Buonasera adorabile e
meraviglioso fandom!
Quando il pc deciderà di collaborare risponderò a
tuuutte le recensioni in
sospeso per l’altra storia, giuro! Siete stati gentilissimi e
non ho parole per
ringraziarvi, davvero!
Questa è una teen (inutile, mi sono innamorata delle
AU!Teen) e spero vivamente
che vi piaccia!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
Hold
me warm against your heart
*
Sherlock non ha bisogno di
abbracci, perché semplicemente, non ricorda neppure cosa si
provi, a riceverne
uno.
La mamma ne era stata una gran dispensatrice, quando era più
piccolo, ma
varcata la soglia degli undici anni, aveva deciso che era ora che il
piccolo
Holmes diventasse un uomo e cominciasse a capire che non tutto
può essere
risolto nel calore di un abbraccio.
Con Mycroft era stato lo stesso, e Sherlock non sarebbe stato da meno,
aveva deciso.
Avrebbe fatto come suo fratello
maggiore e sarebbe entrato in un College prestigioso, diventando il
più studioso e il più intelligente
della classe. Non avrebbe certo fatto come il loro cugino Tom, il cocco
di mamma, quello che non faceva altro che farsi scompigliare i
capelli dalla zia Ellie, lasciandosi coccolare come una femminuccia.
Sherlock non
ha mai potuto sopportarlo.
Li vede a scuola, i suoi
compagni e compagne che quando non sono impegnati a
zampettare fuori dalle aule per scambiarsi figurine
dell’Inghilterra o per
contrabbandare, sottobanco, sgargianti smalti per unghie color
pastello, non
fanno altro che abbracciarsi. Si
stringono, forte, fortissimo come se fossero stati separati per dieci
anni
invece che appena dalla mattina precedente. Sherlock li vede ogni
giorno, e
scuote la testa. Poveri illusi. Non andranno mai a Oxford, loro. Probabilmente vivranno con i loro
genitori fino ai
quarant’anni e si faranno portare le uova e i toast a letto,
come fanno adesso.
Non smetterà mai di
stupirsi che i genitori lascino loro fare certe cose liberamente, senza
preoccuparsi neanche un po’. Comunque, non è certo
un suo problema, in fondo.
Meno concorrenza per lui, in futuro, anche se sa già, tutti
gliel’hanno detto
almeno una volta, lui non è affatto come tutti
gli altri. Lui è diverso, speciale, strano,
soprattutto quest’ultimo termine. Non avrebbe concorrenza in
qualunque caso.
Mentre mangiucchia la sua merenda, seduto come sempre da solo al tavolo
all’angolo della mensa, Sherlock ripensa all’ultima
volta che qualcuno lo ha
stretto a sé. Non ricorda bene se fosse stata sua nonna o
addirittura suo
fratello, in un momento di lucida follia.
Non ricorda cosa avesse provato allora e si convince che, in fondo, non
doveva
essere stata un’esperienza poi tanto forte. Sherlock non ne
ha bisogno.
Sherlock è superiore a tutto questo.
Anche sulla strada di casa, tutti sembrano morire dalla voglia di
abbracciarsi,
stringersi e baciarsi come in una soap opera romantica del tipo tanto
adorato
da Mrs. Hooper, la governante. Seduto sulla panchina
all’uscita della scuola,
c’è un signore sui quarant’anni che
abbraccia forte una bambina bionda con due
codini che le scivolano graziosamente sulle spalle. Lei ride, lo
abbraccia a
sua volta e si crogiola nel calore di quella stretta.
Sherlock scuote la testa, girando i tacchi e passando loro davanti
senza
degnarli di uno sguardo. La vita è
dura
ripete sempre sua madre, e Sherlock sa che è vero,
perché l’ha detto sua madre,
e quello che dice lei è sempre vero. Quella bambina non lo
sa, ma Sherlock si
sente un po’ in pena, per lei. Dopotutto la sua unica colpa
era non avere la
Signora Holmes, come mamma.
Immagina di parlarne con lei, arrivato a casa, ma improvvisamente un
pensiero
tremendo lo costringe a fermarsi, turbato.
Pensa a cosa succederebbe se sua madre decidesse di dare lezioni di
vita a
tutti i bambini di Londra. Immagina sconosciuti maneggiare il suo
microscopio,
i suoi libri e le costruzioni di legno del nonno. Riesce a vedere
ragazzini
tremendi come Billy Stanford entrare in camera sua e gettare tutto
all’aria, e
un brivido di paura lo scuote da capo a piedi. Meglio rimanere zitto,
pensa.
Meglio tenere i consigli della mamma solo per sé.
Sul lungo viale di tigli, i piedi di Sherlock calpestano il tappeto
naturale di
foglie e rametti, provocando un lieve e monotono crac
crac che ha sempre un effetto rilassante, su di lui. Chiude
gli
occhi e sorride tra sé e sé, cullato da quel
rumore familiare, quando una
risatina lontana attira la sua attenzione. Riapre gli occhi e rimpiange
di
averlo fatto nemmeno tre secondi più tardi.
Eccoli là, il signore e la signora Trevor. Lui è
un rappresentante di una casa
farmaceutica e lei è una casalinga e hanno due bambini
piccoli che sono le
pesti conclamate del quartiere. Lui rimane via di casa quasi quattro
giorni a
settimana, a causa del suo lavoro, e in quel momento, Sherlock osserva
l’uomo
assaltato in ogni dove dai due bambini e da sua moglie, che lo
abbracciano,
baciano e stringono come se non fossero minimamente ancora abituati
alla sua
lontananza, nonostante facesse lo stesso lavoro più o meno
da sette anni.
Sherlock allunga il passo, sbuffando e tirando su la cartella sulle
spalle.
Più avanti, non va molto meglio. Ci sono i ragazzi Potter
appena rientrati dal
college, incollati alla loro madre, e i due mielosi piccioncini Mary e
Greg,
che dal giorno in cui lui aveva dichiarato pubblicamente –lo
aveva sentito
tutto il quartiere quello strazio infernale- il suo amore, sembrava
vivere in
simbiosi con le labbra e le braccia di lei, come se ne fosse
dipendente.
Sherlock si domanda cosa succederebbe se andasse lì vicino a
staccarcelo con la
forza. Forse si affloscerebbe al suolo o volerebbe via a razzo, come
quando si
stacca la bombola d’elio da un palloncino non ancora ben
legato.
Decide non avere poi tanta curiosità di saperlo, in fondo.
Arrivato quasi sul vialetto di casa, fortunatamente senza incrociare
ulteriori
scene di idilliaco affetto, Sherlock incrocia per caso un grosso camion
bianco,
che parcheggia proprio nella villetta accanto alla loro, fermandosi con
un
brusco bum.
Gli giunge inaspettata la notizia di nuovi inquilini nella villa
accanto, ed è
leggermente irritato al pensiero che sua madre non lo avesse avvisato:
adesso
avrebbe dovuto passare la serata a inventare una lista di scuse
convincenti per
evitare di essere preso a far parte del comitato di benvenuto per i
nuovi
vicini.
Prega che non ci siano altri bambini, ancora peggio se coetanei. Quelli
hanno
la brutta abitudine di voler giocare tutto il santo giorno, sprecando
tempo
prezioso utilizzabile molto più proficuamente. Per non
parlare della loro mania
di abbracciare. E sarebbe stata la
fine, se il marmocchio di casa si fosse rivelato una ragazzina.
