Disclaimer: i
personaggi protagonisti di questa fanfiction non mi appartengono e,
sfortunatamente, mai mi apparterranno. Sono proprietà esclusiva della Somma JK
Rowling. A me spetta l’onere e l’onore di poterli usare nella Storia che
vi apprestate a leggere.
Titolo: Slavery
Autore: Bea_chan
Rating: R
Genere: drammatico, introspettivo, romantico
Personaggi: un po’ tutti
Pairing: DracoXHermione
Warning: Cosa succede ad ascoltare canzoni malinconiche ad una testolina
da Slytherin bacata come la mia. Spero qualcosa di buono, o comunque qualcosa
che susciti in voi sentimenti diversi dal disgusto. Voglio inoltre avvertirvi
che il Draco di questa fanfic rimarrà l’adorabile bastardo Slytherin che
è sempre stato; d’altronde, l’ho sempre considerato un Mangiamorte. Obbligato,
ma pur sempre tale.
Commento: Essere Mangiamorte non è sempre una scelta voluta, anche se
molto spesso ci si fa l’abitudine. E caso vuole che, alle volte, accade qualcosa
che rende decisamente vantaggiosa questa condizione. Perché, dopo tutto, pur se
Mangiamorte, si è prima di tutto un Uomo e, come tale, vittima di Tentazioni… E
quale migliore soddisfazione se non quella di schiavizzare un Passato dal quale
si è sempre tentato di fuggire?
In una spirale di intrigo e sensualità, si perderanno le menti di un Mangiamorte
e una Auror, rompendo quel labile confine che si ha tra l’esser Schiavo e
Padrone, Vittima o Carnefice. Anche se il Mondo, al di fuori del loro labirinto
di Giochi di Ruolo, sta braccando entrambi…
Thanx to: i My Chemical Romance e le loro splendide canzoni; la
mia cara Sorellina Bella, lontana ma pur sempre vicina; i miei contorti e
vorticanti pensieri.
Note: la fanfic è ancora in corso. Tenterò di starci dietro, malgrado ne
abbia già parecchie in corso. Ma, grazie al cielo, quella tortura chiamata Liceo
è quasi finita…
*
Atto I
Keep on Living
Can you see
My eyes are shining bright
'Cause I'm out here on the other side
My Chemical Romance, Famous Last Word
Faceva
caldo, quella notte.
Il canto dei grilli era quasi assordante, tintinnii d’argento nelle verdi fronde
dell’immenso giardino.
Paradossalmente, poggiato allo spesso muro di pietre antiche, le braccia
mollemente incrociate sul petto, gli occhi socchiusi alla tiepida brezza delle
notti estive, sentiva quasi freddo, in dosso solo una camicia bianca,
leggermente sbottonata, e dei calzoni neri.
Piedi scalzi nell’erba bagnata di rugiada, cresciuta a carezzare le mura del
perimetro esterno, quasi voler lenire le ferite che il tempo aveva
inesorabilmente inflitto al tetro maniero.
Si passò una mano nei capelli, biondi fili d’oro.
Faceva davvero troppo caldo.
Il lontananza, rumori notturni, versi ed ululati dei cacciatori, creature della
notte che rifuggono la luce, acquattati nell’erba in attesa della prossima
preda.
Un po’ come lui, d’altronde.
Si scostò dalla parete, un nero mantello ed una maschera argentea ai suoi piedi,
abbandonati tra le mille stille di brina, e si avviò verso la foresta,
lasciandosi alle spalle il castello.
La poca luce, che gettavano le fiaccole esterne della dimora, scomparve. Un
soffice buio lo avvolse, riverberi d’argento delle stelle a baciare la sua pelle
candida, rischiarando le iridi plumbee, quasi trasparenti in quel poco chiarore.
L’oscurità, unico rifugio per quelli come lui, colei che annebbia i sensi e
strega la vista, sempre presente laddove l’albore non riesce ad arrivare. Dita
di fata, nere e gentili, sempre pronte a lenire le ferite di chi non vuol
guardare. Di chi non vuol affrontare il vero, sempre così crudele.
