Mercy Street
1. More Cocaine
To Kill The Pain
Lo
sparo aveva fatto vibrare l’intero vicolo come il rintocco di una campana.
L’uomo era crollato a terra in un fruscio di stoffe preziose, un completo
firmato bianco comprato per l’occasione.
Lei
pensò che sarebbe andato bene anche per il suo funerale.
Un
paio di gatti si erano affacciati dagli angoli vicino ai bidoni. I loro occhi erano brama, desiderio puro, cupidigia annegata nella fame.
Il giallo risplendeva nella poca luce presente, come oro
colato. I loro nasi si muovevano, attenti. Odore di sangue.
Cadavere,
cibo. La sopravvivenza.
L’avevano
intuito, per primo l’olfatto. La ragazza davanti a loro procurava cibo, senza
aver bisogno di mangiarlo.
Era
Dio e Lucifero insieme, potere e disperazione.
La
mano non tremava, e teneva l’arma in una stretta salda. Gli occhi erano ghiaccio puro, freddi come solo una pietra poteva
essere.
La
piega delle sue labbra, indecisa, era dritta e severa. Per quanto fosse giovane, sembrava consumata da secoli di vita
immortale. Congelata nel suo tempo. Immobile, passiva.
-
Oh… ah… n- no… - l’uomo rimasto in piedi aveva gli occhi piantati sul corpo
immobile del compagno, e nemmeno si accorgeva dell’urina che scivolava
fluidamente fino in terra. – Tu… mostro! –
-
Sciocchezze. – sibilò lei. – Io non sono un mostro. –
-
Lui non centrava niente, Eji, lui…
lui era solo mio fratello! – la voce era isterica, gli occhi sbarrati e
consapevoli. Vedevano la morte avvicinarsi piano, al ritmo del proprio respiro.
Il
sangue del fratello gli aveva toccato la suola, sporcandola. Lui si ritrasse in
un sussulto.
-
Vedi? – sussurrò la ragazza, spostando i capelli dal viso. – Il mostro, qui,
sei tu. –
-
Ah, no… no, no, mio fratello… tu, l’hai… - lei l’interruppe.
-
Tu l’hai ucciso. – disse. – Tu, tu sei un mostro. –
-
Ridammi mio fratello! –
Con
un urlo, le si gettò addosso. Lei alzò la pistola fino
alla sua testa. I gatti si sporsero verso di lei, gli occhi sbarrati ed
attenti.
Tirare
il grilletto era un’azione che le veniva naturale come respirare. Non c’era più
consapevolezza di quel gesto, se non dopo il risveglio.
Non
badò al sangue che le si era dipinto come un quadro
sul viso, non badò nemmeno alla mano del cadavere che era riuscita a giungere
fino al suo piede, e che vi si era appoggiata.
Lei
la scansò con un colpo netto della caviglia.
-
Miaaao. –
I
gatti erano usciti allo scoperto, e già si strusciavano senza pudore sui
cadaveri, macchiandosi di rosso vermiglio. Nevicava. Nevicava e la neve non
riusciva a purificare nulla di quello scempio.
La
ragazza guardò i piccoli denti dei felini sbranare la carne come fosse stata una lisca di pesce. – Beh, buon appetito. –
Karin
dette le spalle al macello che aveva contribuito a creare, i movimenti un po’
bruschi per sembrare naturali. Nella folle corsa che s’impose, nonostante le
gambe non riuscissero a seguirla, sentì l’urto contro qualcosa.
Schivò verso destra, gli occhi duri come roccia, cercando disperatamente la
neve.
Quella
neve che aveva il potere di cancellare tutto.
***
- Uchiha? -
Aveva appena voltato la
testa, gli occhi fissi su un punto imprecisato alle sue spalle. Gli era
sembrato di aver sentito qualcosa, come il rintocco della campana di una
chiesa.
Ma probabilmente s’era semplicemente sbagliato.
- Nulla. Andiamo – Si limitò a mormorare, riprendendo a camminare.
Dal cielo incominciava a cadere una pioggia sottile, fitta come aghi. Con quel
freddo, avrebbe dovuto nevicare. Sarebbe stato giusto che nevicasse. Alzando
gli occhi, poté vedere l’enorme blocco antracite dell’Edificio H.
Così lo chiamavano loro, almeno.
Non era altro che uno squallido condominio della
periferia di Tokyo. Le inferriate erano tutte calate, la porta sprangata e i
muri coperti di graffiti. Anche all’interno, avrebbe
potuto constatare chiunque, entrandoci. Sasuke
scavalcò un cumulo di rifiuti, seguendo senza una parola il suo compagno,
addentrandosi in un corridoio buio e stretto. Da lì, arrivarono a un piccolo montacarichi, che li portò sulla sommità del
tetto.
Il vento spirava gelido,
e Sasuke si alzò il bavero del cappotto nero.
- Il nostro contatto dovrebbe arrivare a momenti – borbottò Kiba,
con un’alzata di spalle, girando nervosamente per il piano.
- Che
c’è, Inuzuka, litigato con la tua ragazza? –
Entrambi si voltarono, vagamente sorpresi, all’udire quella terza voce.
Non si erano accorti che fosse già lì.
- Shino
-, mormorò il ragazzo, a mo’ di saluto. Sasuke si
limitò ad un cenno del capo.