Le ragazzine erano le più terribili e lui sembrava
attirarne a sciami, come una specie di orsacchiotto inzuppato di miele
dentro
un alveare.
Quando entra in casa, né suo padre né sua madre
passano a dargli il bentornato:
in verità, non sembra nemmeno che siano in casa. Mycroft
è certamente chiuso in
camera sua, a studiare, da bravo ragazzo qual è. Una lieve
melodia proviene dal
piano di sopra, probabilmente da camera sua. Schubert. Lui lo adora. Lo
aiuta a
pensare.
“Bentornato, piccolino” Mrs. Hooper lo saluta
sbucando dalla soglia della
cucina, sistemandosi il grembiule. Ha i capelli castani raccolti in una
crocchia quel pomeriggio e sembra allegra, più del solito.
“Ciao Molly” Sherlock la saluta, con un cenno del
capo. “I miei genitori non ci
sono?” domanda, anche se già conosce la risposta.
“No” risponde lei, e il suo viso diventa
improvvisamente più triste, come se
l’assenza dei suoi padroni la demoralizzi in qualche modo.
“Sono partiti per il
Surrey, oggi pomeriggio. Tuo padre è stato chiamato
urgentemente e tua madre è
voluta andare con lui”.
Sherlock annuisce, comprensivo. Succede sempre. Sua madre è
fatta così, quando
si parla del lavoro di suo marito. Ormai è abituato.
“Mi dispiace che non abbia potuto dirti ciao, piccolo. Mi ha
detto di darti i
suoi saluti, quando saresti tornato”.
Molly l’ha chiamato di nuovo ‘piccolo’.
Sherlock non lo sopporta e forse un giorno glielo dirà. A
dirla tutta, non sa
nemmeno lui perché non gliel’abbia ancora detto.
“Non preoccuparti. Non fa niente. Dopotutto, torneranno
presto” Sherlock chiude
lì, diplomatico. Una vocina remota nella sua testa gli dice
che dovrebbe
prendersela, che dovrebbe pestare i piedi e mettersi a piagnucolare per
il
disinteressamento dei suoi genitori, così come farebbe
qualunque dei suoi
deboli compagni di scuola. Sherlock però conosce la
verità. Gliel’hanno detto,
tante volte. Gliel’hanno detto perché Sherlock
è un bambino intelligente,
diligente e serio e può comprendere che il cavarsela da soli
potrà servire, da
grandi. Lui doveva impararlo da adesso, per essere pronto. I ragazzini
in gamba
come lui sono privilegiati, mamma
lo
dice sempre. E quello che dice mamma…
Molly sorride appena e si
avvicina a Sherlock, allungando le braccia verso di lui come ha
già tentato di
fare altre volte. Sherlock sa benissimo cosa vuole fare. Lei non
è da meno
rispetto a tutti gli altri, dopotutto. Si scansa, velocemente, e non
gli
importa se lei si accorgerà di quella deliberata fuga.
Dovrebbe conoscerlo
ormai, lo ha cresciuto anche lei, in fondo.
Il sorriso di Molly scompare dal suo viso lentamente, e Sherlock
può vedere la
delusione dipingerle il volto, prendendo prepotentemente il posto della
velata
allegria di poco prima. Lei distoglie lo sguardo da quello di Sherlock
e
scrolla le spalle, cercando di mascherare il suo stato
d’animo.
“Bene” dice, sforzandosi di mantenere un tono
equilibrato. “Se…se hai fame, il
pranzo è quasi pronto”.
Sherlock scuote la testa, indifferente.
“Credo che rimarrò di sopra, devo finire un libro.
Chiamo Mycroft, comunque”.
“Devi mangiare, Sherlock”.
“Mangerò stasera” il suo tono
è categorico, serio. Non sembra un bambino di dieci
anni quando fa così, ma in fondo, Sherlock non è
mai sembrato davvero un bambino.
Molly fa per replicare, ma le parole le muoiono sulle labbra. Si limita
ad
annuire, il viso incupito, le spalle basse.
“Va bene Sherlock. A stasera. Se cambi idea, sono
qui”.
Sherlock non risponde e sale di sopra, salendo le scale a due a due
incurante
del preoccupante cling delle assi
di
legno sotto le sue falcate troppo energiche.
Bussa alla porta di Mycroft, un paio di volte.
“Myc, il pranzo è pronto!” annuncia,
attendendo la risposta del fratello. Schubert
cessa, e un rumore di suole rigide sul parquet si avvicina alla porta,
gradualmente.
“Dirò a Molly che ho da studiare, non
scendo” la voce di Mycroft è ovattata, da
dietro la porta.
“Vuoi che glielo dica io?” Sherlock chiede, con una
gentilezza che riserva solo
a suo fratello.
“No tranquillo. Rischieresti di beccarti un
abbraccio” lo canzona, ridacchiando.
Sherlock non risponde ulteriormente e bussa con forza alla porta, per
far
capire a suo fratello che il messaggio è stato ricevuto. Non
vuole approfondire
ulteriormente un argomento già troppe volte affrontato
quella mattina.
Una sensazione di enorme sollievo e soddisfazione lo pervade nel
momento esatto
in cui chiude la porta della sua stanza dietro di sé, come
succede ogni giorno.
E’ il suo regno, il suo spazio perfetto, la sua coperta di Linus come adora dire Molly.
Si sente se stesso in
quella camera come in nessun altro posto dove sia mai stato. Si chiede
spesso se
sarà così anche in futuro; si domanda se quando
sarà più grande e andrà a
vivere per conto suo riuscirà ad amare
un luogo allo stesso modo in cui adora quella stanza. Un
appartamentino,
magari. Sherlock si è sempre visto in un piccolo
appartamento del tutto simile
alla sua attuale stanza, caotico ma familiare, pieno di libri, fogli,
roba
sparsa un po’ ovunque secondo il suo caos controllato.
Sherlock spera di
realizzare quel sogno, un giorno, ma dopotutto, lui è speciale. Non ha bisogno di sperare: ci riuscirà.
Si sporge alla finestra
che affaccia sul cortile, proprio di fronte ad una delle stanze singole
della
casa accanto. Sposta leggermente le tendine, curioso, cercando di
intravedere
attraverso i vetri qualcuno dei visi nuovi che si sarebbe dovuto
abituare a
incrociare ogni giorno.
Inaspettatamente, non deve aspettare molto per vedere realizzata la sua
curiosità: nemmeno dieci secondi più tardi il
vetro si apre, riflettendo la
luce del debole sole e rivelando la figura minuta di un ragazzino,
forse sui tredici
anni, con un viso gentile e corti capelli biondi.
Lo straniero lo individua immediatamente, nonostante Sherlock non
avesse
tardato a nascondersi di più dietro la tendina, temendo di
risultare
indiscreto.
“Ehi, ciao!” il ragazzo di fronte esclama,
sorridendo. “Sei il figlio dei vicini?”
domanda.
Sherlock sbuffa, gettando gli occhi al cielo, spazientito. Che razza di
domanda
è, quella?
E’ ovvio, no?
“Sì. Benvenuto” si costringe a dire, a
denti stretti. Sua madre non avrebbe
tollerato che il suo figlio minore sembrasse maleducato ai nuovi
arrivati.
“Come…come ti chiami?” aggiunge, e la
domanda gli sorge sulle labbra senza che
il suo cervello avesse mandato alcun impulso.
L’altro sorride, ancora.
“Io sono John” risponde. “E
tu?”.
“Io sono Sherlock” Sherlock risponde, sbucando
leggermente fuori dal suo rifugio.