Dolce e mera culla dell’illusione.
I sensi in allerta, l’istinto affinato negli anni di un felino in caccia, le
orecchie tese a percepire qualsiasi rumore sospetto provenisse dalla fitta
boscaglia. E dalla dimora dietro di sé.
In lontananza, oltre gli alti rami verdeggianti, poteva scorgere l’estremità
dell’alto cancello di ferro, nero e imponente, con la sua elaborata intelaiatura
gotica quasi inquietante, scuro merletto che impediva l’accesso al castello.
Inquietante, soffocante.
C’era *qualcosa*, nel dolciastro profumo di quella sera, qualcosa che non
riusciva ad identificare con precisione. Era piuttosto una percezione, un
brivido lungo la schiena.
E le sue intuizioni raramente sbagliavano.
Si fermò, fissando nella foresta. C’erano delle luci, tremolanti, torce ardenti
della rabbia e del fanatismo dei seguaci dell’Oscuro Signore.
I Mangiamorte.
Erano tornati, ed evidentemente non a mani vuote. Alte grida di trionfo, parole
ringhiate nel disprezzo, figure trascinate e spintonate lungo il sentiero che
conduceva al cancello.
Sogghignò, soddisfatto. Chissà quanti Auror avevano stanato, questa volta…
Si addentrò maggiormente, deciso a godersi l’entrata della compagnia dal folto
degli alberi. Ormai erano alle porte, mentre l’intricata cancellata si apriva
cigolando, lentamente, permettendo l’accesso agli uomini incappucciati e alle
loro prede.
Umiliante sfilata di corpi incatenati, ove maschere sono solo le espressioni
che trasfigurano i volti dei prigionieri, alcuni furiosi, altri solamente troppo
fieri per mostrare il loro turbamento.
Le fiamme delle fiaccole bagnavano di luce dorata le chiome degli alberi, mentre
i Mangiamorte avanzavano compatti, trascinando il gruppo degli Auror
recalcitranti. Risate di scherno sotto i neri cappucci, la stessa considerazione
che si può avere di un topolino in trappola.
Anche il giovane nascosto nel bosco, una spalla stancamente appoggiata al fusto
di un albero e le mani calcate in tasca, sogghignò, un sorrisino di sufficienza
incurvava appena le labbra sottili.
Esseri che osano sfidare Lord Voldemort, solo stolti soldatini lanciati
imprudentemente nella fauci dell’inferno, quello dove ogni giorno da quasi tre
anni cercava di sopravvivere lui.
Fingere e dissimulare, arti sottili che gli avevano salvato la vita numerose
volte. Compromessi strappati all’ultimo respiro, mani macchiate di sangue
innocente contro la propria volontà.
Ma costrizione necessaria alla vita.
Uno dei prigionieri camminava a testa alta, le mani incatenate poggiate in
grembo, unite quasi in una muta preghiera. Immune agli insulti dei carcerieri,
mentre incespicava nella ghiaia del sentiero. Si rialzò, traballante, ma avanzò
ancora, con presenza fiera e intoccabile, rassicurando uno dei sui compagni di
sventura, poco più avanti nella catena di grottesche marionette.
Si voltò, guardandosi intorno, intercettando lo sguardo appartato nella selva di
massicci tronchi neri.
E colui che si nascondeva ebbe un brusco sussulto, che lo lasciò momentaneamente
senza fiato.
Il frinire penetrante dei grilli, il leggero venticello che si era
misteriosamente interrotto, facendo precipitare la cappa di caldo soffocante
sopra il giardino.
Occhi scuri e liquidi, spettinati riccioli bruni, sguardo orgoglioso e ferito
della preda che, suo malgrado, è stata sopraffatta dal suo cacciatore. Ma non
vinta.