- Ho il vostro prossimo
incarico. In questa busta troverete i dettagli. E’ di
grado A. In ogni caso, tra una settimana, a tre isolati da
qui, nel cinematografo abbandonato, la solita ora. In caso avreste
bisogno di armi o materiale di supporto, cavatevela da
soli. Posso fornirvi di un numero limitato di banconote. Se dovesse venir compromessa la vostra salute fisica o dovreste essere
riportati per via legale, l’Organizzazione non potrebbe intervenire né
tutelarvi in alcun modo. E’ tutto. -
L’uomo accennò un piccolo
inchino, e si voltò. I due lo videro sparire, calandosi dall’edificio grazie a una scala antincendio posta lateralmente.
- Quel tipo è strano forte, io l’ho sempre detto. Ripete ogni volta lo
stesso discorso. Come se non sapessimo già… -
- Limitati ad aprire quella cazzo di busta -, lo
interruppe Sasuke, accendendosi una sigaretta. Inalò
profondamente, il fumo acre gli invase la gola.
Con un sospiro, Kiba stracciò letteralmente la busta, sedendosi al suolo,
incurante della sporcizia e dell’incerimoniosità
dell’azione, esaminando attentamente le carte, tra documenti, biglietti,
cartine e dati di vario genere, rigirandole e rileggendole numerose volte, in
silenzio.
Questo insospettì
vagamente Sasuke. Conosceva il suo collega, e
soprattutto conosceva bene la sua solita e snervante abitudine di commentare ad
alta voce, in maniera irrispettosa e più o meno
volgare, ogni lavoro che venisse loro assegnato. Questa volta, invece, anche
dopo aver posato la busta, convenientemente riordinata e pronta alla sua
supervisione, non parlò. Non un commento. Non uno.
La situazione era snervante. E per quanto ci fosse
solo una cosa che riuscisse a farlo sfuggire dal nervosismo, ero ovvio che al
momento gli fosse negata.
- Allora? -
Con
esasperante lentezza, il ragazzo alzò il volto, lasciando che le ciocche di
capelli scuri si scostassero dal viso. Fu solo in quel momento che Sasuke vide
un ghigno appena accennato farsi spazio sul volto dell’Iunuzuka, come un taglio sanguigno sulla carne.
Non gli piacque.
Ma non ebbe molto tempo per rifletterci su. Con un movimento
fluido, il ragazzo lanciò il plico di fogli verso di lui, permettendogli appena
di afferrarlo al volo.
-
E’
interessante, Sas’ke. Molto interessante. -
D e c i s a m e n t e non gli piaceva.
***
-
Certo che le persone patetiche le trovate sempre voi,
mh? –
Si
era annunciata nello studio com’era solita fare, prorompendo nel silenzio più
assoluto con la stessa reticenza di un tuono nel mezzo della tempesta. Tutto sommato, osare le piaceva.
-
Karin. Già finito? – la voce della donna era morbida
e flautata.
-
Mi pare ovvio! – sbottò lei. – Due pezzenti, dico, due
pezzenti senza palle. State cercando di farmi fare
della ginnastica gratuita? – il tono della voce era progressivamente aumentato.
L’ottava finale costrinse la donna a stringere gli occhi, mentre distoglieva lo
sguardo.
Odiava quando Karin era arrabbiata.
-
Adesso non ti scaldare. Ci hanno detto di farli fuori,
così sono andata sul sicuro. –
La
ragazza nicchiò con un certo nervosismo. La sua relazione con Tsunade non era mai stata particolarmente distesa, ma
ultimamente le venivano affidati dei casi talmente
inutili, che non poteva fare a meno di sentirsi offesa. Lei era un’assassina di
prim’ordine, dalle abilità indiscusse.
Non
poteva sopportare quel senso di frustrazione che s’imponeva in lei
ogniqualvolta che un caso veniva risolto senza
divertirsi.
Adrenalina.
Era quello che cercava, bramava, desiderava sentire fin dentro al proprio midollo. Quella sensazione particolare,
totalmente liberatoria, orgasmica. Alzare gli occhi verso il
cielo, e sorprendersi nel vedere mille forme geometriche senza peso, libere.
Era
quello, che Karin voleva.
E
aveva solo due modi per ottenerlo.
Uccidere,
e sniffare.
E
se dal primo ormai non venivano più motivazioni vere,
allora sarebbe stata costretta a ricorrere alla seconda ipotesi. Cocaina. Quel bianco, quella purezza, quel particolare odore.
-
Karin? –
-
Sì? – riportò lo sguardo sulla donna. Tsunade era
bionda, procace, dallo sguardo pigro solo all’apparenza. Quando la si osservava attentamente, quegli occhi apparivano per
com’erano in realtà: spietati. Sapevano colpire e fulminare le proprie vittime
senza risparmiarle.
-
Non volevo rischiare, davvero. Mi spiace solo d’averti fatto sprecare tempo. –
-
No, fa niente. –
-
Ti sei fatta di nuovo? – Karin chiuse gli occhi. La
stavano tradendo. – No. No. –
-
Insomma, fatti i fatti tuoi, capo. –
Tsunade snudò i denti in un sorriso ben poco amichevole. – Certo. In ogni
caso, volevo affidarti un nuovo caso. –
Karin
alzò gli occhi su di lei. Si confrontarono per un istante, silenziose. Infine,
la ragazza sventolò una mano con fare noncurante. Era il segnale. Il capo si
schiarì la gola, e cominciò a parlare, mentre buttava fogli su fogli sulla propria scrivania.
