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Autore: Alopix    30/10/2012    1 recensioni
Cato e Clove.
Due Favoriti, i tributi più odiati da quelli degli altri distretti, ma idolatrati e portati in gloria a casa, nel loro.
Ma com'è la vita di un Tributo Favorito, aldilà della gloria e dell'onore?
Enjoy :)
(Sì, le mie introduzioni sono sempre spettacolari, eh)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cato, Clove
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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THE RULER AND THE KILLER



"But I know I must play my part
And tears I must conceal”
[Birdy- Just a game]
 

 
Capitolo 8

E’ il secondo giorno da quando ho Cacciato con Cato e mamma sembra essersi completamente convinta della versione dei fatti che lui le ha dato: ci siamo allenati fino a tardi nel Centro di Addestramento ed io mi sono ferita durante un combattimento.
Ma questo è più dovuto al fatto che lei non vuole accettare la verità su cosa sono diventata.
Un’assassina.
 Ho ucciso meno di quarantotto ore fa. Non lo ammetterà mai a se stessa. La sua è beata ignoranza.
Io lo trovo abbastanza patetico, in realtà, ma se questo l’aiuta a dormire meglio la notte, ben venga. Ho bisogno che lei sia dalla mia parte, in questo momento.  Le mie ferite non guariranno da sole e medicare è una delle poche cose che mia madre sa fare, oltre preoccuparsi.
Siamo seduti attorno al tavolo per la cena, quando mio padre annuncia che ieri è stato ritrovato il cadavere di una guardia.
“Ieri?”, chiede mamma, sorpresa. “E come mai hai aspettato fino ad oggi per dircelo?”. Noto che mi sta lanciando occhiate con la coda dell’occhio, come per analizzare la mia espressione senza instaurare un contatto visivo vero e proprio.
“Vengono uccise guardie molto spesso, Caryn. Non è così fuori dall’ordinario. Quello che hanno trovato oggi era…”, si ferma, cercando le parole giuste per continuare il discorso. “Diverso”.
Il mio cuore sta battendo incredibilmente veloce. Come reagirebbero se si scoprisse di che cosa io e Cato siamo responsabili? Non ho alcun dubbio che papà già sospetti che siamo coinvolti nell’assassinio della guardia. Ma è ovvio che non si arrabbi, dopotutto.
 “Diverso?”, indaga mia madre, non volendo far morire il discorso.  Non capisco perché stia insistendo tanto. Deve aver capito cosa sta per seguire e sa anche che non le piacerà. Quindi, perché farsi del male?
“Hanno trovato Orsin-”
“L’ubriacone?”, lo interrompe mia madre. Probabilmente è l’unica che possa riferirsi a lui come “l’ubriacone” invece che con “il serial killer”. E’ così ingenua.
Papà annuisce. “Hanno trovato il suo cadavere oggi, nella vecchia parte delle cave”.
“Hanno fatto in fretta” mormoro sottovoce. Ma loro hanno smesso di parlare, cosa che io non avevo previsto.  Alzo lo sguardo dal mio piatto per vedere se hanno notato il mio commento.
Sì, l’hanno fatto.
Papà mi sta lanciando uno sguardo di totale disapprovazione.
Perché? Tanto lo sapeva già. Ed è stato lui a volere che io diventassi quello che sono ora. E’ stata una sua scelta, prima che mia.
Ma poi guardo il viso di mia madre e capisco. Lui sa in che modo questo la colpirà.
Mamma è completamente sotto shock. Mentre la guardo, non interrompendo il suo sguardo fisso, la sua espressione cambia in una di totale terrore.
“Clove” boccheggia. Io non dico niente. E cosa dovrei dire, comunque?
“Che cosa hai detto?”, m’incita mio padre.
“Mi hai sentito”, rispondo, mostrando un coraggio che, in questo momento, non mi appartiene.
 “Mi avete sentito entrambi”.