Bocca rossa, quasi provocante, pelle bianca scalfita appena da graffi e ferite,
piccole imperfezioni, insignificanti nel complesso generale della sua apparenza.
In quelle buie iridi passò un’ombra, minacciosa, mentre veniva strattonata
ancora verso l’alto portone d’ingresso al castello.
Gli occhi del giovane si strinsero in due fessure d’argento, mentre seguiva
l’avanzata dei prigionieri, studiando il movimento delle spalle di colei che
l’aveva guardato, i lunghi boccoli sparsi lungo la schiena.
Mezzosangue Granger, ci rincontriamo…
Si girò, ritornando con passo svelto al maniero, prima che si accorgessero della
sua temporanea assenza. Il bottino dei Mangiamorte, quella sera,
prometteva bene. Si concesse l’ennesimo sorrisetto.
Ancora la voce dei grilli persisteva nella calura estiva, sussurri
capricciosi di spiriti fatati, risate maligne verso le vittime che osavano
mettere piede nella residenza dell’Oscuro Sire.
Difficile dire se qualcuno avesse mai fatto ritorno.
*
I am not
afraid to keep on living
I am not afraid to walk this world alone
My Chemical Romance, Famous Last Word
Fissava, con occhi
vacui, davanti a sé, i polsi ancora incatenati abbandonati nel suo grembo.
In piedi, sempre e comunque, come il tenero giunco che si piega ma non si
spezza, per quanto il vento ululi forte e la pioggia cada impetuosa.
La cella era umida e tiepida, solo poco più fresca della calura che aleggiava
fuori nell’aria notturna.
Quella dannata notte, quando la loro missione si era trasformata in una trappola
ordita sapientemente dai Mangiamorte. E l’ingenuità degli Auror, una maledizione
quando il nemico gioca a carte coperte, li aveva condotti dritti nelle loro
braccia.
Era stata divisa dai suoi compagni, cella separata per una come lei, conosciuta
e quasi percepita essere diversa dagli altri.
Destinata a finire la sua giovane vita nella vergogna del suo nome, nell’onta
che i seguaci dell’Oscuro Signore bramavano impazienti di lavare nel suo lurido
sangue. Sangue sporco.
Mezzosangue.
Quell’offensivo epiteto, tuttavia, le rimbalzava addosso, senza scalfire la dura
corazza che l’orgoglio aveva edificato intorno alla sua persona, aura che la
rendeva intoccabile, eterea presenza ma mai così concreta.
Voltò di poco gli occhi scuri, mettendo a fuoco il buio paesaggio attraverso le
sbarre della piccola finestra seminterrata che dava sul giardino.
L’intricata foresta dalla quale erano passati, dove aveva scorto quello
sguardo d’argento, così limpido e trasparente come un lago ghiacciato,
penetrante e indagatore. Terribilmente freddo e…conosciuto.
Si era sentita osservata, studiata e aveva scorto, in quelle iridi, un brillio
di stupore.
E aveva avuto paura.
Folle, indescrivibile terrore che il possessore di quegli occhi potesse
conoscerla, deriderla, umiliarla come più volte aveva già fatto. In un tempo
che, ormai, le sembrava lontanissimo.
Sentì una morsa di collera alla bocca dello stomaco, mentre stringeva i pugni,
le unghie penetrate a fondo nei palmi delle mani, facendola sanguinare.
Il principe dei purosangue, colui il quale, poco prima dell’ultimo anno di
scuola, era sparito senza dire una parola, prima che sbocciassero i primi fiori
di maggio. Voci maligne, bisbigli nei corridoi gremiti, che un nero tatuaggio
avesse già macchiato la candida purezza di quella pelle diafana.
Aveva sempre sospettato che la strada di Draco Lucius Malfoy non fosse
propriamente lastricata di buona intenzioni. Tuttavia…
Rifugiarsi nell’infantile convinzione che quel borioso ragazzo era solo ciò
che dimostrava di essere, senza che l’antica lotta tra ciò che è Giusto e ciò
che è Male contagiasse le loro, seppur accese, discussioni.
