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Autore: Sara Guinness    01/11/2012    1 recensioni
Anche se questo libro non sarà mai letto da nessuno io non finirò mai di credere in me stessa.
-La vita è come una scatola di cioccolatini,non sai mai quello che ti capita-
Forrest Gump
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1



Erano le sei e mezza di mattina e il pezzo "Underwater" dei Death Cab For Cutie trasmesso alla radio, risuonava in tutta la casa,anzi in quel tugurio in cui abitavo da circa sette mesi,precisamente dal 3 settembre del 2003 da quando quella stronza di mia madre mi aveva cacciato fuori di casa. A Charleville piovigginava. Il sole doveva ancora sorgere,e nella cittadina le luci dei lampioni erano ancora accese,ma benché l’astro era ancora nascosto dietro le montagne come se volesse giocare a nascondino con la luna, c’era già molta gente come vecchiette e donne,che ansimanti andavano al mercato o al lavoro,o alcune,delle donne di malaffare che lasciavano le loro postazioni,impazienti di tornarci la sera stessa. Dalla finestra del salotto di casa mia(o della topaia),situata esattamente all’inizio del terzo piano,e quindi dell’ultimo, si vedeva il vialetto di Sansberry Street,il quartierino in cui si concentravano il maggior numero di bar in tutta la zona e in cui abitavo io. Sansberry Street,era sinceramente,un bel quartiere. Svegliarsi alla mattina col profumo di croissant appena sfornati era graziosamente piacevole. Dalla mia finestra si vedeva l’orecchietta,in cui ogni mattina, verso le sette, gli altri coinquilini dell’appartamento in cui vivevo entravano e uscivano. Sinceramente io ogni mattina li spiavo sempre. Un po’ mi piaceva farmi gli affari degli altri. Ogni mattina quando qualcuno usciva ed entrava, io, dietro la tenda della finestra, me ne stavo tutta accucciata e taciturna come se mi nascondessi da un mostro,impaziente di scovare magari qualche curiosità sugli altri,miei amati vicini di casa. Come quando avevo scoperto che il signore DanVanselder,usciva con una donna molto più giovane di lui,mentre,per quanto ne sapevo io e per quanto ne sapessero tutti gli altri dell’appartamento, il signor DanVanselder era vedovo,ed era stato così turbato dalla morte della moglie da aver giurato, durante il suo funerale che non avrebbe mai più avuto una relazione con un’altra donna. Ma si sa certe volte le persone sanno essere più crudeli degli animali,ma povero vecchio,cosa avrà mai fatto lui di male?Magari si sentiva troppo solo e una buona compagnia gli serviva. Comunque,alla fine dei miei sette mesi di permanenza in quella casa…in quella catapecchia avevo assistito a molte più effusioni di quanto una persona può vedere in uno di quei film strappalacrime e sentimentali col solito Richard Gere che prende in mano la situation. In fin dei conti la mia forte e dannata depravazione nel farmi i benemeriti affaracci degli altri non si poteva togliere. Ormai trovarmi ogni mattina a spiare gente era il mio appuntamento mattutino con la gente. In fondo,come avrei potuto conoscere la gente del posto in cui mi ero trasferita,senza essere al corrente di ciò che facevano?modo migliore era spiarli. In ogni modo,il quartiere dove vivevo era sempre affollato di gente. Alla mattina camioncini che trasportavano i giornali o le merci o anche il latte,stupidi ragazzini di età ancora infantile,che si credevano chissà chi,se ogni mattina verso le cinque e mezza o sei uscivano ubriachi dai pub,donne vestite con gonna e tacchi,sottolineare tacchi che si precipitavano in macchina ansiose di arrivare in ufficio tardi. Sansberry Street era l’esempio della città per eccellenza. Mai il suono degli uccellini alla mattina,mai il rumore di un ruscello,mai le grida di bambini innocenti che corrono nei campi di grano,ma sempre,continuamente e ininterrottamente rumori di macchine che sfrecciavano per le strade,le grida del solito pirla di capo che s’incavola coi dipendenti. Insomma ormai ero abituata,e non mi mancava per niente Tolosa. Ormai la mia vecchia casa e tutti i suoi ricordi appartenevano ad un cassettino della mia memoria che non si doveva più aprire. La vita lì era stata troppo dolorosa per poterla ricordare,anche se fino all’età di diciannove anni,prima che iniziassero le furiose liti con mia madre,la mia vita in Francia era stata una favola. Ma meglio non ricordare le cose belle mentre se ne vivono delle brutte. Comunque,la mia vita fino a quel giorno,in Australia era stata di una monotonia assoluta. Ogni mattina mi svegliavo alle sei e mezza con la melodia di qualche canzone trasmessa alla radio,alle sette e un quarto uscivo di casa e alle sette e venti prendevo l’autobus per andare a Canterguile Street,il quartiere dove lavoravo come commessa in un negozio di profumi. Il primo