Qui, su questa montagna coperta di neve e annegata dal sole del primo
mattino, al confine tra la terra e il cielo, per un attimo posso ancora
riscoprire me stesso.
Qui, in questo angolo di paradiso spazzato dai gelidi
venti dell’artico, tra i ghiacci eterni e l’eterna solitudine, mi ritrovo ad
osservare le delicate impronte lasciate sul freddo mantello che la natura ha
steso sul mondo.
Non c’è niente, qui, che ricordi la civiltà. Niente
costruito da mani umane, perché la vera bellezza nasce nell’abbandono, lontano
da occhi che possano ammirarla.
Lontano da occhi che possano imprigionarla.
Perché la bellezza deve essere libera.
Come te, amore mio.
Come il
sole che ti illumina il volto, la brezza che ti scompiglia i capelli, la pioggia
che lava le tue lacrime, le confonde.
E’ per questo che sono qui, in fondo.
Per sciogliere le catene che ti tengono vincolata a me, e renderti libera.
Inizio a correre, cercando di liberarmi di questo dolore antico che da quasi
un secolo mi accompagna; cercando di lasciarmelo alle spalle, nella vana
speranza che non trovi più la strada.
Una dolce illusione.
Guardo il
sole con i miei occhi stanchi; ti sarai già svegliata, mia perfetta creatura, e
già ti starai domandando dove sono.
Ma non mi vedrai.
Non questa volta.
E’ stato bello averti al mio fianco. Prenderti per mano, e perdermi in te.
Vedere il mondo, specchiarsi limpido e perfetto nei tuoi occhi, e dolcemente
lasciarmi scivolare, annegare in quel mare di terra, e aria, e fuoco che è il
tuo sguardo.
«Ti amo.»
Ricordi?
Quel pomeriggio, nella nostra radura. Sdraiati sull’erba umida, la tua testa
sulla mia spalla, le nostre mani come pigri combattenti ad intrecciarsi,
rincorrersi, unirsi per poi di nuovo separarsi. Un po’ la nostra storia.
«Ti amo anch’io.»
«Puoi
giurarlo?»
Ti guardai, meravigliato. Non potevo credere alla tua
domanda, non volevo notare il tuo tono scettico, impercettibilmente malinconico,
così dolcemente cinico.
«Ti amo. Ti amo. Ti
amo. Ti amo», ti sussurrai all’orecchio, dieci, cento volte. Il più vero
dei miei giuramenti. Il più sacro.
«Non
lasciarmi mai.»
«Mai. Lo prometto.»
Ma sono un vampiro, mio
amore, mio angelo, mio bellissimo raggio di sole. Nient’altro che amara progenie
del diavolo che ci ha creato, mostri senz’anima. Il mio destino mi insegue da
quasi un secolo, un destino di sofferenza e solitudine. Passato, presente e
futuro si mischiano e si confondono, una linea senza inizio né fine,
intrecciandosi abilmente in un gioco a cui non ho in intenzione di lasciarti
partecipare.
Il mio martirio ha inizio qui, in queste lande desolate e
incontaminate, tra giganti di ghiaccio e bianchi campi seminati dagli scheletri
di un passato millenario.
Mi sarebbe piaciuto portarti qui. Ti immagino,
avanzare lenta, i tuoi piedi che affondano nella neve, così dolcemente incapace
di muoverti con la grazia di un vampiro, così umana nella tua goffaggine.
Così bella. Tu, l’inizio e la fine della mia vita, perché prima di te la mia
non era che mera esistenza.
Tu, l’Alfa e l’Omega di ogni mio pensiero, ogni
mio gesto, dedica perfetta di ogni mio sentimento.
Continuo a correre,
perché so che questo è l’unico modo per fuggire a ciò che sono, a una natura che
non ho chiesto, e che mi è stata imposta come regalo e condanna allo stesso
tempo.
Vampiro.
Bello, affascinante... letale, pericoloso.
Eccomi.
Concentrato in me, il rigetto delle società di tutti i tempi, il demone di ogni
religione, il terrore di tutte le culture.
Corro con disperazione, con
rassegnazione... con egoismo, perché non posso pensare alla tua vita senza di
me, ma so che è necessario per te. Per la tua felicità.
Corro non per il
desiderio di correre, ma per il desiderio di dimenticare. Dimenticarmi di te,
anche se so che sarà impossibile. L’eternità della mia natura mi porta
inesorabilmente a desiderare la morte, e quelle dolci promesse che porta con sé.
Un odore familiare all’improvviso interrompe il flusso dei miei pensieri,
costringendomi a rallentare e, infine, fermarmi.
Mi guardo intorno; la
coltre bianca si estende per miglia immobile, apatica, inalterata. Non un suono,
se non quello del vento tra le montagne, il cupo sibilo che mi ricorda i boschi
e le colline di casa.
Fisso quell’animale in lontananza, i sensi all’erta.
Il suo odore mi giunge intenso, penetrante.
Mi domando se, in realtà, sia
consapevole di essere il mio prossimo pasto.
