal Albert Hall e John ne era rimasto sinceramente entusiasta, più di quanto Sherlock si sarebbe mai aspettato, felice come soltanto in compagnia del suo migliore amico riusciva ad essere. Sherlock si era sentito vicino a toccare il cielo con un dito, quella sera. Era stata una sensazione intensa, sconosciuta eppure familiare allo stesso tempo, come se in tutti quegli anni l’avesse tenuta nascosta ma comunque dentro di sé, lasciando che facesse capolino fuori di tanto in tanto, per poi scappar via un secondo dopo.
Avevano vagato per Londra quasi tutta la notte, sedendosi davanti al fiume ghiacciato e sgranocchiando fish and chips comprate a un chioschetto a Covent Garden guardando i riflessi delle luci notturne sulla superficie gelida dell’acqua. Verso notte inoltrata poi, erano crollati su una vecchia panchina a Oxford Street e John aveva avuto il privilegio di godere della spettacolare capacità di deduzione di Sherlock applicata sui poveri e ignari passanti, del tutto inconsapevoli di ogni piccolo dettaglio delle loro vite snocciolato dalla lingua abile e sciolta di uno dei due apparentemente tranquilli amici seduti poco lontano da loro.
Dopo una decina di mariti fedifraghi, un paio di truffatori seriali e una manciata di madri troppo apprensive, si erano decisi a saltare su un taxi per tornare al loro quartiere.
Quando erano tornati a casa, Molly aveva tirato un enorme sospiro di sollievo e aveva chiesto loro se si fossero divertiti. Sherlock e John si erano guardati, complici, ma non avevano risposto. Le avevano risposto i loro occhi, al posto delle voci. Molly era andata a letto felice.
Quando, finito il liceo, John fu preso al King’s College, per perseguire il sogno di diventare un medico, e Sherlock ricevette la lettera tanto attesa da Oxford, la loro amicizia non cessò di esistere né fu dimenticata. Il telefono di Sherlock a squillo continuo, nella stanza al College, fu causa di numerose, ma incassate con assoluto piacere, punizioni del Rettore.
Dopo l’Università, John approdò al Barts per la sua specializzazione e Sherlock cominciò a farsi un nome come Consulente Investigativo –primo e unico al mondo- per la polizia. Prese per entrambi un appartamento in centro, al 221B di Baker Street, l’appartamento che aveva sempre sognato, quello che da bambino aveva sempre immaginato come la naturale evoluzione del rifugio della sua stanza. Con l’unica differenza che in quel momento, nel suo ideale perfetto della vita da adulto, c’era la variabile John da considerare. Una variabile indispensabile per la sua felicità.
Una cosa sola, però, non cambiò mai.
John non ricevette mai alcun abbraccio da Sherlock, neppure uno, neanche un accenno. Sembravano vivere in simbiosi ma l’unico gesto d’affetto che Sherlock gli concesse mai fu solo una stretta di mano, il giorno del diploma.
John ci aveva provato, così tante volte da aver perso il conto, ma Sherlock era stato sempre irremovibile. Il detective non sapeva nemmeno perché, in fondo. Ne avevano passate così tante insieme che un gesto del genere sarebbe stato naturale, spontaneo…perfettamente consono a un legame come il loro. Sherlock non voleva pensarci. Era qualcosa che lo faceva sempre sentire mancante.
E il giorno in cui tutto cambiò, non cominciò affatto come un giorno felice, per Sherlock.


§

 

