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Autore: BlueSkied    31/10/2012    1 recensioni
Emily Rochester, giovane addestratrice di cavalli dal passato difficile, è assunta nelle prestigiose scuderie LaMosse, dove, tra adolescenti teneri e stravaganti e padroni senz'anima, il suo cuore si dividerà tra due modi diversi, ma complementari, di amare qualcosa e qualcuno.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Tempesta


La pioggia non ha concesso tregua per tutto il giorno e tutta la notte, e oggi sta continuando. Abbiamo portato i cavalli ad allenarsi nei campi coperti, ma il vecchio Wood brontola da ore.
– Ascolta, Art, il capo sei tu, ma dammi retta, il tetto della stalla numero tre andava riparato due mesi fa. Chiama qualcuno o giuro, ci vado io stesso! – sta dicendo a Art, che fa di tutto per calmarlo: - Blaise, io so che sei uno dei nostri migliori uomini, ma i manutentori l’hanno ricontrollato il mese scorso e non ha niente che non va – gli assicura.
Stanno andando avanti così da una buona mezz’ora, in un angolo del campo, e Sasha continua a guardare in quella direzione, distraendosi completamente da Orson Welles, che gratta a terra con uno zoccolo, annoiato.
– Sasha, stai attento – lo ammonisco. Lui sembra ricordarsi solo in quel momento di dov’è, e mi restituisce uno sguardo perplesso: - Art la sta prendendo troppo alla leggera – commenta, scuotendo la testa.
– Wood queste cose le sa. Conosce la stalla meglio delle sue tasche - 
Io non posso che trovarmi d’accordo: - Sì, lo so. Ma Art sembra convinto di avere ragione – replico. Sasha si acciglia: - Beh, si sbaglia. Quando il tetto della stalla crollerà, poi vedremo – mugugna.
Sasha vede Woodback come un nonno o come un padre, si fida ciecamente di lui, e anch’io. Se perfino lui è così preoccupato, vuol dire che c’è un rischio serio, ma se Blaise non riesce a convincerlo, dubito che potremo farlo noi.
Seguiamo la conversazione ancora per qualche attimo, poi Wood se ne va, con un gesto di stizza. Temo che la sua arringa non abbia funzionato. Infatti, viene verso di noi a passo di marcia e sputa per terra, un gesto di disprezzo che non gli appartiene affatto.
- Arthur è uno scemo – dichiara, senza mezzi termini – La parte pericolante del tetto è proprio quella sopra i nostri box. Dobbiamo trovare un modo per spostare i cavalli, stanotte, o la pioggia farà venire giù tutto – ci dice, in tono serissimo. Annuisco: - Ci sono quei quattro o cinque box vuoti dall’altra parte. Possiamo mettere i cavalli più esposti lì – suggerisco.
Se non diamo una prova del reale pericolo della stalla, non ci lasceranno mettere gli animali negli altri edifici, e i cigolii che Wood sostiene di aver sentito non sono un atto d’accusa sufficiente.
Woodback è d’accordo: - Va bene, lo facciamo prima di chiudere la stalla, e preghiamo che il tetto regga - decide, in tono amaro.

Quella parte del piano fila liscio: mettiamo i cavalli nei box più lontani dalla parte a rischio e spostiamo gli altri dall’altro lato della stalla, senza che nessuno possa nemmeno sospettarlo.
In effetti, il tetto sembra non avere niente di strano, ma la pioggia battente non rende facile distinguere i rumori, eppure, Blaise sembra sempre più convinto. Tant’è che, quando Sasha c’invita tutti e due a una bevuta al “Grey Stallion”, lui declina con decisione: - Voglio rimanere qui, stasera. Ho un presentimento. Come quando mio padre a Pimlico fu certo della vittoria di Seabiscuit – dice.
Io e Sasha ci guardiamo: Wood ci ha raccontato decine di volte la storia di suo padre che era stalliere a Pimlico quando si sfidarono Seabiscuit e War Admiral, è una specie di suo vangelo personale. Non lo tirerebbe fuori se la questione non fosse importante. Così andiamo, d’accordo però sul non fare tardi.
Con mio grande sollievo, la pioggia sembra aver costretto Marine e la sua compagnia, per una volta, a disertare il pub.
Sasha comincia a chiacchierare con alcuni amici della scuderia, ma io sono troppo distratta per unirmi alla conversazione.
Sono in pensiero per i cavalli, per Wood e per Elizabeth, che non vedo da qualche giorno. M’innervosisce non sapere nulla di lei.
Sono talmente concentrata da non accorgermi che Vanessa mi sta guardando, con in viso l’espressione di chi la sa lunga.
– Com’è lei?- mi chiede, abbassando la voce e sporgendosi verso di me attraverso il bancone.
Lo stupore mi fa fare molte cose contemporaneamente: abbasso il bicchiere di colpo, arrossisco, mi guardo intorno per accertarmi che nessuno stia ascoltando e apro la bocca per ribattere, ma non mi viene in mente nulla di intelligente da replicare. – Come l’hai capito? – riesco a dire, infine, dopo un sorso di birra chiarificatore.
Lei si stringe nelle spalle, con noncuranza: - è un istinto che si sviluppa con gli anni – risponde, tranquilla.
– Tu vieni dalla città, vero? – le chiedo – Come sei finita a Barnes? -  Adesso sono curiosa.
Abbiamo parlato parecchio nelle serate che ho passato qui, ma non mi sembra di essermi lasciata sfuggire nulla di così personale. Voglio capire chi ho davanti.
Vanessa sorride e continua ad asciugare bicchieri: - I miei sono di qui. Quando ho spiegato loro le mie scelte di vita, mi hanno lasciato la casa, dicendo che l’unica cosa che potevano fare per me ormai era assicurarsi che avessi un posto dove stare, poi il vecchio proprietario mi ha venduto il locale – racconta.
– Quand’ero nella capitale era più facile. C’erano più luoghi d’incontro e un po’ meno pregiudizi. Venendo qui pensavo che sarei rimasta da sola per il resto della vita, finché non ho conosciuto Nathalie – Sorride ancora di più, guardandola servire ai tavoli. Esito un po’: - Non deve essere stato semplice – commento.
Lei scuote la testa: - Non lo è mai, a meno di non vivere a New York. Ma qui ci piace, la gente ci vuole bene, nonostante tutto – spiega.
Mi scruta, con particolare intensità: - Credo che nessuno sappia di te, alla scuderia, o sbaglio?- mi chiede.
– No, non sbagli. Ma credo sia una cosa che non sia necessario far sapere. Sono affari miei – replico, sulla difensiva.
Vanessa ride, alzando le mani: - Non preoccuparti, Emily, non m’impiccerò. Però poi sarà più facile. Se non lo fosse, potrete andarvene. Non credo che tu voglia occuparti dei cavalli degli altri tutta la vita – dice, dimostrando di nuovo di avere un acume notevole nell’intuire i pensieri altrui. Non rispondo niente, ma le sorrido, piuttosto grata.
È un assai raro piacere poterne parlare con qualcuno.