Davanti
agli occhi di Karin sfilarono attimi di vita rubata,
fotografie sfocate, fascicoli sottratti di nascosto.
-
Ecco, si tratta di un pezzo grosso. Particolarmente grosso, e anche ben
nascosto. – la ragazza si ridestò, improvvisamente attenta.
-
Davvero? –
-
Se lo uccidi, non dovrai nemmeno preoccuparti dal
cadavere. –
-
Non ha senso. Cosa vuol dire che non dovrò
preoccuparmi del cadavere? –
Il
ticchettio dell’orologio risuonava macabro all’interno della stanza. – Abbiamo
chi lo farà sparire. –
-
Uno dei nostri? – le sopracciglia della mora erano sempre più corrugate.
-
Non uno dei nostri. No, decisamente no. –
-
Ma non ha senso. Dannazione, capo, non ti posso sopportare quando ti comporti così. – grugnì lei,
sbattendo le mani sulla scrivania. – Sei così snervante! –
-
Fatti i fatti tuoi, Karin. Sono cose che vanno al di là dei tuoi mezzi. – l’occhiata della donna la scrutò
dall’alto al basso, un mezzo ghigno sulle labbra.
-
Va bene, certo. I cavoli miei. Ammazzo gente, ovvio
che mi faccio i cavoli miei. Solo, vorrei sapere chi devo ammazzare! – di
nuovo, il tono era andato in crescendo. Tsunade si
coprì le orecchie.
-
Si chiama Sasuke Uchiha, quello nelle foto. E ora sparisci, sparisci! –
Ancora
prima che avesse finito la frase, la porta si era richiusa davanti a lei, in
religioso silenzio. Karin era dannatamente
silenziosa, a volte.
Una
foto volteggiò nell’aria fino al pavimento. Infine, toccò il suolo e lì si
afflosciò, il dorso rivolto verso l’alto.
Tsunade sospirò, buttandola nel camino accesso. Sorrise brevemente, mentre
il viso di Sasuke Uchiha si contorceva lentamente tra
le fiamme roventi, fino a sparire in brandelli di cenere.
* * *
Di nuovo quel suono.
Sasuke girò nuovamente la testa, stavolta vagamente infastidito. Era certa di aver udito il chiaro, limpido
rintocco di una campana. Ma non ricordava ci fossero
chiese, in quella zona di Tokyo.
- Sasuke?
Che cavolo fai? -
Lui non rispose,
limitandosi a continuare a fissare il cielo grigio sopra di lui.
- Beh, io adesso ho da
fare. Tu che fai? -, borbottò Kiba, grattandosi la
testa.
-
Me ne vado. -
L’Inuzuka sbuffò, scrollando le spalle: non poteva certo
aspettarsi qualcos’altro da uno come Sasuke Uchiha. Senza stare troppo a pensarci, si incamminò verso la direzione opposta: doveva arrivare in
un bar nella zona di Shibuya, ma ovviamente non aveva
la più pallida idea di come raggiungerlo. Guardò l’orologio. Era già in
ritardo.
Non
che una come Hinata si sarebbe potuta arrabbiare, ovviamente.
Non
era esattamente il giorno, adatto, quello.
Sasuke
corrucciò appena le sopracciglia, rigirandosi la matita fra le dita. Il parco
era spoglio e grigio, pallido riflesso di un cielo altrettanto inespressivo.
Rami secchi, volti pallidi e panchine vuote sembravano
il suo unico soggetto disponibile, quel giorno. Aveva voglia di fare un cazzo di disegno. Solo uno stupido disegno, e poi si
sarebbe sentito libero di andare a casa. Non avesse
fretta.
Con
un sospiro di frustrazione, scagliò il pezzo di grafite lontano, facendolo
finire nel fango di una pozza a una decina di metri di
distanza. Con un gesto secco, si alzò, pronto a
incamminarsi verso il suo appartamento, senza neanche preoccuparsi di
recuperare il blocco di fogli gialli.
Fu
allora, che lo sentì.
-
Hinata-chan! -
La
ragazza dai lunghi capelli neri, legati in una lunga
coda, guardò verso sinistra con la coda nell’occhio, quasi timorosa di voltarsi
completamente.
-
Oh… Kiba-kun, che piacere vederti. -, mormorò con un
sorriso appena accennato, l’usuale rossore che già le colorava le gote.
- Scusami per il ritardo
-, disse in fretta il ragazzo, dandole un veloce bacio sulle labbra.
La reazione non si fece
attendere: il suo volto assunse una colorazione rosso acceso, e i suoi occhi si
velarono leggermente, mentre le sue mani si torcevano, nervose.
Kiba non riuscì a trattenere un sorriso che
assomigliava più a un ghigno. Quella ragazza era…
Terribilmente divertente. Peccato non svenisse più,
com’era successo un paio di volte all’inizio.
- Com’è andata oggi?
-
- Beh… Mio padre non è
sembrato molto soddisfatto del mio ultimo risultato ai test, e… -
- Ma
hai preso il massimo. – la interruppe subito Kiba – Hai preso il voto più alto. Che aveva da rompere stavolta? -
Hinata abbassò di nuovo la testa, mormorando qualche
parola. La verità era che neppure lei riusciva a capire, e questo Kiba lo sapeva. Semplicemente, non sopportava vederla così
sottomessa e rassegnata. Non aveva mai capito le persone senza un minimo di amor proprio. Le disprezzava, quasi.