Tutto a casa di Sherlock è più silenzioso, adesso.
I Signori Holmes dormono in un piccolo cimitero fuori Londra, quello dove tutta la famiglia Holmes riposa da generazioni. Nessun rumore di tacchi sulle assi scricchiolanti delle scale ad annunciare un’imminente uscita della Signora, nessun velato fruscio di giornale dal salotto ad annunciare la giornaliera rassegna stampa del Signor Siger, e di conseguenza, nessuna animata discussione con il Signor Hooper sulle nuove decisioni del governo o sull’ultimo scandalo politico scoppiato in Inghilterra. Mycroft non vive più in quella casa da tempo ormai, trasferitosi nel suo lussuoso appartamento in Centro grazie alla sua nuova carica Governativa e Schubert non risona più nell’androne delle scale come dolce melodia d’accompagnamento per le faccende di ogni giorno. Soltanto la risata contagiosa di Molly e suo marito, ormai vecchi ma sempre pronti a donare un sorriso o una parola buona, sono rimasti a dar luce a quella casa.
In quella sera di metà settembre, John e Sherlock sono nella stanza di quest’ultimo, che non è cambiata di una virgola rispetto a tanti anni prima. Sul letto singolo c’è lo stesso morbido piumino della notte in cui John era salito da lui la prima volta, e alle finestre svolazzano pigramente le stesse tendine, anche se rammendate a regola d’arte dalle mani fatate di Molly. Sherlock non ha mai voluto che cambiasse niente anche per quello. Per lasciare che lì dentro la loro amicizia restasse pura, semplice come quando erano bambini. Senza i problemi degli adulti, della vita, e di tutto il resto. Entrare in quel luogo sarebbe sempre dovuto essere come un salto nel tempo.
John è seduto ai piedi del letto, proprio come quella volta, solo che adesso ha una grossa borsa davanti a lui, una sacca piena dei suoi vestiti, traboccante, talmente alta da coprire quasi completamente la sua figura. John la ripone sul pavimento, per guardare Sherlock negli occhi, anche se sa perfettamente cosa vedrà.
Non è felice, il suo migliore amico. Non ha mai visto Sherlock piangere e non crede che lo vedrà mai, ma gli occhi lucidi che adesso cerca in tutti i modi di nascondere sono quanto di più vicino a un pianto disperato ci si possa aspettare da uno come Sherlock Holmes.
“Non devi farlo” Sherlock dice piano, misurando le parole. La sua voce è roca, profonda, segnata da qualcosa che John può classificare come rimpianto.
“E invece devo, Sherlock” John risponde, e allunga una mano verso quella del suo amico, che la ritrae immediatamente. “E voglio. Lo sai”.

Sherlock ride ma non è realmente felice: lo fa per mascherare qualcosa di più intenso, più forte, qualcosa che è più grande di lui.
“Allora non t’importa di me. Non te n’è mai importato” Sherlock lo accusa, senza mezze misure. Non vorrebbe farlo, ma John lo costringe.
John sbarra gli occhi, incredulo, ma non risponde con astio, non dice nulla, all’inizio. Sa benissimo che Sherlock non vuole ferirlo.
“Sai che non è vero” il tono di voce di John è serafico, tranquillo, come se stesse parlando con un bambino. “E sai anche quanto partire sia importante per me. Se davvero ci tieni a me, lasciami andare”.
Sherlock accenna un sorriso, ma è amaro, acido.

“Sei un idiota” il detective stavolta è più rude, quasi astioso. Non sopporta quando John fa così. John sorride, e questo alimenta ancora di più il disappunto di Sherlock.
“Lo so. Me lo hai detto centinaia di volte” John lo sorprende. “E’ quasi un complimento, detto da te”.
“Adesso non lo è” Sherlock soffia, stringendo tra le mani il tessuto scabroso del piumino.
John guarda altrove, come ipnotizzato dal tappeto accanto al letto.
“Hai Lestrade, hai i tuoi casi e i tuoi clienti. E Mrs Hudson che si prenderà cura di te. Io sono così noioso, dopotutto. Non ti accorgerai della mia assenza” John non vuole affrontare l’argomento, glielo si legge negli occhi, ma lo fa, per Sherlock. Il detective, dal canto suo, vorrebbe solo schiaffeggiarlo, in quel momento.
“Pensi che mi basti questo per dimenticarmi di te?” Sherlock è indispettito dalla sufficienza con cui John sembrava prendere il suo legame verso di lui. “Pensi che io possa dimenticarmi di te a causa dei tuoi rimproveri sul cibo, sul sonno, sui proiettili contro il muro? Credi che io possa dimenticare una vita, per questo?".
Sherlock si alza dal letto, incapace di rimanere seduto oltre. Batte un palmo contro il muro, per scaricare la rabbia e la tensione.
“Pensavo non ci fosse posto per queste cose, nella tua testa” John esclama ma Sherlock non lo guarda in viso mentre lo dice.
“Lo farei se non si trattasse di te” Sherlock poi dice, voltandosi e incontrando nuovamente le iridi blu scuro del suo dottore. “Io conservo ogni ricordo che possa riportarmi a te”.