Mamma fa un verso che è a metà fra il soffocamento e un ansito.
 “Clove! Come facevi a saperlo?”
Quindi si è davvero illusa fino a questo punto? Ora è pateticamente ovvio.
Io c’ero. Io ho visto tutto. Ho ucciso io Orsin.
“Ero lì”, dico, un tono di sfida nella voce. Mamma non dice niente per un po’, rimane solo ferma a guardarmi.
“Cato l’ha ucciso?”, chiede con calma, ma riconosco una vena di isteria che si sta facendo strada nella sua voce, man mano che la sua coscienza è costretta ad avvicinarsi alla realtà dei fatti.
“No, mamma. Cato ha ucciso la guardia che hanno trovato ieri”, le dico. Non riesco a credere che sia veramente così…non so neanche come potrei definirla. Stupida? Ingenua?
Io ho ucciso Orsin”, continuo, fredda.
“Tu cosa?”. L’espressione sul suo viso è una strana combinazione di emozioni.
Incredulità.
 Delusione.
 Rabbia.
Tristezza.
Rassegnazione.
Dolore.
Così strana, da farmi preoccupare.
“Se non l’avessi fatto sarei morta. E’ lui quello che mi ha ferita”, dico, cercando di calmarla.
 Non voglio farla innervosire.
Domani tornerò a scuola e ho bisogno di dormire.
Ma, ovviamente, non ci riesco.
“Se non fossi stata la fuori a fargli un agguato non avresti avuto alcun bisogno di difenderti!”, urla.
Ma perché se la prende tanto? Ha sempre saputo che era quello lo scopo per cui mi sto allenando. Uccidere. Sarebbe dovuto accadere, prima o poi.
“Ma arrivata a quel punto che avrei dovuto fare? Girarmi e correre via?”, ribatto, infervorata.
“Si!”. Ha gli occhi fuori dalle orbite.
E’ sconvolta. Papà, invece, sembra totalmente calmo e osserva la scena in silenzio.
“No!”, insisto. “Non dopo che Cato ha tirato in ballo una sfida come quella! Non dopo che l’ho accettata! Non mi avrebbe mai più preso sul-”
“Una  sfida?”, strilla.
“Si, mamma! Una sfida”, dico, ostentando calma. “E’ quello che facciamo”, continuo. “Ci sfidiamo a vicenda. Competiamo per vedere chi di noi è il migliore. Per vedere chi di noi uscirebbe dall’arena vivo”. Assottiglio gli occhi, soffiandole in faccia ogni frase.
“Vogliamo la gloria e combattiamo per averla”.
Il suo viso è contorto dalla rabbia ma la sua voce viene fuori in un sussurro.
“Gloria? E’ questo tutto quello che ti importa?”.
Questa donna non ha veramente capito niente.
Niente di me.
 Niente della mia vita.
Niente di tutto quello che faccio. Né del perché lo faccio.
Come se avessi scelto io tutto questo!
Come se mi fosse piaciuto imparare a impugnare un coltello prima ancora che fossi in grado di capire veramente a cosa servisse.
Non è stato bello. Né glorificante. O divertente.
Ma fa parte di quello che sono, ora. E’ inscindibile e inevitabile.
Né vorrei cambiarlo.
Ma è veramente deprimente sapere che anche mia madre non l’abbia capito. Sono veramente così brava a fingere?
Non che ci sia molto di che stupirsi, in verità. Non ho fatto altro che mentire per tutta la vita. Ho anni di pratica dalla mia parte.
Ma il suo commento mi fa comunque arrabbiare, per quanto sappia che, in fondo, è normale che non mi conosca, o non mi capisca. L’ho sempre allontanata io. E’ colpa mia.
Ma io non posso tenere a nessuno, mi ricordo. Tutte debolezze.
Così, quando rispondo, la mia espressione è fredda, il mio sguardo impassibile.
“E’ tutto quello cui mi è permesso tenere”.