“Ho undici anni” Anche quella volta,
l’esclamazione sorge spontanea. Si morde
la lingua, arrabbiato con se stesso.
“Io tredici” risponde l’altro
affacciandosi di più, come se non riuscisse a
vedere bene Sherlock. “Hai un nome simpatico, sai?”.
Sherlock non sa esattamente cosa dire. Suppone sia un complimento
comunque, ed
è proprio per questo che rimane interdetto. Se gli avesse
detto che era un nome
brutto, strano, orrendo, come aveva sempre fatto la maggior parte della
gente,
avrebbe avuto certamente la risposta pronta.
“G-grazie” risponde alla fine, sentendosi
decisamente stupido.
John sembra soddisfatto della risposta.
“Hai altri fratelli? Io ho una sorella, Harry. E’
più grande”.
Dannazione. Una donna.
L’unica cosa
che lo rincuora è che abbia più di tredici anni.
Le sue mire non si sarebbero
certamente rivolte a lui, per fortuna.
Si chiede se sia il caso
di avvisare Mycroft, ma respinge l’idea. Non crede di averlo
mai visto con una
ragazza, da quando si ricorda.
Sherlock annuisce comunque, ma non è sicuro che John possa
vederlo. Si
schiarisce la voce.
“Sì, ne ho uno. Più grande anche per
me”.
John si sporge ancora, ma sempre facendo attenzione a rimanere con i
piedi ben
saldi per terra. Sherlock immagina non sia tanto alto, anche se non
può vederlo
completamente ed è chino sul davanzale.
“Sono contento di aver conosciuto qualcuno, sai?”
John lo coglie di sorpresa.
“Ci spostiamo spesso, per via di papà. Adesso
però mi ha promesso che rimarremo
qui per sempre” guarda nel vuoto per un secondo e Sherlock
capisce che si sta
probabilmente perdendo in sciocche fantasticherie. “Non ho
mai avuto il tempo
di fare davvero amicizia con qualcuno”.
Sherlock si blocca, guardando il ragazzino dall’altro lato
del vialetto a bocca
aperta, sconvolto dalla troppa istantanea confidenza che lui non gli
aveva
affatto concesso. Chi aveva mai parlato di amici, in fondo? Sherlock
non ne
ammette anche solo il concetto. Sherlock sa bene cos’è
un amico. Qualcuno su cui fare affidamento, qualcuno su cui
riporre la tua fiducia, una persona vicina che è sempre con
te nel momento del
bisogno. Sherlock non sopporterebbe di doversi accollare i bisogni, le
grane e
i problemi di un altro essere umano. 'Chi
fa da sé fa per tre' dice sempre la mamma ed
è un’assoluta e sacrosanta
verità.
Sherlock non da fiducia, non l’ha mai davvero data a nessuno,
a ben pensarci e
sta bene così. La gente mente, cambia, e non importa che tu
sia un ragazzino o
un adulto. La solitudine è quello che ha
ed è l’unica cosa che potrà sempre
proteggerlo.
“Tu non sei mio
amico”
Sherlock sbotta, indispettito, preso in contropiede dalla situazione.
“E cosa
ti fa credere che vorrei che tu lo diventassi?”.
L’espressione di
John gli
ricorda vividamente quella di Molly pochi minuti prima. Non
è arrabbiato,
infastidito o colmo di qualunque altro sentimento Sherlock pensa si
debba
provare in una situazione del genere. E’ solo delusione, pura
e semplice.
“Oh, io… mi dispiace” dice
l’altro, a capo chino, guardandosi le mani. “Scusa
se ti ho disturbato, allora”.
“Non mi hai disturbato. Non ho detto questo”
Sherlock ribatte, ma una strana
morsa allo stomaco, qualcosa che raramente ha provato in tutta la sua
vita, lo
costringe a non andar via.
“Lo so, ma è come se l’avessi detto.
Io…” il biondino guarda dietro di sé,
oltre le tendine colorate, come se cercasse una scusa per rientrare.
“No,
nulla. Lascia stare. E’ colpa mia. Va tutto bene. Ciao,
comunque”.
“Aspetta…” Sherlock non sa esattamente
perché gli abbia chiesto di non andare,
quando tutto ciò che in realtà desidera
è chiudere quella finestra e rientrare
nella sua stanza a finire quel dannato libro che lo aspetta sul
comodino,
mettendo fine a quella faccenda.
“Tutto ok, ho detto” John si sforza di sorridere,
ma non è molto convincente.
“Devo rientrare. Ci si vede in giro” la voce va via
via scemando mentre il
ragazzino scivola via dalla visuale di Sherlock, sparendo dietro le
tendine
mosse dalla brezza.
Quando anche Sherlock
chiude i vetri delle ante, tirando verso di sé anche la
persiana verde giusto
per essere sicuro di non trovarsi costretto a intavolare una nuova
conversazione, sente qualcosa di strano, dentro di sé.
Quel ragazzino, John, non era stato certo il primo a provare ad
attaccare
bottone con lui e non l’avrebbe certo avuta vinta. Sarebbe
finita come con
tutti gli altri. Sherlock non ha bisogno di loro e sa che non ne
avrà mai. Respinge
qualunque strana sensazione stesse prendendo piede dentro di lui e si
rannicchia sul suo letto, aprendo il suo libro e lasciandosi
trasportare in un
altro mondo: un universo senza scuola e compagni infernali, senza nuovi
vicini
impiccioni e soprattutto, senza baci e senza abbracci.
Per quanto si sforzi,
però, non riesce a isolare completamente la mente dalle
parole di John.
Pensa a lui tutto il
pomeriggio, e durante la cena e prima di andare a dormire.
E anche durante il sonno, che non dura più di due ore, il
viso rassicurante di
John fa capolino nei suoi sogni, senza che Sherlock possa fare nulla
per
spingerlo via.
§
Mentre Sherlock si agita tra le coperte, cercando in tutti i modi di
evitare
che il suo cervello riportasse alla mente la stessa scena in loop come
una specie
di pellicola inceppata, qualcosa finalmente lo distrae dalle sue
peregrinazioni
mentali.
E’ solo un lieve toc toc toc, come di nocche che battono
contro una porta, ma leggermente diverso, intervallato, come se la mano
del
misterioso avventore non potesse garantire una continuità a
quel bussare. E
soprattutto, cosa decisamente strana, il rumore non proviene affatto
dalla
porta, bensì da qualcosa vicino alla finestra.
Sherlock si alza immediatamente, senza nemmeno infilare le pantofole e
rabbrividendo
in un primo momento al contatto con il pavimento freddo, e riflette sul
da
farsi, combattuto. Non ci sono alberi nel vialetto su cui la sua stanza
affaccia, e quindi non è possibile che sia un ramo a
provocare quel suono.
L’unico modo di scoprirne la fonte, è uno solo:
aprire i vetri della finestra.
Sherlock cammina piano, non vuole rischiare di svegliare suo fratello
che dorme
profondamente nella stanza accanto e nemmeno Molly e suo marito, che al
minimo
rumore piomberebbero di sopra per assicurarsi che Sherlock fosse tutto
intero e
non piallato contro la parete dopo uno dei suoi strani esperimenti da
piccolo
chimico. Arrivato alla finestra, gira piano la maniglia di metallo
ottonato,
senza farla cigolare, e fa lo stesso con le persiane di legno,
aprendole con
lentezza.