Ed Hinata rientrava
perfettamente nella categoria.
Allora, perché passava il
suo tempo con lei? Questo se l’era chiesto più di una volta, e tornò a
domandarselo anche adesso, mentre giocava distrattamente con una ciocca dei
suoi lunghi capelli corvini, assorto.
Si annoiava
terribilmente.
Questa era la conclusione
alla quale era giunto, dopo intensi minuti di dedita riflessione
sull’importante argomento. Uccidere, torturare, distruggere – anche il sesso –
nulla sembrava destargli più vero interesse. Tutto era oramai scontato e privo di attrattiva.
Giocare con la dolce Hinata-chan, per il momento, era
il suo trastullo preferito.
Un corvo.
Che diamine ci faceva lì, in mezzo a quel parco
grigio, sotto un cielo grigio, quel dannato corvo nero?
Il suo non era un nero opaco, spento, sembrava quasi brillare in
quell’oscurità.
Un corvo. Uno stupido
corvo. Ma era comunque il soggetto più interessante
che avesse davanti.
Prima ancora che Sasuke potesse prendere un'altra
matita però, l’uccello aveva emesso un acuto gracchiare, e s’era alzato in
volo, rimanendo a rasoterra.
- Se
pensi di fuggire… -, mormorò fra sé e sé il ragazzo, seguendo l’animale, senza
perdere per un solo secondo i suoi movimenti.
Il corvo s’innalzò
nell’aria, scivolando fra le vie principali, per poi tornare a toccar il suolo,
saltando fra i rifiuti dei vicoli più stretti. Lui non si fermò neanche a
riflettere. Stava seguendo un animale, correndo pur di rimanergli dietro.
Finché, si accorse di essere entrato in un vicolo cieco.
Era in trappola.
Dopotutto, perché avrebbe dovuto preoccuparsene? Non era come se ci fosse
qualcuno, sulle sue tracce, no…?
Il rumore di una lattina
– no, era un pezzo di ferro più pesante – lo fece
voltare di scatto, stranamente nervoso.
Il corvo lo fissava con
occhi ciechi come punte di spillo, opache nella
semioscurità.
Fu solo allora, che sentì il rumore dei passi.
Qualcosa si stava
avvicinando.
Alzò gli occhi prima
verso il cielo – ancora grigio, ancora grigio – e poi
la strada, davanti a lui – grigia, sempre grigia – e poi…
E poi vide.
Le piume nere del corvo
vorticavano nel vento: lui gracchiò, una sola volta.
Passi. Era vicina.
<< Cerchi qualcosa…
Sasuke Uchiha? >>
Avanzava con passo
felpato, un sorriso distorto congelato sul volto, i capelli neri come le piume
del corvo, gli occhi scintillanti nell’oscurità.
Sasuke l’aveva riconosciuta ancora prima di udirne la
voce, e istintivamente, la mano destra andò verso la
fondina della pistola, mentre un ghigno gli si formava sulle labbra pallide.
Era lei, certo.
Come dimenticare quello
sguardo ghiacciato, sprezzante, che sapeva bucare la fotografia ed arrivare fin
dentro al cervello, oltrepassando la pelle?
Non c’era pietà in quegli
occhi, che bruciavano paura come carta.
Il terrore era reale,
solo a guardarla.
- Karin
Akamuri. –
Era lei, certo.
Come avrebbe potuto non
riconoscerla?
Quegli occhi, quegli occhi…
Vide quegli occhi, e non
riuscì più a chiudere i suoi.
***
Si
erano studiati per dei lunghi istanti, toccando e sondando le proprie coscienze
reciprocamente, senza permettere all’altro di spingersi fin dove erano nascosti
i propri segreti più profondi.
Karin
crollò brevemente il capo, seccata dalla situazione che si era venuta a creare.
Detestava cedere una parte di sé solo per far capire all’avversario quello che
non era. Lei non era buona, non era dolce.
Lei
non era pietosa.
Questo
Sasuke Uchiha pareva averlo capito molto bene, perché
aveva immediatamente estratto la pistola dalla fondina, lasciando tutto il
braccio destro teso, pronto all’attacco qualora fosse stato il caso di
difendersi.
Effettivamente,
doveva ucciderla, non farsi uccidere. Ma, in ultima
analisi, aveva compreso immediatamente che quella ragazza – quell’assassina –
non si sarebbe certo inginocchiata davanti a lui chiedendogli di spararle senza
alcuna esitazione, come espiazione per i propri
peccati.
Difatti,
lei non lo fece.
-
Vuoi qualcosa da me, Uchiha? –
Il
sorriso era fisso sul volto, e sembrava non avere età. Aspettava una risposta,
ma pareva che non le importasse affatto, come se un
“sì” o un “no” per lei avessero avuto lo stesso ed identico valore. Il ragazzo
non poté far a meno di ammirarla. Il brivido che gli scorse
lungo la schiena, tiepido, gli fece capire quanto temesse quella ragazza, e
quante poche possibilità avrebbe avuto di ucciderla così, al primo colpo. Lei sapeva, lei lo aveva capito al primo sguardo.
Lui
invece, di lei, non aveva capito quasi niente.
C’era
istinto nei suoi occhi, e un breve bagliore di disperazione, che si accendeva e
si spegneva al suo comando. Non perdeva quasi mai il controllo, e se lo faceva,
era sempre sola.