Mamma mi guarda un attimo, ferma, forse colpita da quello che ho detto. Ma non desiste.
“Due uomini sono morti per causa tua, Clove!”, sbotta. “Uno di loro aveva una famiglia! Una famiglia che adesso starà piangendo per lui! Della gente, là fuori, si sta disperando perché tu sentivi il bisogno di dimostrare il tuo valore ad un ragazzo che non esiterebbe ad ucciderti, se pensasse che questo gli porterebbe la gloria che tu pensi di agognare tanto!”
“Che penso di agognare?”, urlo. “Hai anche solo la minima idea di quanto mi costi tutto questo? Di quanto impegno ci metta?”.
“Certo che lo so!”, grida, istericamente. “E lo odio, Clove! Ti sta distruggendo! Ti ha distrutto! Non t’importa di nessuno se non di te stessa. Uccidi gente per sport. Non mi parli neanche, se non per combattermi”. Si ferma, raccogliendo i propri pensieri, o forse, le proprie forze per continuare.
 “Tu non sei più mia figlia”, dice infine. La sua voce è fredda, distante. Ma non è mai stata in grado di nascondere bene le proprie emozioni, non quanto me, almeno, e una lacrima solitaria sfugge comunque al suo controllo.
Io la guardo, impassibile. In un certo senso, io non sono mai stata sua figlia.
Lei si alza e fa per andarsene. Solo che non si dirige verso la loro camera.
Va verso la porta d’ingresso.
“Caryn!”, la chiama mio padre, balzando giù dalla sedia.  “Dove stai andando?”, le urla dietro ma lei non risponde. Né si ferma.
La porta sbatte dietro di lei.
Papà la rincorre. Li sento urlare, fuori di casa. Lui cerca di convincerla ad entrare, ma lei non lo farà. Non gli ubbidirà, non ora. Non più.
Mi alzo e mi allontano dal tavolo.
Voglio darle almeno la soddisfazione di aver avuto ragione, sul mio egoismo. Dovrei prendere il mio piatto e lavarlo, ma non lo farò.A me importa solo di me stessa, la scimmiotto nella mia testa. E poi, mio padre è perfettamente in grado i mettere a posto le cose da solo.
A ognuno il suo compito.
A me tocca già immolare la mia esistenza ai Giochi. E mi sembra più che abbastanza.
Non ha senso rimanere qui ad aspettarli. Se la sbrigheranno da soli, e so che non ci vorrà poco. Non sono i miei genitori a litigare, adesso: sono i principi di lei contro quelli di lui. Modi di pensare totalmente diversi.
Sono ancora totalmente esausta per la Caccia e dolorante per le ferite. Non so come potrò sostenere un’intera giornata a scuola, domani.
Mi addormento appena poggio la testa sul cuscino.
 
La grigia luce del mattino attraversa la mia finestra quando mi sveglio. Mi siedo e guardo distrattamente la mia stanza passandomi le dita attraverso i capelli aggrovigliati. Sposto le coperte e cammino verso il comò osservandomi nel vecchio specchio appeso alla parete. Prendo una spazzola e cerco di sciogliere i nodi lasciati dalla nottata.
Sono sorpresa nel sentire dei movimenti giungere dall’altra stanza.  Mamma deve essere ritornata durante la notte. Com’era ovvio che fosse, in realtà. Ci tiene troppo a noi.
Appoggio la spazzola e mi dirigo verso il tavolo della cucina, pronta a mangiare. Ma non è il viso gentile di mia madre ad accogliermi. E’ quello di mio padre.
Mi fermo appena lo vedo. Di solito se ne va prima dell’alba.
“Cosa-”, incomincio, con l’intenzione di chiedergli come mai sia ancora a casa, ma lui parla prima ancora che le parole possano uscire dalla mia bocca.
“Tua madre non è tornata”, sospira, versando delle uova e della pancetta in un piatto.