Per fortuna, grazie ad una fortuita prontezza di riflessi, riesce a
tapparsi la
bocca con una mano appena in tempo quando scorge la sagoma di un
ragazzino
biondo aggrappato all’abbaino come una buffa scimmia allo zoo.
John.
“Ciao” il ragazzino gli sorride, con la buona
creanza di parlare a voce
bassissima. “Mi fai entrare? Ti devo parlare”.
Sherlock è troppo sconvolto per dire qualunque cosa,
figurarsi per scuotere la
testa o per dirgli di andar via di corsa dalla sua stanza, quindi si
limita a
fissarlo, senza nemmeno sbattere le palpebre e John sembra
interpretarlo come
un ‘sì certo, entra
pure’.
Sherlock si rende conto,
appena il piede scalzo e sporco di terra di John si posa
sull’elegante parquet,
che quello è il primo ragazzino in assoluto che avesse mai
messo piede nella
sua stanza, da quando è nato.
“Scusa
l’improvvisata,
Sherlock” John sorride, imbarazzato. La lampada sul comodino
gli illumina il
viso e Sherlock può studiarlo più da vicino.
E’ sudato, e leggermente arrossato:
forse per l’imbarazzo o per lo sforzo
dell’arrampicata.
“Che ci fai qui?” Sherlock sussurra, riacquistando
l’uso delle corde vocali.
“Non ho fatto altro che pensare a quello che ci siamo detti
oggi” John spiega,
e arrossisce ancora di più. Adesso il suo viso sembra una
bislacca zucca di Halloween
illuminata. “Lo so che è sciocco. Lo so che
abbiamo parlato solo cinque minuti,
ma… ma volevo dirti che mi dispiace di essere stato troppo
diretto” dice, tutto
d’un fiato. Sherlock capisce che ci ha pensato davvero tutto
il giorno.
“Diretto?” il ragazzo dai capelli neri ripete,
guardando John con il viso
inclinato, come se lo stesse studiando.
“Sì. Di averti fatto sentire sotto pressione. Con
la questione degli amici”
John spiega, rimanendo in piedi vicino alla finestra.
“Io… io non so esattamente
come fare amicizia, e forse sono stato un
po’…brusco”.
Sherlock guarda John a
lungo, cercando di capire se stesse dicendo sul serio o se avesse
deciso di
impiegare una notte insonne a prenderlo in giro per poi farsi quattro
risate
con sua sorella o con chissà chi. A guardarlo
però, Sherlock non riesce a
intravedere nulla di sospetto negli occhi del biondino.
“Va bene” Sherlock sente la propria voce dire.
“Va bene. Stai tranquillo”.
Sherlock non si è mai sentito a quel modo in tutta la sua
vita, improvvisamente
incapace di negare qualcosa a un perfetto chiunque conosciuto appena
cinque ore
prima.
John sembra comunque non accorgersi delle paturnie interiori del
ragazzino più
alto, e sospira all’affermazione di Sherlock, come se si
fosse improvvisamente
tolto un peso gigantesco dal cuore.
“Grazie mille. Sei gentile” il biondino gli dice,
appoggiandosi di più al
davanzale. Guarda fuori con una smorfia, verso la sua finestra, come se
il solo
pensiero di ritornarci lo mettesse a disagio. Ovviamente, Sherlock se
ne accorge.
“Di niente” Sherlock risponde. Succede di nuovo. Di niente? Quante volte aveva formulato
quella frase in tutta la
sua vita?
“Vuoi rimanere?” gli domanda ancora, senza
esitazione. No. Decisamente c’è
qualcosa che non va, qualcosa di assolutamente e totalmente fuori
posto.
Sherlock si domanda se John non sia un qualche
ipnotista/mago/manipolatore
della mente. E’ un’idiozia, e lo sa bene, ma
è l’unica spiegazione plausibile,
o almeno, l’unica che riesce a trovare un passaggio nel suo
pensiero
semi-razionale, al momento.
John sembra felicissimo della proposta. Annuisce e sistema la coperta
del letto
di Sherlock, sedendosi a gambe incrociate ai piedi di esso, appoggiato
con la
schiena all’asse di legno.
“Ti ringrazio tantissimo” John gli dice, con un
sorriso a trentadue denti, come
se Sherlock gli avesse appena regalato uno scrigno pieno
d’oro invece che
chiedergli, semplicemente, di rimanere nella sua stanza. Sherlock
annuisce e va
a sedersi di fronte a John, appoggiato alla testiera.
“Non ti piace camera tua?” Sherlock domanda,
mordendosi un labbro. Forse è
troppo inopportuno da chiedere, ma ormai è fatta.
John ridacchia, facendo attenzione a non alzare la voce.
“Oh no. E’ per mia sorella. Ha portato a casa
un’amica, stasera” il biondo storce
il naso, scrollando le spalle. “La stanza di mamma e
papà è insonorizzata, ma
la mia no. E sento tutto.
E’
imbarazzante, la mattina dopo”.
Sherlock lo fissa ma non
capisce a cosa si riferisca. E questo gli da enormemente fastidio. Si
sente
leggermente frustrato dal non sapere, e decide di chiedere adesso che
ormai il
danno era fatto.
“Perché è imbarazzante? Che
succede?” chiede, ma lo sguardo che John gli
rivolge lo fa pentire della sua curiosità. Il ragazzino di
fronte a lui
ridacchia.
“Non lo sai?” gli chiede, sconvolto. “Io
a undici anni lo sapevo. Insomma…è
come tra ragazza e ragazzo. Quelle cose, sai.”
Sherlock avvampa, quando comprende a quale genere di cose
sta facendo riferimento John, parlando di sua sorella. Il
cervello di Sherlock elabora dati e domande furiosamente, tanto che se
rimanessero il silenzio per dieci secondi riuscirebbero a sentire un
rumore di
ingranaggi proveniente dalla sua testa. Non può fare a meno
di sentirsi
terribilmente in imbarazzo per aver fatto la figura del bimbetto,
davanti ad
uno più grande. Lui è Sherlock Holmes, diamine!
“Oh, quelle cose” Sherlock afferma, con tono di
voce da uomo vissuto. Tanto
vale rimediare al danno fingendo indifferenza. “Io non
sapevo… non sapevo si
potessero fare, tra ragazza e ragazza”.
John ride e scrolla le spalle. Si vede benissimo, dai suoi occhi, che
in
passato si era fatto la stessa domanda più e più
volte.
“Non ho idea di come facciano, ma sembra che funzioni,
qualunque cosa debba funzionare.
Insomma, non che io stia ad
ascoltare ma lei non va mai da un'altra parte. Sempre nella sua stanza,
che è sempre accanto
alla mia. Anche nelle
vecchie case”.
Sherlock pensa alla logistica e alla praticità della cosa,
perdendosi tra le
nuvole per due minuti buoni. Alla fine decide di lasciar perdere,
imbarazzato.
“Non starai pensando a mia sorella e alla sua ragazza, vero?
E’ già abbastanza
agghiacciante che ci pensi io” John sembra avere un brivido
alla sola immagine.
Sherlock scuote la testa energicamente, come a voler sottolineare che
no, non
ci sta affatto pensando, almeno dal momento in cui John gli ha fatto
pesare il
fatto che ci stesse pensando.
“No no no” Sherlock dice, in fretta.
“Stavo pensando che io non farò mai quelle
cose con mio fratello vicino. Anzi, credo di non avere alcuna voglia di
farle
affatto, effettivamente”.