Mi fissa, i suoi occhi rossi
fissi nei miei, entrambi del tutto immobili, statici: due statue perfette
scolpite nel ghiaccio.
In attesa.
Ci studiamo a vicenda, senza accennare
alcun movimento. Non esitanti: circospetti.
E’ una lotta per la
sopravvivenza, una lotta che deciderà chi è degno di vivere, e chi non lo è.
Buffo. Il solo pensare di essere una creatura “degna” di proseguire questa
pallida e inconsistente esistenza mi fa ridere. Avrei quasi voglia di girarmi e
andarmene, riprendere la mia corsa nell’immensità del nulla, concedere il dono
della salvezza all’animale che mi sta di fronte.
Lui sicuramente ha più
diritto di me di vivere. Tuttavia non mi muovo, la gola mi brucia e l’odore del
sangue caldo rende la mia sete quasi insostenibile, un bisogno urgente che grida
ai miei sensi la sua voglia di essere soddisfatto.
Chiudo gli occhi. In
quell’accecante distesa di neve lascio che sia il mio olfatto, e non la
fallibilità dei miei occhi, a guidarmi alla preda. Scattiamo in avanti, quasi
nello stesso istante, due predatori divenuti preda. Ma la lotta è impari, lo so.
I suoi artigli affondano nella mia carne, lacerandola, lasciando sgorgare
copiosi fiotti di sangue gelido. Ma le mie ferite si rimarginano in fretta, al
contrario delle sue.
Lentamente, lascio che il mio istinto prenda il
sopravvento su ciò che sono.
Mi costringo ad abbandonare il controllo della
mia mente, rintanandomi in una piega nascosta della mia anima immortale, e
osservo il vampiro allungare le mani verso il collo di quel lupo, così forte nel
suo branco, ma così debole paragonato a me. Non ha possibilità di vittoria.
Stringo ferocemente, i suoi guaiti colmano l’aria attorno a noi.
Non mi
muovo.
Lo sento fremere, spasimare ormai al limite. La vita lo sta
abbandonando, mentre l’aria defluisce dai polmoni. Posso solo immaginare la
sofferenza che sta provando, reale, tangibile, quasi inumana.
Ma nessuno di
noi è umano. Una bestia ed un mostro,
ecco ciò che siamo. Non abbiamo bisogno di umanità.
Ad un tratto, mi blocco.
E’ giusto uccidere così una creatura, la cui unica colpa è quella di essersi
trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato?
O al momento giusto, per
quanto mi riguarda. Dipende dai punti di vista.
Clemente, decido di non
prolungare oltre la sua sofferenza. Sposto una mano al lato del suo muso, mentre
lo osservo scoprire i denti, preparandosi all’ultimo, disperato attacco. Ma non
gliene lascio il tempo. Una mano ancora sulla gola, gli rompo l’osso del collo
il più velocemente possibile, con rapidità.
Non ha sofferto.
Sa di
essere una preda, e sa che è la natura ad aver fatto in modo che fosse così.
Fiero, non mi ha implorato con lo sguardo.
Con un ultimo guaito mi ringrazia
per avergli risparmiato l’agonia e la sofferenza, poi crolla a terra, senza
vita.
Rendo omaggio a lui, al predatore che è stato, benedicendolo perché
grazie a lui, mi nutrirò. La natura. La legge del più forte.
Mi nutro in
fretta, assaporando ogni molecola di quel sangue caldo, nutriente, dolce, poi
ricomincio a correre, verso un destino ignoto.
Un destino lontano da te.
Mio unico amore, mio fiore, mio cuore. Il mio martirio sarà eterno ma tu...
tu dimenticherai in fretta.
Non voglio tornare. Non voglio rivederti, mentre
ti disperi, mentre accetti che non mi rivedrai mai più... non voglio vederti
innamorarti di qualcun altro, e lottare dolcemente con lui sotto le lenzuola, in
quel gioco di tenerezza e passione, e pelle umida e membra stanche.
Non
voglio vedere i tuoi figli, ritratti di te, pallide ombre di ciò che sei.
Rimarrò qui, dove il mio grido non sarà ascoltato che dal vento, dove la mia
disperazione sarà accolta dal gelo, e dove le mie lacrime, che hanno il colore
del sangue, non potranno macchiare la tua pelle, e tingeranno di un rosso
sbiadito questo deserto di ghiaccio.
E’ un addio. Addio a te, alle tue
labbra, alla tua pelle, ai tuoi occhi.
Ed eccomi, su questa montagna che è
il tempio del mio perdono, ad offrire sull’invisibile altare dell’eternità il
nostro amore come unico riscatto per la mia esistenza.
La mia corsa termina
in una curva secca, che solleva spruzzi di bianchi cristalli rilucenti al sole.
Vola libera, amore mio, spiega le ali e misura il cielo con la tua felicità. Le
catene sono spezzate.
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E
anche questa, ha una dedica... bè, più che una dedica, è un ringraziamento...
per Yokuccia, perchè mi ha fatto ridere e piangere con la sua storia. Un
ringraziamento per lei, non all'altezza, lo so... ma fatto con il cuore.
Grazie Yoku.
Ti voglio bene.