-
Voglio qualcosa, sì. –
Lei
sospirò, alzando le spalle. – Allora, questa è una lotta. –
Sasuke
le gettò uno sguardo preoccupato senza poterne fare a meno. – Cosa? Cosa vuoi dire, con questo? –
Tirò
fuori dalla tasca dei pantaloncini un piccolo
foglietto, e lo tese verso di lui, in bella mostra di sé. – Devo uccidere
questa persona. Scommetto che la conosci. –
Aveva
scelto l’unica foto di tutto il dossier in cui sorrideva, perché detestava
l’idea di vedere visi seri ogni volta che cercava
sfumature nel volto di chi uccideva. Ricordava bene la prima volta che aveva
ammazzato qualcuno, l’odore della polvere da sparo e il tremito incontrollato
della mano. Un sorriso. Un blando sorriso che sapeva di
commiserazione tanto quanto le lacrime che le cadevano sulle labbra. La
donna aveva teso la mano verso di lei, come per chiederle di salvarla, trarre in
pace la sua anima, e requiescat in pace.
A
quel tempo, Karin non aveva capito niente di quel
gesto, o forse aveva tentato miseramente di nasconderne il significato, tanto
più che, tornata a casa, si era data alla cocaina.
Escludendo
quella volta, invece, tutte le persone con cui si era scontrata l’avevano
fissata con un’espressione
istupidita che le aveva sempre dato sui nervi. A quel punto, sparare si
rivelava più facile del previsto.
Aveva
sempre creduto che, qualora qualcuno avesse deciso di spararle un colpo in
fronte, netto e senza sbavature, non si sarebbe preoccupata
più di tanto. Non c’era niente che si sarebbe lasciata alle spalle, una volta
morta.
I
suoi genitori erano morti di vecchiaia. Era figlia unica.
Aveva
un corvo, certo. Ma probabilmente si sarebbe
avvicinato al suo corpo senza vita giusto per beccarne un pezzettino ancora
fresco, e niente di più. Amava quell’animale, perché
non era amichevole nel senso stretto della parola. Aveva tutta una propria
ipotesi riguardo al suo comportamento, ma preferiva trastullarsi
nell’ignoranza, continuando a credere che non l’amava, e stava con lei solo per
avere del cibo.
Provava
dolore. Difatti, per quello c’era la cocaina. Al
dolore degli altri avrebbe pensato lei.
Dunque,
Karin avrebbe preferito vivere, ma anche morire era
un compromesso accettabile.
Il
viso di Sasuke Uchiha,
però, dimostrava tutto il contrario. Guardava se stesso in quella foto rubata mentre un senso di paura crescente gli afferrava le
viscere.
Il
destino giocava pareva ricordarsi di lui solo quando
si trattava di esigere un conto per favori che lui non aveva mai ricevuto. –
Quello sono io. –
Lei
rise. – Sei sempre così perspicace? – ironia beffarda e graffiante
che usciva dalle labbra come veleno. – Davvero, rischio di commuovermi. –
Il
silenzio li aveva avvolti nella sua grottesca misericordia e si era dunque
limitato ad attendere, soccombendo infine solo al corvo, che prepotente aveva
fatto ritorno sulla scena. Le piume erano nere come il cielo, e gli occhi
gialli come la luna.
L’uccello
era la notte, lei la morte. Giungevano spesso affiancate, come vecchie signore
che si sostengono vicendevolmente.
-
Così devi uccidermi. Ti hanno affidato questo incarico,
giusto? Pensi di farcela? – la voce gli uscì vagamente raschiata. Contorse il
viso in un’espressione di disgusto.
Debole.
-
Un motivo. Trova un solo motivo per cui dovrei fallire.
–
-
E’ curioso che tu mi chieda questo perché, vedi: io devo ucciderti. –
Non
sia mai detto che c’è giustizia a questo mondo. Eppure Sasuke, in quell’annuncio, ci vide una sorta di capricciosa ripicca. Quella del bambino viziato che non vuol mai essere da meno.
Il
viso di lei si tinse d’una delicata sorpresa, o forse
semplicemente di amara constatazione. Tuttavia non si
mosse inquieta sui suoi piedi, e nemmeno tentò una precipitosa fuga dandogli le
spalle. Si limitò a fissarlo, rigidamente composta nella posa che aveva assunto
da ormai parecchi minuti, mentre il corvo zampettava fra i due come ultima
barriera.
-
Ironico. –
-
Drammaticamente tale. –
Fu
come un segnale, un tacito accordo fra i due. Entrambi puntarono
le proprie pistole contro l’altro, la testa incassata tra le spalle e le gambe
divaricate a fornire un appoggio saldo. Parevano aspettare un unico cenno
finale che decidesse l’apertura delle danze.
Karin
ridacchiò.
Sasuke
strizzò gli occhi senza muoversi di un millimetro. La situazione lo
innervosiva. Il fatto di aver iniziato la rincorsa di un potenziale modello per
disegnare e d’esser finito a puntar la pistola contro il proprio assassino lo
innervosiva. Quel cielo di un miscredente color argento
lo infastidiva. Quella ragazza lo infastidiva. Quel sorriso lo infastidiva.