Ella sapeva, aveva già compreso che, crescendo, nessuno di loro sarebbe
rimasto tale. Avrebbero acquisito pareri e posizioni più radicali, si sarebbero
schierati, volenti o nolenti, con una delle due opposte fazioni.
Era solo lei, fiduciosa bambina nell’animo, che ancora sperava che quei
ridicoli battibecchi potessero rimanere di siffatta natura.
Asciuga le tue lacrime, Hermione, perché ciò che desideri sia, non è. E non
lo sarà.
Mai come quella volta, ella avrebbe tanto voluto sbagliarsi.
*
Passo rapido, svelto ed elegante.
Impossibile sapere dove riuscisse a trovare sempre quel contegno glaciale, quasi
fosse un automa.
Senza emozioni, senza sentimenti.
Bussò tre volte ad una porta di legno, il battente intagliato a forma di
serpente sembrava contorcersi, sinuoso, sotto le sue pallide ed affusolate dita.
”Avanti ”
Una voce secca e stridula rispose dall’interno, incitando la figura ad entrare.
Quello obbedì, chiudendosi la porta alle spalle, delicatamente.
Piccola, soffocante stanza, un camino spento e una finestra aperta sulla
tiepida nottata. Costante frinire di grilli, rilassante cantilena e nenia
ammaliatrice, come gli occhi dell’occupante della sontuosa poltrona di pelle
nera, rivolta verso il focolare.
Il giovane appena entrato si riscosse. Prese un sospiro e fece un passo avanti,
accennando un inchino educato, chinando di poco il capo.
”Mi avete fatto chiamare, mio Signore?” chiese, quella voce arrogante e
strascicata di sempre aveva un tono controllato, quasi reverenziale, in segno di
rispetto verso colui che l’aveva interpellato.
Rispetto. Cos’è la stima, se non accondiscendenza…?
L’uomo che aveva parlato in precedenza sogghignò, dalla poltrona ove era
mollemente seduto. La luce lunare accentuava il pallore spettrale della pelle
sottile, due occhi color rubino, divertiti, quasi ipnotici, fissi in uno
scintillio tra le molle del caminetto, lo schienale della sedia e le spalle
rivolte al ragazzo.
”Ho qualcosa che credo ti potrà…interessare…” esordì l’uomo seduto, senza
troppi preamboli.
Il giovane, perplesso, inarcò un sopracciglio d’oro scuro, non visto sotto il
nero cappuccio calcato sugli occhi e la maschera argentea posata sul viso.
Caldo, sotto quell’imprescindibile maschera, ciò che rendeva ogni Mangiamorte
uguale, l’identità perfetta di idee e preconcetti. Leggere gocce imperlavano la
sua fronte, mentre agognava di poter rifugiarsi nuovamente nel fresco giardino.
Si costrinse a rispondere, laconico.
”Non credo di capire…”
L’uomo aveva ancora dipinto sulla labbra sottili quel sorrisetto altezzoso.
Staccò una mano dal bracciolo e materializzò, in un fluido gesto delle dita
sottili, una chiave arrugginita. Protese il braccio dal lato destro della
poltrona, sempre girato di spalle. Il ragazzo esitò, leggermente impensierito da
quella piccola chiave che il suo Signore considerava, forse, il più bel regalo
che si potesse ricevere.
La mano spettrale si mosse, nuovamente, impaziente, come la voce che lo incalzò.
”Prendila, giovane Malfoy…La cella è la quarta giù nei sotterranei”
Draco afferrò la chiave, con tocco guardingo, temendo una reazione dall’uomo,
che però si limitò a ritrarre la mano, poggiandola nuovamente sul bracciolo.
Metallo opaco, brunito e ramato in più punti, ruvido al tatto e imbevuto
della sofferenza che ogni prigioniero aveva provato e scontato in quella cella.
La fissò con i suoi occhi grigi. Aveva la sottile consapevolezza che quel
piccolo oggetto aprisse la sua cella.