John si sistema meglio
sulla sua porzione di materasso e si afferra le caviglie con le mani,
dondolando su e giù contro il suo appoggio. Inarca un
sopracciglio e torna a
guardare Sherlock, con espressione curiosa.
“Io un po’ curioso lo sono” ammette, ma
non riesce a mantenere lo sguardo di
Sherlock, dopo. “Insomma, sono uno che prova le cose prima di
dire che non gli
piacciono”.
Il ragionamento non è poi tanto sbagliato. Sherlock
tossicchia.
“Ci sono tanti abbracci, vero?” pronuncia quella
parola con una smorfia, come
se stesse parlando di qualcosa di disgustoso.
John rimane sorpreso da quella reazione.
“Beh, certo. Tanti abbracci. E baci, credo”
risponde, sincero.
Sherlock tira fuori la lingua, arricciando il naso.
“Come nei film no?” John porta ad esempio,
desideroso, per chissà quale motivo,
che Sherlock capisse.
“Mamma cambia sempre canale quando ci sono quelle
scene” Sherlock afferma,
ricordando le manovre trafelate di sua madre per afferrare in tempo il
telecomando.
John sorride.
“Anche la mia, ma qualcosa riesco sempre a vedere.
Soprattutto quando non c’è”
ammicca, complice.
Sherlock alza le spalle, facendo capire a John che è ok, che
è tutto chiaro.
“Sarà” dice. “Però
gli abbracci non mi piacciono. Quindi credo non lo
farò”.
John lo guarda come se avesse appena visto passare un fantasma, con
tanto di
lenzuolo bianco svolazzante e catene tintinnanti ai piedi.
“Non ti piacciono gli abbracci?” ripete le parole
di Sherlock, come fossero di
una lingua sconosciuta. “Pensavo fossi particolare, ma non
fino a questo
punto”.
Particolare. Sherlock pensa a tutti
gli aggettivi usati da una moltitudine di persone per definirlo, ma non
riesce
a trovare, nonostante ne ricordi a bizzeffe, qualcosa di
così delicato come particolare.
“Dillo che sono strano” Sherlock lo invita. Lui
è pronto, non gli da fastidio.
Lo supererà come ha già superato tante cose.
“Non sei
strano” l’altro
dice, e Sherlock sbarra gli occhi, sorpreso. “Solo che sei il
primo che conosco
a cui non piaccia essere abbracciato”.
“Conoscerai tanta
gente
noiosa”.
“O tanta gente normale”.
“Vedila come
vuoi”.
Rimangono in silenzio, un
silenzio imbarazzato che nessuno dei due sa come colmare.
John però sembra
volenteroso di riportare a galla l’argomento, come se ci
tenesse particolarmente.
“E’ bello abbracciare qualcuno” John
infine esclama, e Sherlock vede che non è
riuscito visibilmente a trattenersi.
“E’…caldo” aggiunge ma non
sembra del
tutto sicuro della semplicità della definizione.
Sherlock inarca un sopracciglio.
“Caldo?” ripete, non troppo convinto.
John annuisce.
“Sì. Caldo. E…familiare”
aggiunge, gesticolando in modo buffo.
“Come dormire sotto
una
coperta?”.
Lo sguardo di John s’illumina.
“Sì una cosa del genere…ma di
più” aggiunge.“Ti da una sensazione che
non si
può descrivere a parole”.
Sherlock tossicchia,
combattendo con se stesso per imporsi di non dire quello che sta per
dire. Non
ci riesce, è più forte di lui.
“Non
esiste” dice.
John non comprende.
“Cosa?”.
“Qualcosa impossibile da descrivere a parole”.
John scuote la testa,
sicuro di sé. Esiste, lo sa. Lo sa perfettamente ed
è suo dovere far si che
Sherlock lo capisca.
“Invece sì, certo che esiste. Come…come
l’amore. O l’affetto. O un abbraccio”
spiega.
Sherlock scuote la testa cambiando posizione e inginocchiandosi con le
spalle
al muro, sedendosi sui talloni.
“Solo il nulla non può essere descritto a
parole” Sherlock dice la sua, sempre.
“E se tu dici così, significa che un abbraccio è il nulla”.
John sbuffa, sicuramente
spazientito dalla testardaggine di quel ragazzino.
“Da quanto tempo nessuno lo fa con te?”.
Sherlock ci pensa su un attimo, anche se sa perfettamente di non averne
bisogno.
“Non lo so”.
“Non lo sai?” John è sempre
più sconvolto. “Mio Dio, dove sono
capitato?”
ridacchia, scherzoso.
Sherlock non può fare a meno di sentirsi mancante, anche se
sa perfettamente
che non deve, che non sta bene, che qualunque cosa dica quel ragazzo
non
servirà a buttare all’aria gli insegnamenti di sua
madre.
“Mia madre dice che ricevere una rigida disciplina da
ragazzini ci temprerà da
uomini” dice, a sua discolpa, come se quel ragionamento
potesse servire a
convincere John delle regole in casa Holmes. John, se possibile, lo
guarda
dieci volte più sbigottito.
“Che razza di principio è, questo?”
risponde, sincero, anche se sembra
pentirsene dieci secondi dopo. Forse è stato troppo brusco,
forse l’ha offeso.
Il biondo spera fortemente di no.
Sherlock, per fortuna, non dice nulla.
“Qui funziona così”.
“Beh, non funziona granché bene, mi
pare”.
Sherlock non sa se sentirsi offeso da quella frase. Alza le difese in
ogni
caso, pronto a colpire, pronto per ogni evenienza.
“Non è molto carino, da dire”.
“Oh, ma lo faccio per temprare il
tuo
spirito” John lo prende in giro, sorridendo per
fargli capire che non vuole
realmente offenderlo.
Sherlock alza le mani, e suo malgrado, non può respingere il
bocciolo di un
sorriso sulle sue labbra. Lo ha battuto, in un certo senso.
“Incasso il colpo, John”.
“Molto sportivo da parte tua”.
“Già. Lo
so.”
John si tormenta le mani,
nervosamente, schioccando le nocche e mangiucchiandosi le unghie. Ha
una
domanda inespressa sulle labbra, che preme per essere liberata. Lo fa,
pochi
instanti dopo.
“Adesso hai cambiato idea, Sherlock?”.
Il ragazzo più
piccolo lo
osserva, confuso, cercando di leggere il significato di quella domanda
negli
occhi blu di John.
“Idea?”.
“Sugli amici, Sherlock”.
Sherlock ci pensa, non è sicuro. Non sa neppure cosa
significhi, in fondo. Sa
della fiducia, e di tutta la manfrina di poco prima, ma non ha
esperienza per
poter realmente giudicare. Pensa se sarebbe poi così
orribile provare, tentare.
Guardando John, il suo sorriso gentile e i suoi modi garbati, decide
che non
può essere poi tanto male.
“Credo di sì”.
John sorride. E’ felice, glielo si legge nel brillio nei suoi
begli occhi.
Sherlock non ha mai visto occhi così. Dovrà
chiedergli di che colore sono
esattamente, un giorno.
“Sono contento” John risponde. “Tu mi
piaci, molto”.
Silenzio. Un nuovo silenzio scende nell’atmosfera della
stanza, ma non è
affatto pesante e pregno di disagio come quello di poco prima. Qualcosa
è
cambiato, radicalmente, anche se nessuno dei due può ancora
realmente
rendersene conto. E’ il primo vero complimento che qualcuno
gli abbia mai
rivolto.
“Vuoi che ti abbracci, Sherlock?”.