-
Che cazzo ridi, tu? –
-
Adrenalina. –
Gli
occhi erano scuri e contratti, gli spasmi dei muscoli del viso sempre più
evidenti, tanto che si sarebbe detta in procinto di mettersi a piangere, o di
scoppiare in una risata estenuante, senza riposo. – Si chiama così, no?, quella cosa che ti fa impazzire e all’improvviso non
senti più nulla, dolore stanchezza o frustrazione. Io la cerco. –
-
Cosa… -
Si
scosse in un attimo, un istante in cui improvvisamente tutto
il suo corpo prese vita. – Muori. –
Lo
sparo non si fece attendere, e sibilò per il vicolo come un ringhio velenoso. Sasuke riuscì a scansarlo per un istante, tanto che la
manica destra della sua camicia si tinse di un lieve color rosso. Tutto sommato, era riuscita a colpirlo.
-
Mi hai mancato. – il tono era derisorio.
-
Forse perché volevo mancarti. – sarebbe potuta suonare
come una replica orgogliosa, ma il timbro della voce era pacato, privo di
divertimento.
In
quel momento, lui capì che aveva detto il vero.
Lo
scintillio negli occhi della ragazza facevano intuire
un altro tentativo imminente e – questa volta – preciso, tanto che l’istinto di
sopravvivenza ebbe il sopravvento. Karin lo vide
allontanarsi precipitosamente, in un buffo movimento zigzagato, per evitare
d’esser colpito. Inutile, dato che lei non aveva intenzione di muovere un dito.
Rimase
immobile fino a che persino il rumore dei suoi passi non fu sparito oltre i
vicoli della città. Infine richiamò a sé il corvo: quello venne appollaiandosi
sulla sua spalla e incassando la testa tra le due ali, avvolto nel torpore del
sonno.
Karin
ridacchiò. – Caccia grossa, Krar. –
Non
cadeva neve, questa volta, ma poco male: sapeva dove andare a cercarla.
***
-
Cosa vuoi fare, dopo? -
Hinata
era arrossita violentemente, rovesciandogli praticamente
addosso il succo di frutta che stava lentamente sorseggiando. Kiba non poté trattenere un’espressione disgustata. Succo di frutta. Nella sua birra. E ancora una volta, si chiese come facesse a sopportarla,
quella ragazzina.
Dissimulando
il fastidio come poté, si limitò a sospirare, leccandosi le labbra.
-
Andiamo, Hinata-chan, non è necessario vedere frasi
equivoche in ogni cosa che dico. Non intendevo nulla di strano, ma, se vuoi… -
lasciò sfumare la frase, godendosi il volto sconvolto della ragazza.
-
Kiba-kun…! - fu l’unica cosa che riuscì a balbettare
lei.
Prima
che potesse aggiungere altro, il cellulare di Hinata squillò, di un suono sibilante e appena udibile. Il
volto della Hyuuga subito si
rifece serio, e incominciò a rovistare nella borsa alla ricerca del suddetto
oggetto, buttando a terra metà della sua roba a terra nel processo.
-
Sì. – fu l’unica cosa che rispose, autorizzata la conversazione.
Seguì un lungo silenzio. E Kiba sapeva perfettamente cosa
doveva significare.
Quando lei ebbe finito,
si limitò a rimanere a fissarla, quasi sfidandola a rompere quel
silenzio prima di lui. Dopotutto, a Kiba
piacevano le vittorie facili.
- Allora? -
Lei si morse le labbra,
abbassando il volto. Per quanto non potesse vederle, era sicuro che si stesse
stringendo le mani fra di loro.
Leggere il corpo umano,
era di una facilità disarmante, per lui.
Quello, significava ti sto nascondendo qualcosa.
- Mi hanno convocata al…
Secondo blocco, nella periferia ovest. Devo essere lì tra m-mezz’ora,
quindi sarà meglio che vada. -
- Sì. Sarà meglio che tu
vada. -, rispose lui, freddamente.
La ragazza si alzò,
accennando un inchino. Kiba, con uno sbuffo, la
afferrò per la nuca, costringendola a un bacio pregno
d’un desiderio e una violenza completamente forzati.
Lei era purezza. Le era
neve.
- Ci vediamo, Hinata-chan. -
- A presto, Kiba-kun. -
E lui, l’avrebbe sporcata.
***
Quando
Sasuke giunse alle porte del
bar, pensò che il suo essere vivo fosse stato dettato unicamente da ciò a cui
non aveva mai creduto: un miracolo. Alla fine, la ragazza aveva deciso di non ucciderlo mentre le dava le spalle, e se questo non era da
considerarsi come un colpo di fortuna, probabilmente una vincita alla lotteria
era
Il
Bar dell’Angolo – con le dovute lettere maiuscole – era gestito da un ragazzo
pigro e svogliato che di cognome faceva Nara. Tuttavia era fornito di una
brillante intelligenza e di un carattere che non lo portava ad immischiarsi in
questione complicate, tanto che era sempre uscito pulito da tutti i casini in
cui era stato forzatamente coinvolto.
Quello
che Sasuke Uchiaha odiava
di Shikamaru Nara era la prepotente voglia, in ultima
analisi davvero scomoda, di analizzare tutto quello che gli capitasse
davanti al bancone di marmo dietro al quale era solito nascondersi.
Sfortuna
volle che quella sera il Bar dell’Angolo – con le dovute lettere maiuscole –
fosse decisamente sfornito di clienti: e tutti quelli
che c’erano, erano ubriachi.
Dunque,
il gestore del locale lo aveva inchiodato al bancone con la solita occhiata
apparentemente pigra che gli era propria, ed aveva iniziato a parlare.