Occhi neri, nei quali annegare insieme all’odio che provava per lei.
Sangue sporco, carattere indomito, altero, Auror caduta nelle avide grinfie del
Demonio.
”Spero che troverai divertente, ciò che ti attende…” aggiunse l’uomo,
facendo cenno di uscire.
Il giovane capì che il suo “colloquio” era concluso. Si inchinò nuovamente,
uscendo dalla stanza e richiudendo, con una certa fretta, la porta.
Lord Voldemort ridacchiò, mentre la sua adorata Nagini scivolava sotto la
poltrona, emettendo un delicato sibilo, debole sottofondo all’argentino canto
che riecheggiava dalla finestra, tre le chiome degli alberi.
Ascoltò quella lingua forcuta pronunciare misteriose parole, poi sorrise.
”Hai ragione, Nagini…Ma sai, Draco è ancora così giovane, credo che apprezzerà…”
L’Oscuro Signore era un sapiente burattinaio, colui che attraverso sottili fili
brillanti manovrava le vite delle sue devote marionette, richiamando all’ordine
quelle che osavano tirare troppo il legame con le sue affusolate dita. Ma colui
che concedeva ai suoi burattini di divenire, a loro volta, maestri e padroni di
un’altra vita.
Infinita e crudele subordinazione.
***
E’ tutta colpa mia.
Un pugno tirato violentemente contro la parete, unico gesto che non lo faccia
sentire così dannatamente impotente. Nocche ferite, lividi inferti, labbra morse
per impedirsi di urlare.
”Smettila, Ron” una voce secca ma dolce “Non è certo tua, la colpa…”
Ronald Weasley non rispose, il pugno ancora poggiato alla bianca parete
intonacata.
Quella casa che condivideva insieme a *loro*, ricordi di momenti felici, di
furiosi litigi e di rapide riappacificazioni. Non aveva il coraggio di recarsi
nella sua camera, pregna del suo odore e invasa dalle sue paure, dalle
sue frasi non dette.
”Forse se…se io…”
”Sono nel torto almeno quanto te”
Gli occhi verdi dell’amico avevano sempre la strana capacità di
dissolvere ogni perplessità. Brillante speranza in quelle iridi, immutata
fiducia in lui malgrado gli anni passassero e il suo viso mutasse.
Annuì, togliendo la mano dal muro e leccandosi le numerose escoriazioni sulle
giunture delle dita.
Assorto, ombre inquiete nello sguardo azzurro, medesima tonalità del celeste
cielo estivo.
Harry Potter era a capo chino, il busto in avanti, le gambe divaricate
stravaccato su una scarna sedia di legno, le mani giunte davanti a sé. In
silenzio.
Non osava dire a Ron che le speranze di rivedere la loro Hermione erano
molto scarse.
Come del resto, egli stesso sapeva.
”Si è saputo chi fossero quei Mangiamorte?”
”No” sospirò, passandosi una mano nei capelli rossi “Anche le ricerche sembrano
inutili…”
Harry alzò leggermente il capo, intercettando lo sguardo ancora furioso
dell’amico. Inarcò un sopracciglio.
”Tu dici che…?”
Ronald annuì, deciso.
”Dove, altrimenti?”
Il moro imprecò, riabbassando gli occhi sul pavimento di legno.
Sottili nervature lignee di tono più scuro, come le crepe che correvano,
ramificandosi, nella sua anima. Incertezze, fragili castelli sui quali avevano
costruito una minima parvenza di pace, calma apparente, prima che Lui non
fosse riuscito a togliere uno dei tasselli portanti.
Prima che tutto precipitasse nel vuoto.
”Harry, secondo te…” lo sentì deglutire, cercando di inghiottire un nodo troppo
pesante da sopportare “Cosa le staranno facendo…?”
Il Ragazzo Sopravvissuto era noto per la sua proverbiale bravura nel tirar fuori
sé e gli altri dai guai. In qualunque situazione, si poteva sempre sperare che
Harry Potter giungesse in soccorso di chi ne necessitava.