John non risponde, e sinceramente, non sa come farlo. Sherlock non gli ha mai parlato in quel modo in tanti anni. Sono parole belle, sentite, vere. Sono la dichiarazione d’affetto attesa per anni ma che Sherlock non gli ha mai davvero concesso. Crudele è il destino che ha fatto sì che lui decidesse di farlo in quel momento, alla vigilia del suo viaggio.

“Io non resisto due anni” Sherlock continua ancora. “Io non so se posso reggere”.
John si alza, e cammina lentamente verso Sherlock, a passo cadenzato, fermandosi a pochi metri da lui. Tutto quello che vorrebbe è abbracciarlo, stringerlo a sé senza lasciarlo mai andare fino alla mattina dopo, quando i suoi commilitoni avrebbero dovuto slacciarlo con la forza da quelle braccia. Sherlock però non vuole. Non ha mai voluto e mai lo vorrà. Sherlock è freddo, anche se in quel momento sembra il più fragile degli uomini, e John non vede la luce attraverso quella lastra di ghiaccio.
“Tu sei forte, Sherlock. Lo sei sin da bambino” John afferma, sicuro. “Ti ricordi vero? Ti ricordi quando mi parlasti della tempra, del coraggio e di ciò che avevano pensato i tuoi per te?”.
Sherlock, inaspettatamente, sente l’incredibile impulso di ridere, di ridere forte, convulsamente, come colto da un’insana frenesia del tutto inappropriata. Com’è strana la vita, pensa. Quanto sono sciocche le persone, a volte.

Lo fa.

Ride, ride e ride, sempre più forte. John rimane in silenzio, la bocca socchiusa per lo stupore.
“Io non conosco più quel bambino, John” il detective afferma, con fare accusatorio e grato allo stesso tempo. Fino a quel momento Sherlock non avrebbe mai immaginato che due emozioni tanto contrastanti potessero convivere. “Qualunque mostro i miei genitori avessero creato, ha cominciato a scomparire pezzo dopo pezzo dopo aver incontrato te”.
L’atmosfera sembra diventare quasi eterea, surreale, come se la luce della lampada si fosse espansa fino a diventare una nebbiolina solida e palpabile.
John fissa Sherlock e Sherlock fissa John, senza distogliere mai lo sguardo. Studiano ogni particolare dei loro visi che conoscono ormai a memoria, in ogni imperfezione e perfezione. Il dottore sospira, infondendosi coraggio, deciso in quel momento ad abbattere, adesso che sapeva di poterlo fare, l’ultimo solido mattone di quel muro impenetrabile che li aveva sempre separati.

Sherlock lo capisce quasi immediatamente ma non si allontana quando John si ferma a pochi centimetri da lui, i loro petti tanto vicini la potersi sfiorare e i loro respiri ad accarezzare ognuno le labbra dell’altro.
Non si sottrarrà, non adesso, non più. Non capisce perché lo abbia fatto per tutti quegli anni, non vuole pensarci ma non può farne a meno. Improvvisamente capisce, ed è tutto così chiaro che respinge la voglia di picchiare violentemente la testa contro il muro per non aver visto prima qualcosa di talmente ovvio e vivido.
Lo diceva sempre nonna Holmes.
Per quanto tu possa amare qualcosa o qualcuno, non ti accorgerai mai di quanto significhi in realtà per te come nel momento in cui stai per perderlo.

 

“Sherlock” John sussurra e Sherlock può quasi sentire ogni lettera del suo nome incisa sulle sue labbra dal respiro dell’uomo di fronte a sé. “Posso abbracciarti?”.

Sherlock lo guarda, e riesce quasi a specchiarsi negli occhi dell’altro. Nessuno gli è mai stato tanto vicino da permettergli di farlo.
E’ un sussurro, un respiro, un battito di ciglia.
“Sì”.