Osservo i suoi caldi occhi marroni mentre mi porge la mia colazione. Sembra preoccupato.
“Tornerà”, cerco di rassicurarlo, ma so da subito che non servirà a niente.
“Non ne sono così sicuro”, dice in un tono stranamente calmo mentre prende una sedia e si siede di fronte a me. Io non dico niente. Non sono sicura di voler continuare questa conversazione. E lui sta diventando troppo emotivo. Quindi, mi limito a mangiare.
“Pensava che fossi diverso”, prosegue, ignorando il mio silenzio, lo sguardo perso nel vuoto.
Io continuo a far finta di non sentirlo. Ma a lui non importa.
“E’ per quello che mi ha sposato, lo sai”. Io non ho alcuna idea riguardo a cosa si stia riferendo, ma annuisco lo stesso. Non voglio che senta il bisogno di aggiungere una spiegazione più dettagliata.
Mi guarda con fervore e, in qualche modo, capisco che non sta vedendo me. Sta vedendo mia madre. Le assomiglio praticamente in tutto, fisicamente. Tutto, eccezion fatta per gli occhi. Ho gli stessi determinati e forti occhi marroni di mio padre.
“Suo padre voleva che lei sposasse mio fratello, un vincitore. O,quanto minimo, un allenatore, un Favorito”, rimugina, appoggiandosi allo schienale della sedia.
Perché mi sta dicendo tutto questo? Perché ora?, penso.
“Ma lei gli odiava. Tutti loro. Non le sono mai piaciuti gli spargimenti di sangue”, aggiunge, guardandomi in modo significativo. Oh, bene, quindi è tutta colpa mia. Non ha importanza il fatto che lui mi abbia sempre incoraggiato ad allenarmifin da quando sono stata in grado di camminare.
“Pensava che sarebbe stata al sicuro con me”, continua, imperterrito. “Pensava che sarebbe potuta sfuggire alla freddezza della sua famiglia. Pensava che avrebbe potuto lasciarsi tutto alle spalle”.
La sua voce sta iniziando a spezzarsi e vedo una lacrima sfuggire ai suoi occhi e farsi strada sulla sua guancia. Mi muovo sulla sedia, a disagio, ma lui non ci fa caso.
I suoi occhi sono persi nel vuoto- in un ricordo, o il pensiero di un ricordo.
Non posso sopportare questa situazione più a lungo.
Lui dovrebbe essere quello forte e, se non riesce a controllarsi, sono costretta ad andarmene.
Mi alzo velocemente dal tavolo, facendolo trasalire.
Costretto a repentinamente dal suo sogno ad occhi aperti, mi guarda con una strana tristezza dipinta in volto, mentre io posiziono il piatto nel lavandino.
Evito di incontrare il suo sguardo quando ritorno nella mia camera per prendere il mio zaino.
Ma non riesco comunque ad evitarlo nell’uscire dalla mia stanza. E’ in piedi nel corridoio, proprio davanti alla mia porta, bloccandomi il passaggio.
“Papà”, dico con calma. “Devo andare”.
Lui continua a non muoversi. Si limita a guardarmi con quegli occhi tristi.
 “Oggi ho scuola”, insisto. Non voglio che le sue emozioni si riversino anche su di me e mi coinvolgano.
 Lui m’imprigiona in un forte abbraccio. Non lo respingo, ma non lo ricambio neanche. Mi rifiuto di rimanere strangolata dalla stessa tristezza che lo lascia così senza parole adesso.
Quando finalmente mi lascia, lo supero velocemente ed esco, grata della fresca aria di settembre che mi accarezza il viso.
Tutti i pensieri sulla fuga di mia madre sono dimenticati mentre mi faccio strada verso la scuola, situata nella zona ovest del Distretto 2.
 
Sono seduta in classe, nel bel mezzo di una paternale durante trigonometria quando arrivano.
Sono in due, entrambi con indosso le uniformi bianche tipiche dei Pacificatori.