Crudele paradosso che una tra le persone a lui più care non potesse usufruire di
questo servizio.
Al momento.
Scosse la testa, rassegnato.
”Non so, Ron” sospirò “Non lo so davvero…”
Caldo silenzio fra di loro, opprimente, la finestra rigorosamente chiusa
sulla notte ancora lunga. Nottata che sarebbe stata insonne, densa di pensieri e
di preghiere sussurrate.
”E’ meglio che vada…in camera” Ron si staccò dal muro, incerto “Magari…magari
arriva qualche notizia”
Harry annuì.
”Io resto, non si sa mai”
Weasley si avviò sulle scale, reggendosi al corrimano, gli stivali da Auror
ancora calcati ai piedi, nere righe lasciate sul parquet causa la suola di
cuoio. Sparì nella prima stanza da sinistra, sbattendosi la porta alle spalle.
Potter rimase immobile, statua scolpita su quella sedia.
Incapace di pronunciar verbo che avesse senso, inutile consolazione ad una
ferita troppo recente e inconcepibile da accettare e da comprendere.
Perché nella sua accurata fortezza di cristallo, qualcuno aveva spalancato una
fessura, premessa della totale rottura. Precisa e spietata cognizione che,
adesso, il Gioco cominciava a diventare personale.
Si alzò, quasi di scatto, avvolgendosi nel mantello blu scuro che aveva
abbandonato per terra. Si assicurò la bacchetta alla cinta e rivolse uno sguardo
comprensivo alla porta sopra le scale.
Si calcò il cappuccio in testa ed uscì.
Lucciole e grilli tra l’erba, spettatori della sua fuga, mentre qualcun altro
fissava dal vetro la sua corsa, mano poggiata ad esso ed occhi vacui e sfiniti.
Non un sorriso, valutandosi incapace di seguirlo.
”Non questa volta, Harry…” sussurrò, mentre guardava l’amico smaterializzarsi
“Ronald Weasley agirà a modo suo”
*
So give me all
your poison
And give me all your pills
And give me all your hopeless hearts
And make me ill
My Chemical Romance, Thank You for the Venom
La guardava, occhi
famelici di felino in caccia.
Come aveva sempre fatto, sguardi nascosti e guardinghi dardeggiavano verso la
sua figura, così serena e luminosa, la stessa maligna curiosità di un infante al
quale è stato negato il giocattolo sempre agognato.
Corpo sinuoso, pelle chiara intravista negli strappi della veste, ricci ribelli
sciolti fino alla vita. Era girata verso la piccola finestra, sembrava non
essersi accorta della sua presenza fuori dalla cella.
Infilò la piccola chiave nella toppa, grattando la serratura.
Quando entrò nell’angusto spazio, ella si era già voltata, di scatto, nella sua
direzione, fissandolo leggermente intimorita. Non arretrò.
Egli sogghignò, sinceramente compiaciuto da quella situazione, sicuro che
l’argentea maschera posata sugli occhi non riuscisse a trarla in inganno.
Sangue sporco ma mente brillante, connubio ch’egli non aveva mai voluto
accettare. Incompatibile.
”Noto con piacere che, almeno in queste situazioni, la tua irritante parlantina
perde colpi…”
Ella sussultò, stringendo i pugni della mani incatenate. Gli scoccò uno sguardo
altezzoso, raddrizzandosi
”Non sono tenuta a parlare con uno sporco Mangiamorte..” sibilò, velenosa.
Occhi grigio tempesta, luccichii maliziosi in quelle iridi, mentre si
avvicinava indolente. E lei, forse per la prima volta nella sua onorabile e
giovane carriera da Auror, che non poteva fare a meno di indietreggiare.
”Ma vedo che l’educazione è rimasta comunque inalterata” aggiunse egli,
in piedi davanti a lei, scrutandola.