John lo stringe a sé con forza e con dolcezza allo stesso tempo, afferrando la sua camicia e stringendola così forte da rischiare quasi di strapparla, ma a Sherlock non importa, non in quel momento, e dubita che potrà mai importargli. Sherlock alza le braccia e ricambia l’abbraccio con tutta la forza che riesce a trovare, artigliando anche lui la giacca militare che John indossa, così che quella stretta non possa slacciarsi, così che il contatto tra i loro corpi sia così stretto da togliere il respiro, tanto forte che da uno sguardo lontano avrebbero potuto scambiarli per una persona sola. E’ davvero caldo, caldissimo, ed è un calore che Sherlock non ha mai provato, nemmeno con sua madre, o con i nonni o con suo fratello. E’ tutto su John, tutto gira intorno a John e nient’altro esiste, nient’altro ha importanza. Sherlock si da del folle, dello stupido, del cieco per non averlo fatto prima, ma sa che il passato è passato e non si può più tornare indietro. Si rifarà con il futuro, un futuro che vede migliore, nonostante lo stia lasciando andare, nonostante abbia rinunciato ormai a far desistere John da ciò che vuole fare. Sa che non sarebbe giusto, sa che deve lasciarlo partire, perché è ciò che lui vuole.
Quando si separano, John non allenta la presa su quelle braccia, lasciando scendere le mani fino a intrecciare le dita con quelle di Sherlock, che non manca di ricambiare il gesto. Inaspettatamente, John avvicina le sue labbra a quelle del suo migliore amico ma non le bacia, come Sherlock si aspetta.
Sfiora appena l’angolo della sua bocca, amorevole, con una dolcezza che rasenta la devozione.
“John…” Sherlock sussurra appena, sfiorando il viso accaldato di John con una mano.
John sorride, e stringe la presa sulla mano di Sherlock.
“Quando tornerò. Te lo prometto” dice sicuro, ancora sorridendo. “Sarà un incentivo a rimanere vivo”.
A quelle parole, il cuore di Sherlock quasi si ferma. Non vuole pensare a quell’eventualità, non vuole nemmeno concepirla. Non può succedere, non deve accadere. John deve tornare, per se stesso, per le vite che attendono solo lui per essere salvate. Deve tornare per lui e per loro.

Sherlock accarezza la pelle delicata dei polsi di John. Sente il suo cuore che batte, forte come il suo. E’ un gesto semplice ma intimo, quasi più di un bacio.
“Quell’abbraccio” John bisbiglia, emozionato. “E’ stato il regalo più meraviglioso che tu potessi farmi”.

Sherlock non risponde a parole, ma lo fa a suo modo, nella maniera che gli riesce meglio. Lo conduce verso il suo letto e scosta le coperte, lasciando che John vi si sdrai, per poi raggiungerlo. John lascia passare un braccio sotto le sue spalle e Sherlock appoggia il capo alla sua spalla, cingendolo alla vita nell’esatto momento in cui John lo stringe a sua volta.

Sherlock si sente protetto, sicuro, completo. Sherlock si sente invulnerabile tra le braccia di John e legge negli occhi del suo migliore amico che lui pensa la stessa cosa.
Sherlock sarà con lui, anche a chilometri di distanza, anche sotto il calore cocente del deserto, tra l’odore metallico del sangue dei feriti e il rumore assordante delle bombe e dei proiettili.
Sherlock sarà sempre vicino a lui, anche se lontano. E’ un paradosso che Sherlock avrebbe trovato stupido in passato, ma in cui adesso crede come fosse un sacro dogma.
E questo, lo sa anche John. Si addormentano, abbracciati, incuranti della posizione scomoda che li sveglierà doloranti il mattino. A loro non importa nulla. L’importante è non lasciar fuggire quel calore. In quell’intreccio caldo e confortante, Sherlock e John saranno sempre uniti.

 

A Sherlock Holmes non erano mai piaciuti gli abbracci, fino al momento in cui qualcuno era piombato nella sua vita a mostrargli quanto potessero essere meravigliosi, con la persona giusta accanto.

Sherlock Holmes non aveva mai avuto bisogno di un abbraccio, e forse, finalmente, aveva capito perché.

E il motivo era semplice, ovvio, cristallino, come se qualcosa dentro di lui lo avesse sempre saputo.

Semplicemente perche l'amore di Sherlock, il suo cuore e il calore del suo abbraccio non avevano mai trovato qualcuno talmente importante da poterli meritare.

L'amore di Sherlock, in tutte le sue mille splendide forme troppo a lungo rimaste nascoste, aveva soltanto aspettato John, per tutta la vita.

 

 

 

 

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