“Clove Kentwell?”, chiama il più alto dei due. Le teste di tutti si voltano verso di me ed io sono improvvisamente paralizzata dalla paura.
Mi hanno scoperta? Mia madre ha denunciato il mio crimine? Sono qui per arrestarmi?, penso nervosamente.
I miei muscoli s’induriscono e mi preparo a scappare dalla prima finestra alla mia sinistra.
Ma la parte razionale del mio cervello è, fortunatamente, ancora attiva  mi rendo conto che non hanno ancora fatto alcuna mossa verso di me, anche se ormai è palese che sono la persona che stanno cercando. Quindi, decido che, per il momento, sono al sicuro. Se poi verrà, invece, confermato il peggiore dei miei sospetti, e quindi sono veramente qui per l’omicidio di Orsin, troverò il modo per scappare.
 In qualche maniera.
Mi alzo lentamente e, con movimenti calcolati, afferro la mia borsa e mi dirigo verso i due Pacificatori.
“Posso aiutarvi?”, chiedo.
“Seguici, per favore”, è l’unica risposta che ottengo.
Potrei semplicemente limitarmi a seguirli ma non sono soddisfatta della loro replica.
“Perché? E’ successo qualcosa?”, insisto, nella maniera più calma possibile, impuntandomi nel punto esatto in cui mi trovo, un po’ della mia spavalderia che torna a galla.
Il Pacificatore più alto, l’unico che ha parlato, finora, mi fulmina con lo sguardo. Ma l’espressione dell’altro si addolcisce.
“C’è stato un incidente. Tua…em…”. Un incidente? Miacosa? Perché non termina la frase?, penso, nervosa.
Non mi piace la sua espressione. Riesco a riconoscere la pietà da chilometri di distanza, ed è decisamente l’unica emozione che riesco a vedere sul volto dell’uomo.
Il primo Pacificatore, invece, sembra solo infastidito e risponde bruscamente.
“Tua madre, Caryn, è stata trovata morta un’ora fa”.
 
Tutto sembra andare al rallentatore, ora. Riesco ancora a sentire l’urlo di sorpresa della mia insegnante rimbombarmi nelle orecchie, anche se abbiamo lasciato la scuola più i un quarto d’ora fa.
Seguo i Pacificatori in silenzio, verso il luogo in cui dicono si trovi mia madre. Morta.
Non si muoverà mai più.
Non parlerà mai più.
Forse è per questo che tutto sembra essere così lento, adesso, come se tutto questo fosse solo un sogno. Forse, è perché mi sto muovendo alla sua stessa velocità.
Non dovrei sentirmi male, adesso? Non dovrei avere il cuore pesante o un groppo in gola?
Non dovrei combattere con le lacrime? Il mondo non dovrebbe sembrarmi sbagliato e troppo felice in un giorno così triste?
Mi sembra tutto così normale. Mi sento normale.
Nessuna lacrima sta lottando per sfuggire ai miei occhi, o per dimostrare dolore. Non ho nessun nodo allo stomaco. Nessun peso sul petto.
C’è solo vuoto.
Non penso di aver mai voluto bene a mia madre, ma faceva parte della mia vita. E mi mancherà, come mi è sempre mancata ogni cosa che mi è stata sottratta all’improvviso.
E’ sempre stata mamma prepararmi colazione e cena.
E’ sempre stata mamma a preoccuparsi che i miei vestiti e le mie lenzuola fossero sempre freschi e puliti, anche se viviamo in una relativa povertà.
E’ sempre stata mamma a curarmi ogni ferita, anche se farlo significava sentire e sopportare i miei insulti ogni secondo durante l’intero processo.
E’ ora non c’è più. Così.
Siamo arrivati. So che l’abbiamo raggiunta perché vedo una piccola folla radunata attorno ad un singolo punto- il corpo di mia madre.
Non riesco ancora a vederla ma so che deve essere là, al centro di quel caos.