Mentre torniamo verso la scuderia, continuo a pensare alle sue parole, considerando in modo diverso cose che prima avevo analizzato solo vagamente.
Sasha parla il minimo indispensabile, concentrato a guidare ora sotto una pioggia molto più forte. Sentire il furgoncino traballare nelle raffiche di vento, mi riporta di botto alla realtà.
– Non mi piace, Emily – mi confida il ragazzo, scuro in volto. Non ho bisogno di chiedergli cosa. Siamo stati fuori non più di un’ora e mezza, e già le condizioni del tempo sono peggio di prima. Tutti e due abbiamo insieme fretta e paura di tornare, non avendo idea di cosa troveremo.
Appena varchiamo i cancelli, i nostri timori più grandi sembrano essersi realizzati. È pieno di gente che corre concitata verso le stalle. Uno, che si rivela essere Roman, ci fa segno di fermarci e di scendere. È coperto da un impermeabile, ma è fradicio lo stesso.
Mentre gli andiamo incontro, comincia a gridare e a gesticolare: - Forza, sbrigatevi! Metà del tetto della tre è crollato! – Abbiamo appena il tempo di guardarci, angosciati, poi iniziamo a correre, facendoci largo a spintoni fra la folla radunata nella corte. Qualcuno sta tentando di tenere a bada i cavalli già fuori, mentre altri gridano istruzioni e avvertimenti a un gruppo che, a quanto intuisco, è dentro a cercare di far uscire gli altri.
La mia testa sembra scoppiare. Un unico pensiero rutila nella mia mente confusa: Hawkeye è lì dentro, e forse c’è anche Woodback. Non lo sopporto, e ignorando quelli che tentano di fermarmi, corro dentro.
L’enorme voragine nel soffitto fa colare dentro acqua come se fosse una cascata. Quattro box sono rimasti sotto le macerie, e un pugno di uomini è indaffarato attorno all’ultimo.
Le mie viscere si rilassano e si stringono contemporaneamente: Hawkeye era in uno di quelli risparmiati dal crollo, ma in quello a cui stanno lavorando c’era Astrabee.
Mi faccio avanti, e proprio Wood mi afferra e mi tira indietro: - Non guardare, bambina. Gli altri tre box erano vuoti, e gli altri siamo riusciti a farli uscire, ma lei è rimasta sotto. Vieni, non possiamo fare più nulla, qui siamo solo d’intralcio – mi dice, costringendomi a seguirlo, deciso, ma non senza una certa gentilezza. La sua voce è stanca e rotta.
Lo shock m’impedisce di realizzare subito la cosa, così mi trovo a balbettare: - Ma tu stai bene. E gli altri cavalli stanno bene – Wood annuisce: - Sì. Hawkeye è fuori insieme agli altri. Vatti ad asciugare, bambina, poi ci sarà bisogno di te – dice, accompagnandomi lontano dal caos.
Solo vicino agli alloggi, l’adrenalina scende di colpo e capisco che Astrabee è morta.
Mi premo forte le mani sul viso e grido fra i denti, mentre comincio a singhiozzare.
Mi dibatto, per un secondo, quando qualcuno mi circonda con le braccia, ma poi riconosco la stretta e il profumo, e mi lascio andare sulla sua spalla.
Elizabeth mi stringe a sé, gli abiti completamente bagnati: - Pensavo che fossi lì dentro, pensavo che fossi lì dentro – continua a ripetere, piangendo a sua volta. Mi sciolgo in parte dall’abbraccio, per guardarla negli occhi: - Ero fuori. Astrabee è morta – le dico, stringendole le mani così forte da farle sicuramente male, ma lei non ci fa caso.
Mi bacia le labbra, la fronte, gli occhi, e io affondo le dita nei suoi capelli grondanti. Ho bisogno di lei.           

  
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