La domanda inaspettata
quasi rischia di far cadere rovinosamente il ragazzo sul pavimento, a
gambe
all’aria; per fortuna, riesce a reggersi giusto in tempo alla
testiera di legno,
portandosi via un pomello.
“Che hai detto?”.
John è visibilmente imbarazzato, ma ormai sa di non potersi
più tirare
indietro.
“Ti ho chiesto se vuoi che ti abbracci. Per
provare” bisbiglia.
Sherlock non sa cosa dire, e sinceramente ha
paura. Non vuole dire di no, ma allo stesso tempo,
è spaventato da un
possibile sì. Lui non può, non deve, non ha alcun
diritto di andare contro i principi di Casa Holmes.
“E’ quello che serve per diventare
amici?” chiede Sherlock, non riuscendo a
placare il rossore che sta colorando le sue guance a poco a poco.
John scuote la testa, energicamente, come se fosse dispiaciuto di
avergli dato
un’impressione sbagliata.
“No, no, affatto” John si appresta a dire.
“Era solo per...beh, per farti
vedere. Ma non fa niente se non vuoi”.
Sherlock annuisce, ma non lo guarda.
“Non mi parlerai più se ti dico di no?”
Sherlock domanda, preparandosi già a
una possibile risposta affermativa. Dopotutto, gli eventi di quella
sera si
erano rivelati talmente strani e a lui così sconosciuti
da lasciarlo preparato a ogni possibilità.
John sembra quasi interdetto dalla domanda.
“Ovvio che no. Certo che ti parlerò
ancora” risponde, come se la domanda di
Sherlock fosse stata la più sciocca che gli avessero mai
posto. “Va bene. Tutto
a meraviglia” gli sorride, allegro.
Sherlock sorride anch’egli, di nuovo ed è un nuovo
record anche quello. Due
volte in una sola notte, davanti ad una persona che conosceva da meno
di un
giorno, oltretutto. Forse sta sognando. Non può saperlo.
“Bene”.
“Bene” ripete John, suggellando quel patto
silenzioso. “Però adesso devo
tornare in camera mia. Penso che Harry abbia finito,
finalmente” ridacchia,
guardandolo con aria complice. Sherlock annuisce, e in fondo al cuore
è
dispiaciuto che debba andar via. Si alza dal letto e lo accompagna alla
finestra, spalancando le imposte per facilitargli il passaggio. John
scavalca
abilmente il davanzale, e con un’agilità che
Sherlock non si sarebbe mai aspettato,
si aggrappa al tubo di ferro, lanciandogli un’altra occhiata
prima di scivolare
giù.
“Sei un bel tipo, Sherlock Holmes” gli dice, a
bassa voce. “E quella di stasera
è la conversazione più strana e piacevole che io
abbia mai avuto con qualcuno
della mia età”.
Sherlock sorride, è la terza volta ed è un evento
che dovrebbe segnare sul
calendario, ma per qualche motivo non ci fa neppure più
caso. Sembra che sia
naturale sorridere in compagnia di John. E’ un po’
come portare i pattini alla
pista ghiacciata, la domenica. Per stare in compagnia di John
è necessario il sorriso
più bello.
“Anche per me” è una piccola ma
innocente bugia. Era stata la più
bella conversazione che avesse mai avuto con un coetaneo,
certo, ma anche la prima vera
conversazione
che avesse mai avuto con uno di essi.
“Ci vediamo domani?” domanda poi a John,
inaspettatamente. Questa volta non è
una frase di circostanza. Vuole saperlo davvero.
John annuisce, categorico.
“Certo che sì. E anche dopodomani. E il giorno
dopo ancora” bisbiglia,
scivolando giù sul prato senza staccare gli occhi dal
ragazzo alla finestra.
Sherlock ci crede. Qualcosa dice a Sherlock sa che John non mente. E
che non lo
farà mai.
§
E non lo fece mai,
né
all’indomani, né al giorno successivo e nemmeno
quello dopo ancora.
John non lo lasciò, da quel giorno. Da quella notte, seduto
sul letto di
Sherlock, John non lo abbandonò mai più.
Molly fu la più felice del cambiamento radicale del suo
adorato bambino, molto
più dei Signori Holmes comunque, che vedevano nel nuovo
piccolo vicino di casa
una possibile distrazione per Sherlock da cose molto più
importanti. Li aiutò a vedersi anche durante le
sorvegliatissime serate studio, anche solo per dieci minuti
–l’importante era
incontrarsi- e un giorno aiutò addirittura Sherlock a
scappar via dalla sua
camera, coprendolo con i suoi genitori, per tutta un’intera
notte.
Era stata meravigliosa, quella notte, per entrambi.
Sherlock aveva portato John al suo primo concerto per archi e
pianoforte alla
Royal Albert Hall e John ne era rimasto sinceramente entusiasta,
più di quanto
Sherlock si sarebbe mai aspettato, felice come soltanto in compagnia
del suo
migliore amico riusciva ad essere. Sherlock si era sentito vicino a
toccare il
cielo con un dito, quella sera. Era stata una sensazione intensa,
sconosciuta
eppure familiare allo stesso tempo, come se in tutti quegli anni
l’avesse
tenuta nascosta ma comunque dentro
di
sé, lasciando che facesse capolino fuori di tanto in tanto,
per poi scappar via
un secondo dopo.
Avevano vagato per Londra quasi tutta la notte, sedendosi davanti al
fiume
ghiacciato e sgranocchiando fish and chips comprate a un chioschetto a
Covent
Garden guardando i riflessi delle luci notturne sulla superficie gelida
dell’acqua. Verso notte inoltrata poi, erano crollati su una
vecchia panchina a
Oxford Street e John aveva avuto il privilegio di godere della
spettacolare
capacità di deduzione di Sherlock applicata sui poveri e
ignari passanti, del
tutto inconsapevoli di ogni piccolo dettaglio delle loro vite
snocciolato dalla
lingua abile e sciolta di uno dei due apparentemente tranquilli amici
seduti
poco lontano da loro.
Dopo una decina di mariti fedifraghi, un paio di truffatori seriali e
una
manciata di madri troppo apprensive, si erano decisi a saltare su un
taxi per
tornare al loro quartiere.
Quando erano tornati a casa, Molly aveva tirato un enorme sospiro di
sollievo e
aveva chiesto loro se si fossero divertiti. Sherlock e John si erano
guardati,
complici, ma non avevano risposto. Le avevano risposto i loro occhi, al
posto
delle voci. Molly era andata a letto felice.
Quando, finito il liceo, John fu preso al King’s College, per
perseguire il
sogno di diventare un medico, e Sherlock ricevette la lettera tanto
attesa da Oxford,
la loro amicizia non cessò di esistere né fu
dimenticata. Il telefono di
Sherlock a squillo continuo, nella stanza al College, fu causa di
numerose, ma
incassate con assoluto piacere, punizioni del Rettore.
Dopo l’Università, John approdò al
Barts per la sua specializzazione e Sherlock
cominciò a farsi un nome come Consulente Investigativo
–primo e unico al mondo-
per la polizia. Prese per entrambi un appartamento in centro, al 221B
di Baker
Street, l’appartamento che aveva sempre sognato, quello che
da bambino aveva
sempre immaginato come la naturale evoluzione del rifugio della sua
stanza. Con
l’unica differenza che in quel momento, nel suo ideale
perfetto della vita da
adulto, c’era la variabile John
da
considerare. Una variabile indispensabile
per la sua felicità.