I Pacificatori che mi hanno scortato da scuola fanno pressione sulla fossa, per farla arretrare, per dare modo a un pubblico ufficiale di esaminare il suo cadavere.
Non riesco a crederci. Tutto questo non può essere vero.
L’ispettore, comunque, non ha molto tempo per lavorare in pace, perché mio padre arriva dopo poco.
Un forte urlo di pura disperazione manda in frantumi il silenzio della mattinata, quando lui la vede giacere a terra, senza vita. Inizia a correre verso di lei, come se semplicemente non riuscisse a credere a quello che gli hanno detto i Pacificatori. Ma, a dire il vero, anch’io faccio fatica a crederci.
Mio padre si getta vicino al corpo di mamma e lo abbraccia. Non ho mai visto un’espressione così carica di dolore, sofferenza e rimorso. Le lacrime gli scorrono velocemente sul viso mentre lui la stringe forte, per l’ultima volta.
La tiene fra le sue braccia come se volesse proteggerla da qualcosa, come se servisse a farla tornare indietro, a farla respirare di nuovo. La culla, sussurrandole cose all’orecchio, come se lei fosse ancora in grado di sentire i suoi “per favore”, le sue promesse, le sue scuse.
Io osservo tutto attonita, rimanendo lontana. Non m’intrometterò negli ultimi momenti di mio padre con la donna che ama.
Che amava.
L’ispettore, intanto, che ha un lavoro da svolgere, parla con i Pacificatori, ignorando l’uomo piangente ai suoi piedi. Scambiano qualche parola, poi i Pacificatori annuiscono e iniziano ad andarsene.
L’agente si volta e si schiarisce la gola, nel tentativo di attirare l’attenzione di mio padre. Dopo qualche momento, lui finalmente lo guarda.
“Non è stata uccisa”, dice, rigidamente. “Questo dovrebbe farle piacere”. Ma allora…?
E poi capisco. C’è una piccola pietra dentellata a pochi centimetri di distanza dal punto in cui mio padre tiene stretto il corpo di mamma. E’ coperta di sangue. Così come lo spazio circostante.
Scommetto che ci sia una larga ferita, sul suo polso.
“E’ stato un suicidio”, afferma l’ispettore, la sua voce priva di qualsiasi emozione. Il suo viso non mostra alcuna compassione. Ed io mi sento improvvisamente furiosa.
Come può essere così freddo? Così crudele? Mio padre è angosciato e pieno di dolore come mai l’ho visto e questo folle uomo si aspetta che la notizia che mia madre sia morta di sua spontanea volontà lo calmi?
Il sangue mi si scalda nelle vene e il mio viso si contorce dalla rabbia.
Impugno un coltello e inizio a correre verso l’agente. Lui urla di paura ed io vedo con la coda dell’occhio i Pacificatori girarsi verso di noi. Iniziano a correre verso di me. Ma è troppo tardi. C’è solo qualche metro a separarmi dal disgustoso uomo davanti a me.  Alzo la mia lama, preparandomi a pugnalarlo, mentre furia cruda e adrenalina mi attraversano completamente.
E’ in questo momento che cado. La mia gamba destra, ancora debole per la ferita, cede. Il taglio si riapre e il sangue mi macchia i pantaloni. Cerco di alzarmi, ma sono troppo stordita dalla confusione di emozioni e dal dolore per pensare, quindi cado di nuovo.
Quando riesco e rimettermi in piedi, l’ispettore è ormai troppo distante da me, al contrario dei Pacificatori, che mi sovrastano. Uno di loro mi afferra un braccio e vedo comparire un oggetto di metallo nella mano dell’altro. Un oggetto molto simile ad un manganello.
Mio padre riesce a riprendersi quanto basta per correre in mio aiuto.
“Lasciatemi andare!”, urlo. Non ho fatto niente di male. Non ancora, almeno.