-
Scommetto che è stata una pessima giornata. –
-
Fatti i fatti tuoi, Nara. –
-
Allora è stata una pessima giornata. Qualcos’altro da bere? –
-
Uno Scotch. –
Il silenzio intercorso tra la parola e l’avere
il bicchiere in mano era stato interrotto dalla dolce scampanellata che era
solita introdurre un nuovo cliente. E difatti a fianco
di Sasuke si era seduta una persona avvolta da uno
spesso impermeabile beige.
-
Dalla tua ordinazione deduco che tu abbia avuto una
giornata orrenda.
–
-
Forse. Non sarei qui a dirlo a te, comunque. –
-
Ah, certo. In fondo sono solo un gestore di un bar. –
-
Uno qualsiasi. – confermò Sasuke.
-
Per favore… un bicchiere di latte. –
Solo
in quell’istante Sasuke si
accorse effettivamente della donna che gli si era seduta accanto: era alta
forse uno e sessantacinque, capelli neri seminascosti
dal cappello. Schiena ricurva, forse ingobbita dalla stanchezza.
Ma
la voce era quello che più l’aveva scosso, così come aveva scosso anche Shikamaru.
Impastata.
Come
se la ragazza avesse perso poco prima d’entrare nella sala tutta la sua
energia, e si fosse spenta come una lampadina a corto di corrente.
Mani
sporche di polvere bianca. Entrambi avevano capito:
cocaina.
La
donna espose il viso nel bere il bicchiere, lasciando che i capelli le
scivolassero elegantemente lungo la schiena. Lisci, setosi,
appena lavati.
Ecco.
I capelli erano neri come l’inchiostro. L’altezza poteva essere di un metro e sessantacinque. La schiena ingobbita era uno
scherzo della postura. Gli occhi, mentre lo guardavano, parevano aver perso quell’alone di stanchezza riflettuto dalla voce.
Elettricità. Carica.
Una
parola gli scorse nella mente come un lampo.
A d r e n a l i n a
-
Buonasera. – il sorriso era come un ghigno, e in quell’istante
lui capì tre cose: prima di tutto, lei aveva finto. In secondo luogo, era
un’ottima attrice. Terzo, forse i miracoli non esistevano davvero.
-
Akamuri. –
-
Uchiha. –
Quando
Shikamaru aveva visto la cocaina e lo sguardo di Sasuke, aveva capito che il suo Bar dell’Angolo – con le
dovute lettere maiuscole – era nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Ma quando aveva visto i due puntarsi contro delle armi
evidentemente cariche, aveva capito che il suo Bar dell’Angolo – con le dovute
lettere maiuscole – era nel posto peggiore al momento peggiore, con le persone
peggiori.
Si
aspettava di sentir fischiare pallottole da ogni parte, di vedere metà dei suoi
potenziali clienti stesi a terra in un lago di sangue
– notevole perdita economica a parte, non sarebbe stato igienico – e lui stesso
mentre tentava disperatamente di salvarsi la vita, nascosto sotto al bancone.
Dei
due non gli importava assolutamente niente. Che uscissero da quella porta e
regolassero i propri conti al di fuori di essa!
Poi,
tutto d’un tratto, qualcosa era cambiato: lei aveva
posato la pistola sul marmo freddo, e si era avvicinata al moro con fare
animalesco, quasi selvaggio.
In
quel momento, entrambi gli uomini avevano colto quanto disperatamente bella
fosse quella ragazza, le labbra lucide e gli occhi di pietra.
Sasuke
aveva sentito un brivido attraversargli la pelle e scorrere fino alla base
della schiena, in una sensazione che era andata aumentando in maniera
inversamente proporzionale alla lontananza di lei.
-
Adrenalina. – sussurrò lei sulle sue labbra, senza che lui potesse far altro
che rimanere immobile.
Baciarla
fu come essere scaraventato in qualcosa di proibito.
Persino osceno. La lingua di Karin lo invadeva come
un oceano, lo lambiva in ogni suo antro, e lo lasciava senza difese.
Quando
crollarono sul pavimento, lei lo costrinse a rimanere sdraiato, inerte contro i
suoi attacchi. E continuò a dominare, insaziabile,
sfamando ogni sua voglia, per tutta la durata di quella notte.
Fu
estasi e raccoglimento, lotta furiosa dei sensi. Quando
Sasuke la toccava con quelle mani che lei sapeva
avrebbero dovuto ucciderla, Karin sentiva d’intuire
con chiarezza il motivo che l’aveva spinto a baciarlo.
Adrenalina.
Era
folle, certo. Aspettarsi di ricevere amore quando sapeva che
sarebbe venuto solo odio. E difatti non vi
furono sussurri, ne tocchi gentili.
-
Ah… -
I
gemiti erano puro piacere addizionato a dolore, folle
inclinazione per il sadismo che veniva sia da una parte sia dall’altra. Che senso aveva tutto ciò?
-
Perché lo fai? –
Il
sussurro era venuto impastato al sonno, mediato gentilmente dalla stoffa del
cuscino.
-
Hai bisogno di un motivo per scopare, Sasuke? –
-
No. No, non credo. –
-
Allora scopa e ‘sta zitto. –
Lui
le aveva schiaffeggiato violentemente la bocca, e poi se ne era
impadronito, divorandola in un ritmo erotica fatto di tocchi lascivi e
sensazioni quasi opprimenti. Lei aveva opportunamente risposto.