Una cosa sola, però, non cambiò mai.
John non ricevette mai alcun abbraccio da Sherlock, neppure uno,
neanche un
accenno. Sembravano vivere in simbiosi ma l’unico gesto
d’affetto che Sherlock
gli concesse mai fu solo una stretta di mano, il giorno del diploma.
John ci aveva provato, così tante volte da aver perso il
conto, ma Sherlock era
stato sempre irremovibile. Il detective non sapeva nemmeno
perché, in fondo. Ne
avevano passate così tante insieme che un gesto del genere
sarebbe stato
naturale, spontaneo…perfettamente consono
a un legame come il loro. Sherlock non voleva pensarci. Era
qualcosa che lo
faceva sempre sentire mancante.
E il giorno in cui tutto cambiò, non cominciò
affatto come un giorno felice, per
Sherlock.
§
Tutto a casa di Sherlock
è
più silenzioso, adesso.
I Signori Holmes dormono in un piccolo cimitero fuori Londra, quello
dove tutta
la famiglia Holmes riposa da generazioni. Nessun rumore di tacchi sulle
assi
scricchiolanti delle scale ad annunciare un’imminente uscita
della Signora,
nessun velato fruscio di giornale dal salotto ad annunciare la
giornaliera
rassegna stampa del Signor Siger, e di conseguenza, nessuna animata
discussione
con il Signor Hooper sulle nuove decisioni del governo o
sull’ultimo scandalo
politico scoppiato in Inghilterra. Mycroft non vive più in
quella casa da tempo
ormai, trasferitosi nel suo lussuoso appartamento in Centro grazie alla
sua
nuova carica Governativa e Schubert non risona più
nell’androne delle scale
come dolce melodia d’accompagnamento per le faccende di ogni
giorno. Soltanto
la risata contagiosa di Molly e suo marito, ormai vecchi ma sempre
pronti a
donare un sorriso o una parola buona, sono rimasti a dar luce a quella
casa.
In quella sera di metà settembre, John e Sherlock sono nella
stanza di
quest’ultimo, che non è cambiata di una virgola
rispetto a tanti anni prima.
Sul letto singolo c’è lo stesso morbido piumino
della notte in cui John era
salito da lui la prima volta, e alle finestre svolazzano pigramente le
stesse
tendine, anche se rammendate a regola d’arte dalle mani
fatate di Molly.
Sherlock non ha mai voluto che cambiasse niente anche per quello. Per
lasciare
che lì dentro la loro amicizia restasse pura, semplice come
quando erano
bambini. Senza i problemi degli adulti, della vita, e di tutto il
resto.
Entrare in quel luogo sarebbe sempre dovuto essere come un salto nel
tempo.
John è seduto ai piedi del letto, proprio come quella volta,
solo che adesso ha
una grossa borsa davanti a lui, una sacca piena dei suoi vestiti,
traboccante,
talmente alta da coprire quasi completamente la sua figura. John la
ripone sul
pavimento, per guardare Sherlock negli occhi, anche se sa perfettamente
cosa
vedrà.
Non è felice, il suo migliore amico. Non ha mai visto
Sherlock piangere e non
crede che lo vedrà mai, ma gli occhi lucidi che adesso cerca
in tutti i modi di
nascondere sono quanto di più vicino a un pianto disperato
ci si possa
aspettare da uno come Sherlock Holmes.
“Non devi farlo” Sherlock dice piano, misurando le
parole. La sua voce è roca,
profonda, segnata da qualcosa che John può classificare come
rimpianto.
“E invece devo, Sherlock” John risponde, e allunga
una mano verso quella del
suo amico, che la ritrae immediatamente. “E voglio. Lo
sai”.
Sherlock ride ma non
è
realmente felice: lo fa per mascherare qualcosa di più
intenso, più forte,
qualcosa che è più grande di lui.
“Allora non t’importa di me. Non te
n’è mai importato” Sherlock lo accusa,
senza mezze misure. Non vorrebbe farlo, ma John lo costringe.
John sbarra gli occhi, incredulo, ma non risponde con astio, non dice
nulla,
all’inizio. Sa benissimo che Sherlock non vuole ferirlo.
“Sai che non è vero” il tono di voce di
John è serafico, tranquillo, come se
stesse parlando con un bambino. “E sai anche quanto partire
sia importante per
me. Se davvero ci tieni a me, lasciami andare”.
Sherlock accenna un sorriso, ma è amaro, acido.
“Sei un
idiota” il
detective stavolta è più rude, quasi astioso. Non
sopporta quando John fa così.
John sorride, e questo alimenta ancora di più il disappunto
di Sherlock.
“Lo so. Me lo hai detto centinaia di volte” John lo
sorprende. “E’ quasi un
complimento, detto da te”.
“Adesso non lo è” Sherlock soffia,
stringendo tra le mani il tessuto scabroso
del piumino.
John guarda altrove, come ipnotizzato dal tappeto accanto al letto.
“Hai Lestrade, hai i tuoi casi e i tuoi clienti. E Mrs Hudson
che si prenderà
cura di te. Io sono così noioso, dopotutto. Non ti
accorgerai della mia
assenza” John non vuole affrontare l’argomento,
glielo si legge negli occhi, ma
lo fa, per Sherlock. Il detective, dal canto suo, vorrebbe solo
schiaffeggiarlo, in quel momento.
“Pensi che mi basti questo per dimenticarmi di te?”
Sherlock è indispettito
dalla sufficienza con cui John sembrava prendere il suo legame verso di
lui.
“Pensi che io possa dimenticarmi di te a causa dei tuoi
rimproveri sul cibo,
sul sonno, sui proiettili contro il muro? Credi che io possa
dimenticare una vita, per questo?".
Sherlock si alza dal letto, incapace di rimanere seduto oltre. Batte un
palmo
contro il muro, per scaricare la rabbia e la tensione.
“Pensavo non ci fosse posto per queste cose, nella tua
testa” John esclama ma
Sherlock non lo guarda in viso mentre lo dice.
“Lo farei se non si trattasse di te” Sherlock poi
dice, voltandosi e
incontrando nuovamente le iridi blu scuro del suo dottore.
“Io conservo ogni
ricordo che possa riportarmi a te”.
John non risponde, e
sinceramente, non sa come farlo. Sherlock non gli ha mai parlato in
quel modo
in tanti anni. Sono parole belle, sentite, vere. Sono la dichiarazione
d’affetto attesa per anni ma che Sherlock non gli ha mai
davvero concesso. Crudele
è il destino che ha fatto sì che lui decidesse di
farlo in quel momento, alla
vigilia del suo viaggio.
“Io non resisto due
anni”
Sherlock continua ancora. “Io non so se posso
reggere”.
John si alza, e cammina lentamente verso Sherlock, a passo cadenzato,
fermandosi a pochi metri da lui. Tutto quello che vorrebbe è
abbracciarlo,
stringerlo a sé senza lasciarlo mai andare fino alla mattina
dopo, quando i
suoi commilitoni avrebbero dovuto slacciarlo con la forza da quelle
braccia.
Sherlock però non vuole. Non ha mai voluto e mai lo
vorrà. Sherlock è freddo,
anche se in quel momento sembra il più fragile degli uomini,
e John non vede la
luce attraverso quella lastra di ghiaccio.
“Tu sei forte, Sherlock. Lo sei sin da bambino”
John afferma, sicuro. “Ti
ricordi vero? Ti ricordi quando mi parlasti della tempra, del coraggio
e di ciò
che avevano pensato i tuoi per te?”.