Voglio solo andare a casa. Allontanarmi da qui. Voglio solo dimenticarmi il viso senza espressioni e senza vita di mia madre. Voglio recuperare la forza che ora mia ha abbandonato completamente. Voglio cancellare le lacrime che mi stanno offuscando la vista.
“Lasciatela!”, urla mio padre. I Pacificatori, ovviamente, non lo ascoltano, e il secondo dei due continua ad avanzare verso di me che, armato. Mio padre lo colpisce pesantemente sulla mascella e il Pacificatore che mi tiene ferma mi lascia per aiutare il suo collega, chiaramente pensando che mio padre sia il più grosso problema fra di noi, ora.
Mi giro verso l’unica persona rimasta: mia madre. E’ stesa in una pozza di sangue.
Prima ancora di sapere cosa sto facendo, mi ritrovo in ginocchio vicino a lei.
Spesso si dice che le persone sembrano in pace, quando non sono più in vita, ma nemmeno la morte sembra aver cancellato il dolore dai suoi occhi, o l’espressione preoccupata sul suo viso.
Non c’è nessuna pace, sul suo volto. E lo odio. Lei la merita, la pace.
Mentre sposto una ciocca ribelle dal suo viso, mi rendo conto che, dopotutto, le volevo bene. Le volevo bene sul serio. Nonostante tutti i suoi difetti e quanto la trovassi debole, le ho voluto bene.
Era mia madre e m’importava di lei, anche se non me ne sono mai resa conto. Le sue debolezze la rendevano gentile e dolce e so che mi mancheranno le sue carezze affettuose, che professavo di odiare tanto.
Sento qualcosa dentro di me spezzarsi e capisco che sto per incominciare a piangere.
No! Non posso piangere! Non piangerò.
Ho lottato troppo per cedere proprio adesso. Scatto in piedi velocemente, il che si rivela un errore. Sono in preda alle vertigini, e per poco non cado di nuovo.
Appena mi ristabilisco sui miei piedi corro via da quest’orribile scena.
Mio padre sta ancora combattendo con i due Pacificatori, così corro nella direzione opposta.
Non ho alcuna idea su dove io stia andando.
Devo solo andarmene da qui.
Non posso lasciare cadere nessuna lacrima.
Ma non riesco comunque ad allontanarmi di molto che qualcuno mi ferma. Tiro con uno strattone il mio braccio, nel tentativo di liberarmi.
Se è un Pacificatore, probabilmente lo ucciderò. Non voglio avere niente a che fare con le loro tediose procedure, non ora. E non voglio neanche vedere mio padre.
Nel profondo, so che è tutta colpa mia e non posso affrontarlo adesso.
Continuo lottare per liberarmi ma, chiunque sia, non mi lascia andare. Mi giro e gli tiro una ginocchiata.
Vedo uno sprazzo di capelli biondi mentre lui cade sulle sue ginocchia, ma continua a non mollare la presa.
Perché non mi lascia andare? Ho bisogno di andarmene. Ho bisogno di scappare.
Alzo di nuovo il coltello, ma lui risponde immediatamente. Mi ritrovo a terra vicino a lui.
Poi, improvvisamente, è di nuovo in piedi e mi tira su con lui. Io urla dalla sorpresa. Cerco di accoltellarlo, ma prima di mettere a segno il mio colpo, il coltello mi vola di mano e lui mi sta costringendomi contro il suo petto. Continuo a dibattermi, picchiandolo per quanto mi è possibile in questa posizione.
Ma i miei colpi non hanno alcun effetto. Mi sta stringendo con le sue forti braccia e non vedo come potrei liberarmi.
Urlo di frustrazione e alzo il viso per fronteggiare il mio opponente. Due occhi azzurro-grigi ricambiano il mio sguardo. Le sue sopracciglia sono corrugate per la concentrazione e i suoi capelli cadono disordinatamente sul suo volto.