Hermione Granger sostenne quel freddo sguardo indagatore, alzando leggermente il
capo per poterlo studiare a sua volta.
”Vogliamo parlare della *vostra*..?” puro disgusto che aleggiava su quelle
labbra scarlatte, un graffio violaceo sul labbro inferiore, leggermente gonfio.
Quell’insignificante pronome pronunciato con disprezzo “Chi è quell’essere
umano che tratta i suoi simili come non fossero anch’essi tali?”
”Metodi discutibili, concordo..” minimizzò il giovane, le iridi sempre perse in
quelle buie di lei “Ma efficaci, non credi?”
Ella non ribattè, distogliendo lo sguardo.
Quella voce strascicata che aveva così odiato, immutata negli anni, nelle
convinzioni, nel modo distorto che aveva sempre avuto di vedere la realtà. O
che, forse, non aveva mai voluto vedere.
”Senza parole, mezzosangue?”
Disarmante.
”L’avevo sempre detto, che il tuo lurido sangue avrebbe inquinato anche la tua
dubbia intelligenza..”
Umiliante.
”Del resto, sei sempre Hermione Granger, Regina dei Sangue Sporco”
Denigrante.
La ragazza stette nuovamente in silenzio, radicata al suolo, incapace di
muoversi e di rispondere. Come se ogni parola sputata da Malfoy l’avesse
svuotata della linfa vitale, la malandata corazza dell’orgoglio definitivamente
in pezzi.
Egli si tolse la maschera e il cappuccio, scotendo i fini capelli chiari,
spettinati sulle guance e sulla fronte. Poi tornò a fissarla, questa volta
ricambiato.
Filigrana dorata, sottile e serica al tatto, ammaliante. Desiderava quasi
passare una ciocca di quella bionda chioma sotto i polpastrelli, bearsi nel suo
tocco.
Malfoy si accorse dell’interesse d’ella e un lento sorrisino si dipinse,
nuovamente, sulla sua bocca.
Fece un altro passo avanti, trovandosi, ora, innanzi a lei, meno di una spanna
di distanza.
”Ti propongo un patto, Auror Granger”
Ella corrugò le sopracciglia, dubbiosa. Non aveva ancora ben chiaro il
corrispettivo di Malfoy per “patto”, anche se era certa non fosse un
accordo che l’opinione comune avrebbe considerato equo.
”Non..”
”Posso farti uscire di qua, mezzosangue” incalzò egli, come se stesse
sventolando la proposta davanti al suo naso, allettandola “Solo…devi fare un
cosa per me”
Hermione sobbalzò, socchiudendo gli occhi.
”Che genere, di cosa..?”
Compromesso per una libertà circoscritta, purchè non calpestasse tutti i
principi ch’ella aveva sempre sostenuto e seguito fedele, devota alle sue
convinzioni. In fondo, qualcosa in comune l’avevano.
Egli sogghignò ancora, posando le mani sulle spalle di lei, in un gesto
prevaricatore e possessivo. Latente brama in quelle iridi plumbee, ora fattesi
torbide e cupe, mentre la fissava.
Lei ricambiò quell’occhiata affamata, il battito impetuoso del cuore che le
rimbombava in gola, cercando di controllare il fiotto d’ira che minacciava di
esplodere.
Implosione, urlo frustrato della preda appena caduta quasi volontaria nella
trappola del suo carnefice. Umido, in quella cella, improvviso silenzio nella
pesante aria della calura notturna.
Malfoy si chinò, mani ancora premute sulle di lei spalle, accostando le labbra
bollenti al suo orecchio, inspirando il profumo pregno nei boccoli scuri
spettinati sulle spalle.
Respiro trattenuto bruscamente, mai uomo fu così vicino da toccarla con tanto
desiderio. Nemmeno gli amici di sempre, ingenue creature la vedevano ancora
ragazzina presuntuosa.
Sibilante sussurro, serpe di nome e di fatto.
”Mia piccola mezzosangue..”
…To be continued…