Sherlock, inaspettatamente, sente l’incredibile impulso di
ridere, di ridere
forte, convulsamente, come colto da un’insana frenesia del
tutto inappropriata.
Com’è strana la vita, pensa. Quanto sono sciocche
le persone, a volte.
Lo fa.
Ride, ride e ride, sempre
più forte. John rimane in silenzio, la bocca socchiusa per
lo stupore.
“Io non conosco più quel bambino, John”
il detective afferma, con fare
accusatorio e grato allo stesso tempo. Fino a quel momento Sherlock non
avrebbe
mai immaginato che due emozioni tanto contrastanti potessero convivere.
“Qualunque mostro i miei
genitori
avessero creato, ha cominciato a scomparire pezzo dopo pezzo dopo aver
incontrato te”.
L’atmosfera sembra diventare quasi eterea, surreale, come se
la luce della
lampada si fosse espansa fino a diventare una nebbiolina solida e
palpabile.
John fissa Sherlock e Sherlock fissa John, senza distogliere mai lo
sguardo.
Studiano ogni particolare dei loro visi che conoscono ormai a memoria,
in ogni
imperfezione e perfezione. Il
dottore
sospira, infondendosi coraggio, deciso in quel momento ad abbattere,
adesso che
sapeva di poterlo fare, l’ultimo solido mattone di quel muro
impenetrabile che
li aveva sempre separati.
Sherlock lo capisce quasi
immediatamente ma non si allontana quando John si ferma a pochi
centimetri da
lui, i loro petti tanto vicini la potersi sfiorare e i loro respiri ad
accarezzare ognuno le labbra dell’altro.
Non si sottrarrà, non adesso, non più. Non
capisce perché lo abbia fatto per
tutti quegli anni, non vuole pensarci ma non può farne a
meno. Improvvisamente
capisce, ed è tutto così chiaro che respinge la
voglia di picchiare
violentemente la testa contro il muro per non aver visto prima qualcosa
di
talmente ovvio e vivido.
Lo diceva sempre nonna Holmes.
“Per quanto tu possa amare qualcosa
o qualcuno,
non ti accorgerai mai di quanto significhi in realtà per te
come nel momento in
cui stai per perderlo.”
“Sherlock”
John sussurra e
Sherlock può quasi sentire ogni lettera del suo nome incisa
sulle sue labbra
dal respiro dell’uomo di fronte a sé.
“Posso abbracciarti?”.
Sherlock lo guarda, e
riesce quasi a specchiarsi negli occhi dell’altro. Nessuno
gli è mai stato
tanto vicino da permettergli di farlo.
E’ un sussurro, un respiro, un battito di ciglia.
“Sì”.
John lo stringe a
sé con
forza e con dolcezza allo stesso tempo, afferrando la sua camicia e
stringendola così forte da rischiare quasi di strapparla, ma
a Sherlock non
importa, non in quel momento, e dubita che potrà mai
importargli. Sherlock alza
le braccia e ricambia l’abbraccio con tutta la forza che
riesce a trovare,
artigliando anche lui la giacca militare che John indossa,
così che quella
stretta non possa slacciarsi, così che il contatto tra i
loro corpi sia così
stretto da togliere il respiro, tanto forte che da uno sguardo lontano
avrebbero
potuto scambiarli per una persona sola. E’ davvero caldo,
caldissimo, ed è un
calore che Sherlock non ha mai provato, nemmeno con sua madre, o con i
nonni o
con suo fratello. E’ tutto su John, tutto gira intorno a John
e nient’altro
esiste, nient’altro ha importanza. Sherlock si da del folle,
dello stupido, del
cieco per non averlo fatto prima, ma sa che il passato è
passato e non si può
più tornare indietro. Si rifarà con il futuro, un
futuro che vede migliore,
nonostante lo stia lasciando andare, nonostante abbia rinunciato ormai
a far
desistere John da ciò che vuole fare. Sa che non sarebbe
giusto, sa che deve
lasciarlo partire, perché è ciò che
lui vuole.
Quando si separano, John non allenta la presa su quelle braccia,
lasciando
scendere le mani fino a intrecciare le dita con quelle di Sherlock, che
non
manca di ricambiare il gesto. Inaspettatamente, John avvicina le sue
labbra a
quelle del suo migliore amico ma non le bacia, come Sherlock si aspetta.
Sfiora appena l’angolo della sua bocca, amorevole, con una
dolcezza che rasenta
la devozione.
“John…” Sherlock sussurra appena,
sfiorando il viso accaldato di John con una
mano.
John sorride, e stringe la presa sulla mano di Sherlock.
“Quando tornerò. Te lo prometto” dice
sicuro, ancora sorridendo. “Sarà un
incentivo a rimanere vivo”.
A quelle parole, il cuore di Sherlock quasi si ferma. Non vuole pensare
a
quell’eventualità, non vuole nemmeno concepirla.
Non può succedere, non deve accadere. John deve tornare, per
se stesso, per le
vite che attendono solo lui per essere salvate. Deve tornare per lui e
per loro.
Sherlock accarezza la
pelle delicata dei polsi di John. Sente il suo cuore che batte, forte
come il
suo. E’ un gesto semplice ma intimo, quasi più di
un bacio.
“Quell’abbraccio” John bisbiglia,
emozionato. “E’ stato il regalo più
meraviglioso che tu potessi farmi”.
Sherlock non risponde a
parole, ma lo fa a suo modo, nella maniera che gli riesce meglio. Lo
conduce
verso il suo letto e scosta le coperte, lasciando che John vi si sdrai,
per poi
raggiungerlo. John lascia passare un braccio sotto le sue spalle e
Sherlock
appoggia il capo alla sua spalla, cingendolo alla vita
nell’esatto momento in
cui John lo stringe a sua volta.
Sherlock si sente
protetto, sicuro, completo. Sherlock si sente invulnerabile tra le
braccia di
John e legge negli occhi del suo migliore amico che lui pensa la stessa
cosa.
Sherlock sarà con lui, anche a chilometri di distanza, anche
sotto il calore
cocente del deserto, tra l’odore metallico del sangue dei
feriti e il rumore
assordante delle bombe e dei proiettili.
Sherlock sarà sempre vicino a lui, anche se lontano.
E’ un paradosso che
Sherlock avrebbe trovato stupido in passato, ma in cui adesso crede
come fosse
un sacro dogma.
E questo, lo sa anche John. Si addormentano, abbracciati, incuranti
della
posizione scomoda che li sveglierà doloranti il mattino. A
loro non importa
nulla. L’importante è non lasciar fuggire quel calore. In quell’intreccio
caldo e confortante, Sherlock e John
saranno sempre uniti.
A Sherlock Holmes non erano
mai piaciuti gli abbracci, fino al momento in cui qualcuno era piombato
nella
sua vita a mostrargli quanto potessero essere meravigliosi, con la
persona
giusta accanto.
Sherlock Holmes non aveva
mai avuto bisogno di un abbraccio,
e
forse, finalmente, aveva capito perché.
E il motivo era semplice,
ovvio, cristallino, come se qualcosa dentro di lui lo avesse sempre
saputo.
Semplicemente perche l'amore di Sherlock, il suo cuore e il calore del suo abbraccio non avevano mai
trovato qualcuno talmente importante da poterli meritare.
L'amore di Sherlock, in
tutte le sue mille splendide forme troppo a lungo rimaste nascoste,
aveva
soltanto aspettato John, per tutta la vita.