“Cato”, dico, gli occhi spalancati dalla sorpresa. Da dove viene? Che cosa ci fa qui?
Il suo sguardo si addolcisce quando capisce che mi sono calmata.
“Ehilà, Clover”, mormora. Non riesco a dire niente. Ora che la rabbia è scomparsa non riesco a sentire altro che il vuoto lasciato dalla perdita di mia madre. L’unica donna che era rimasta nella mia vita.
So che se parlassi, perderei tutto il controllo sulla mia voce.
Quindi mi limito a fissare i suoi nebbiosi occhi blu.
“Non sei in grande forma”, dice in un tono basso, mettendomi un ciuffo ribello dietro l’orecchio.  So che sta cercando di alleggerirmi l’umore, mi sta sorridendo con il suo solito ghigno. Ma i suoi occhi lo tradiscono. Sono gentili, pieni di preoccupazione.
Capisco improvvisamente che anche solo guardarlo mi farà cedere, così faccio l’unica cosa che riesco a pensare. Affondo il viso nel suo petto, per nascondermi. Lui alleggerisce la presa e mi abbraccia, cullandomi.
Questo gesto mi conforta, mi fa sentire al sicuro, ma fa anche sì che le mie emozioni prendano il controllo. Devo combattere come non mai per costringere le lacrime a rimanere al loro posto.
Cato inizia ad accarezzarmi la schiena, con fare rassicurante, ed è allora che mi rendo conto che sono scossa da piccoli e silenziosi singhiozzi. Sto anche continuando a perdere sangue, il che mi rende più difficile mantenere un ordine nella mia testa.
Ci vuole tutto il mio autocontrollo per impedirmi di sospirare di sollievo quando Cato mi prende in braccio. Non so dove mi stia portando e sono sorpresa di capire che non ha importanza. Fino a che mi sento al sicuro, non m’interessa. Lui non lascerà che i Pacificatori mi portino via. Non lascerà che nessuno mi faccia del male. E non mi lascerà tornare da mio padre e dal dolore che mi aspetta a casa. Non subito, almeno. Per ora, mi terrà al sicuro da me e dalle mie emozioni.
Da quando ho cominciato a fidarmi così tanto di lui?
L’uragano di sentimenti, la perdita di sangue e il caldo della giornata formano una terribile combinazione che,a un certo punto, mi portano all’incoscienza.
 E, per la seconda volta in una settimana, mi addormento fra le braccia di Cato, troppo esausta per darvi peso.
Per la seconda volta in una settimana, mi addormento guardandolo fisso negli occhi, troppo confusa per capire perché si scomodi tanto.
E, per la seconda volta in tutta la mia vita, so di essere completamente al sicuro fino a che rimarrò esattamente dove mi trovo.
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A.
“Ma so che devo recitare la mia parte
E che devo mascherare le mie lacrime”
 
Vi prego, vi scongiuro perdonatemi! Mi sento così terribilmente in colpa. Sono in ritardo di secoli. La scuola sa essere molto letale.
Dunque, tornando alla storia, non so, questo capitolo proprio… bah. Mi  più facile raccontare combattimenti che i pensieri di quella scalmanata lì. Comunque, a parte gli scherzi, mi sento veramente molto in colpa per quello che ho fatto a quella poverina di Caryn. Sul serio. Ho appena assassinato un personaggio. E l’ho fatta anche soffrire! Sono una persona cattiva, oh si.
Volevo approfondire un po’ la mentalità di Clove e ho sfruttato l’occasione per descrivere anche- superficialmente- la politica adoperata nei Distretti (l’uso della violenza senza remore, i manganelli…).
Non credo di esserci riuscita, però.
Voi, mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!
E, a proposito,grazie mille a tutti quelli che hanno recensito! Siete dei tesori.
Veramente, se non fosse per il vostro sostegno, non credo che continuerei. Vi sono veramente grata.

Spero che vi sia piaciuto :)
Con affetto,
Slytherin_
   
 
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