-
Razza di… troia. –
Lei
non aveva risposto, limitandosi a schiacciare il proprio corpo contro il suo.
Fu
come sciogliersi all’improvviso e riacquistare sensibilità di ciò che gli stava
attorno, quando lei rotolò lontano da lui, silenziosamente, scivolando lungo
tutto il perimetro del letto, fino a giungerne alla fine.
Sasuke
l’osservò dargli le spalle, immobile sopra le coperte, la testa sudata poggiata
malamente contro il cuscino. – Non! –
Fin
da quando aveva cominciato a lavorare, la regola base del suo lavoro era stata:
avere sempre un’arma a portata di mano. E per quanto tenere una pistola sotto
il cuscino gli costasse non poche cervicali e qualche
notte d’insonnia, lui era sempre rimasto fedele a quel comandamento.
Tanto
che, finalmente, quella notte parve intravederne la
funzionalità.
Karin
aveva già la mano appoggiata sulla maniglia della porta. – Non devi dirmi
niente? – chiese.
-
Non muoverti. –
Il
sibilo era fatto di ghiaccio e non recava traccia di alcuna
passione trascorsa. Karin sospirò. – Come sei freddo.
–
-
Non muoverti. Non parlare. – Sasuke aveva colto il
suo movimento nel fremito delle sue spalle, e aveva
premuto il grilletto. L’aveva colpita appena sopra la giuntura della spalla.
Lei
aveva lanciato un’imprecazione colorita, e infine aveva attraversato la stanza
in due balzi. Sasuke non aveva mai pensato ad una
possibile reazione.
Lei
lo fissò, per metà fuori dalla finestra. – Crudele. –
Era
una visione folle, a tratti delirante. Saltò fuori in un fruscio di stoffa, i
capelli sudati mossi dalla brezza.
-
Aspetta…! –
Era
volata via.
Come
un corvo.
Fu
la notte più lunga della sua vita.
E
insieme, la più breve.
Quando
Sasuke si alzò, la mattina dopo, pareva essersi
risvegliato da un lungo incubo.
La
piuma di un corvo svettava sul suo comodino.
E
sapeva di risata, quasi quanto di minaccia.
***
Dunque,
questa volta propongo delle FAQ.
L [di Lettore]: Ehi, stai parlando
di questo, ma tu-
No,
sto parlando di cocaina ma non sono una cocainomane
[anche se con questi ritmi scolastici potrei anche approfittarne]. Dunque, se
qualcuno di voi fa uso di cocaina e ho ferito la sua sensibilità, me ne dispiaccio, ma non posso farci niente.
L: Oh, non possiamo compatirti con
questo, facci ridere un po’!
Okok.
Volete sapere com’è nata questa storia? Concepita via cellulare mentre la
sottoscritta era alla fiera di “Fai la cosa giusta!”, e l’altra tizia qui era a
sentire i Finley [ok non è vero, era al concerto in duomo. Però i FinFin c’erano, giuro.]
Tutto
perché la tizia qui era gelosa, e non farò nomi. La
progettazione più accurata è stata uno scambio di:
-
E adesso? –
-
Mh. –
-
Ah! –
-
Sì? –
-
No, niente… -
E
oltretutto di miei – Ho un’idea! – e di – No, fa
schifo. – dell’altra tizia qui.
Però
alla fine siamo qui.
L: Oh, ma come vi siete suddivise le
parti?
L’idea
di base dell’altra tizia qui era – Io l’angst,
tu fai le cose di sesso. –
Non
so perché ma la tizia qui pensa che io voglia solo saltarle addosso. Solo perché ho proposto di far diventare le scene erotiche concrete
per studiare meglio i personaggi. Tsk. Che gentaglia.
In
realtà, i dialoghi tra i due me li sono smenazzati io
durante l’ora di italiano. Sono pure riuscita a farmi
beccare dalla prof, che brava io. Mi ha persino dato un otto e mezzo per lo
stile.
Sono
commossa.
La
tizia qui si è occupata di Sasuke e Kiba e Hinata. Ah, bello.
Karin
è stata un parto, giacchè di lei
non si sa niente. Però, c’è. Voglio dire, un poco schizzata, ma c’è.
Ragazzi,
io vi lascio.
Stay
link’d!
RoSs
E adesso
è il mio turno, yay!
Si parlava di FAQs.
Uhm, allora…
L: Ma perché Sasuke
è così stupido?
Non
me lo dite. Sarà una cosa congenita? No, un attimo Itachi non è stupido. Cioè, almeno
credo. Se avesse trucidato il suo intero clan perché
qualcuno gli aveva starnutito nella minestra, lo sarebbe. Però visto che non è
andata così non lo è. Tornando alla domanda iniziale…
Colpa di Ross, ecco.
L:
Karin sembra completamente pazza!
Oh, accidenti, questo sì che è disdicevole. In effetti forse un
pochino lo è. Ma solo un pochino. Intendo,
essendo una killer cocainomane ossessionata dal desiderio spasmodico del
sangue, è conseguentemente non proprio sanissima a livello mentale.
Ma
cercate di capirla, poverina. Ha avuto un infanzia difficile.
Ogni volta che faceva a botte, le si incrinavano gli
occhiali ù____ù
L:
Contate di aggiornare presto?
*Risata
fragorosa*
E con questo, ho concluso. Faccio scuse pubbliche a Ross
per essere stata così insopportabile. ♥
R:
Ah, me ama lo stesso**
Ja
Ne
suzako