turno di lavoro iniziava alle otto e finiva alle una e venti. Alle una e quaranta,dopo aver percorso tutta Canterguile Street arrivavo a Foklevite Street,dove c’era il fast-food in cui mangiavo sempre dopo aver finito il mio primo turno di lavoro. Alle due e mezza o due e quaranta andavo a farmi un giretto per i negozi aspettando le tre e mezza,l’orario in cui avrei ripreso a lavorare. Il secondo turno finiva alle otto e trenta,un orario assurdo per un negozio di profumi. E’ questo quello che pensavo anche io quando cominciai a lavorarci,ma quando scoprii che il negozio in cui lavoravo,era l’unico,ripetol’unico che c’era a Charleville capii il motivo di un orario così assurdo,di uno stipendio così alto e soprattutto di una clientela così numerosa. Ritornavo a casa verso le nove e mezza o anche più tardi o più presto,dipendeva dai mezzi pubblici. Ecco,questa era la mia giornata. Tutti i santi giorni. Non poteva andare diversamente,in una città in cui per andare da un quartiere all’altro dovevi prendere per forza dei mezzi pubblici,se non avevi una patente,come me. A meno che,non volevi correre come un pazzo per arrivare a qualche fast-food o negozio per mangiare. Quindi mi toccava,dopo aver pranzato andarmi a fare qualche giretto per Foklevite Street,dove gli unici negozi che c’erano erano o sexy-shop o negozi di intimo. Un quartiere alquanto strano Foklevite Street. Era già tanto trovare alla cassa dei commessi che fossero gay,e non transessuali. Ma mi toccava per forza andarci,altrimenti dove avrei potuto pranzare?Foklevite Street era l’unico quartiere vicino a quello in cui lavoravo. Spostarsi in un altro avrebbe sicuramente comportato delle complicazioni. Avrei dovuto cambiare il mio turno di lavoro,e ciò mi avrebbe costretto o ad alzarmi più presto(e ciò non era possibile in quanto io sono una patita della televisione,e quindi mi sarei dovuta perdere il finale di ogni film che vedevo o mi sarei alzata nervosa al mattino) o arrivare a casa più tardi(e neanche questo era possibile,altrimenti non avrei potuto vedere l’inizio del film,e senza l’inizio non si capisce nulla);e io non ero disposta a questo. La mia vita implicava già troppo stress,non se ne doveva aggiungerne altro. Quindi avere degli asfissianti orari di lavoro per una stupida pausa pranzo,che si poteva anche saltare,non mi sembrava giusto;meglio perdere una pausa pranzo ma lavorare lo stesso. La mia vita andava procedendo così,fra un giorno e l’altro con le stesse cose da fare. In fondo mi ero anche abituata,a questa vita. D’altronde non era così brutta la mia vita. Avevo una casa,anche se piccola,un lavoro,anche se con turni soffocanti ma un buon stipendio che mi permetteva di arrivare con un bel bottino di soldi a fine mese. La mia cara e vecchia catapecchia era di 42 metri quadri ma c’era tutto quello di cui una persona normale,senza fidanzato aveva bisogno:c’era il salotto e la cucina nella stessa stanza,la camera con un letto matrimoniale e con collegato il bagno. L’unica cosa che mancava e che forse faceva la differenza era uno sgabuzzino,in cui avrei potuto metterci tutto quello che non ci stava nelle mensole stracolme di dvd. Avrei potuto metterci dei libri,i libri che mi regalava nonna Ginny oppure i miei vecchi vestiti,quelli di quando ero piccola,che avevo preteso da mia madre di lasciarmeli per ricordo. Lei non aveva il diritto di tenerli. Oppure,ancora,ci avrei potuto mettere i miei vecchi ricordi,quelli di quando ero piccola,come le pagelle,i sussidiari,l’attestato del diploma,quello della laurea…benché mi fossi laureata con 110 e lode in scienze delle telecomunicazioni , evidentemente ciò non era bastato per farmi avere almeno un lavoro decente. Forse Dio mi aveva punita per tutte le volte che forse bestemmiavo durante le discussioni con mia madre,ma dato che la mia fede,s’era già volatilizzata dopo la cresima Dio non m’importava granché. Dio non era di certo la persona da ringraziare per avermi dato questa vita,anzi tutte le volte che lo pregavo per farmi morire lui non mi dava ascolto,e ora,che ho ventisette anni,e che me ne sono andata via da mia madre, non mi sembra il momento giusto per mandarmi su,in Paradiso. Ora che ho raggiunto la mia massima felicità vivendo una semplice vita da single fra lavoro e casa Dio non può mandarmi via.
Mi alzai dal letto e mi diressi verso la cucina pulita ,dove la sera prima in preda a non so cosa mie ero messa a pulire il lavandino e ogni sorta di macchia esistente. Erano le sei e mezza, e precisamente alle sette e venti,a circa due palazzi dopo il mio,c’era la fermata dell’autobus. Mancavano solamente cinquanta minuti prima dell’inizio di un’altra classica,tipica,noiosa e monotona giornata di Claire Dubonde.











  
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