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Autore: HippyQueen    01/11/2012    0 recensioni
Meredith è una donna matura, abbandona la sua terapia psicologica prima che questa sia conclusa: non vuole sentirsi bene, non vuole dimenticare ciò che le è successo. La sua esistenza è stata profondamente segnata da due amori, nati e cresciuti allo stesso tempo, molto diversi ma sempre molto forti.
"Sono innamorata di quel ragazzo, lo so, me lo sento. Eppure l'amore che provo nei confronti di quella ragazza supera ogni confine, ogni limite mi sia mai stato imposto. Posso amarla come mai amerò nessuno."
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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Liz rollò la canna, l’accese ed aspirò. Chiuse gli occhi e con un sorriso si appoggiò allo schienale. Guardai mia sorella attentamente, e la trovai molto bella. Liz aveva i capelli castano chiaro, scalati, lunghezza media alle spalle; i suoi occhi erano grandi, verdi, il suo naso non importante, le sue labbra ben disegnate.
Mi accomodai a mia volta, rilassandomi mentre mi passava la sigaretta e facevo un tiro. Chiusi gli occhi e la mia mente venne invasa da colori nuovi. Non ero mai veramente fatta, ma anche un solo tiro mi procurava degli effetti collaterali. Così, mentre Liz faceva strane facce allo specchietto retrovisore, scoppiai a ridere.
“Credi che arriveremo sane e salve al concerto?”
“Ah-ah-ah” rispose mia sorella, “Spero tanto di sì!”
“Concerto del cazzo!”
“Ah-ah-ah!”
Sballando un po’, suppongo, arrivammo al concerto. Liz parcheggiò completamente storta, ma nessuna delle due poteva davvero rendersene conto, sebbene avessimo solo fatto qualche tiro, in due, poi.
“Ehi, le sorelle strafatte!”, ci accolse Taylor, il ragazzo di Liz. “Dov’è la mia bambina preferita?”, prese mia sorella e le toccò malamente il seno. Lei ridacchiò e giocherellò con il suo giubbotto, poi prese una pasticca che una ragazza le allungò. Persi mia sorella di vista tra la folla, mentre mi nascondevo in un angolo, cercando di combinare qualcosa di buono. Oh, perché avevo accettato di partecipare a quella festa? Odiavo quel posto. Odiavo Taylor e quello che faceva a mia sorella. Mi sentivo in dovere di proteggerla, ma sapevo che non mi avrebbe mai permesso di separarli. Conoscevo mia sorella troppo bene per sbagliarmi. Lei voleva spassarsela per un’altra sera, una ancora, voleva che inventassi una scusa con nostra madre al telefono, permettendoci così di passare la notte a smaltire i postumi di una sbornia a casa di qualche misericordioso che in cambio avrebbe sicuramente richiesto qualcosa.
Sebbene a quattordici anni io fossi una specie di mostro, ero vergine. Non avevo mai lasciato che uno degli sporchi amichetti di mia sorella mi toccasse; dopo la mia, di amichetta, non avevo avuto relazioni. Non volevo che fosse una cosa stupida, la mia prima volta; suona scontato, ma se non altro volevo essere consapevole di quello che avrei fatto, non svegliarmi la mattina dopo in posizioni di dubbio gusto e chiedermi se per caso non mi fossi spinta troppo in là. Volevo che fosse un ricordo piacevole, dolce, da degustare, non un rimpianto e avevo come il presentimento che le amicizie di mia sorella non fossero le migliori per questo genere di cose.
Nella folla del concerto – un gruppo di drogati che avrebbe cantato delle cover assurde di gruppi punk, steccando di continuo (ma nessuno l’avrebbe notato, fatti com’erano) – trovai qualche mia amica e mi sedetti su uno dei divanetti più lontani con loro.
“Vuoi un drink?”, mi chiese un ragazzo sui diciotto anni, ammiccando un po’ troppo.
“Non ho intenzione di dartela stasera.”, risposi, distogliendo lo sguardo dai suoi denti già rovinati dal fumo. “Né mai.”
Lo persi di vista più o meno subito. Una coppia di ragazzi si baciava davanti a me, forse inconsci di quello che succedeva. Odiavo questo genere di feste, ma per mia sorella potevo sopportarle. Delle volte mi chiedevo che fine avremmo fatto se fossimo state entrambe figlie uniche. Lei, quasi certamente, sarebbe morta a tredici anni; investita, sequestrata, non so; oppure, sarebbe stata rinchiusa in un carcere minorile. Io, al contrario, avrei studiato come una forsennata, sarei stata senza vita sociale, senza amicizie, senza aver mai provato nulla, senza aver mai davvero vissuto; sprecato i miei anni più spensierati, in cui sbagliare era dovere e non piacere, senza rendermene conto o senza davvero pensarci.
Una testa si appoggiò sulla mia spalla ed io, allarmata, mi voltai di scatto.
“Oh” sospirai. “Sei tu.”
Ashley era la migliore amica di mia sorella. Avete presente quelle bambine che si conoscono all’asilo e poi crescono assieme, senza tante differenze? Sono le bambine più alte della classe alle elementari; sono le più mature delle medie; sono le più fiche delle superiori. Okay, forse Liz non era proprio la più matura, ma la sua amicizia con Ashley era di questo tipo. Si conoscevano davvero da sempre e non avevano mai avuto problemi. Quando erano all’asilo, avevano una cotta l’una per l’altra. Si sa, quando si è piccoli non si bada tanto alle regole, ed è una delle poche cose che amo dei bambini. Loro vogliono solo imitare i grandi, se ne fregano davvero di chi hanno accanto. Se i grandi si baciano, anche i bambini vogliono baciare. E che spiegazione si da al bacio? Il bacio è amore, quando sei piccolo. Che cos’è l’amore, mamma? L’amore è quando vuoi  bene a un’altra persona. E da bambini si vuole sempre bene alla propria migliore amica. Si darebbe l’intera cesta dei giochi per lei, e la cesta dei giochi vale cento volte di più della vita. E se da bambini capita, si da un bacio alla propria migliore amica. Be’, Ashley e Liz hanno passato la scuola materna seguendo questo standard di amicizia. Sono passate alle elementari, nella stessa scuola, e si sono affiliate, non separate, come delle volte succede. Sono cresciute insieme, scambiandosi i fidanzatini e tenendosi per mano. Quando sono arrivate alle medie, be’, sono totalmente cambiate assieme. Non è come quando una resta indietro e l’altra intraprendente strade a sé, frequentando altra gente e lasciando l’altra alle spalle. No, nessuna delle due ha avuto paura, anzi, si spronavano a vicenda. Quello che a me è sempre mancato e che ho sempre trovato in mia sorella, ovvero qualcuno che mi spingesse a provare cose nuove e smentire la mia quotidianità. Si sono fatte coraggio e hanno chiesto a dei ragazzi più grandi una sigaretta, quando avevano solo dodici anni. Vestite con jeans scuri attillati, minigonne o vestitini, scarpe coi tacchi e accenni di trucco nero, credendosi molto europee, diedero inizio ad uno nuovo stile di vita. Le sigarette fumate di nascosto nella mia terrazza, gli alcolici, mescolati in borracce sportive. Al primo anno di liceo, le pillole dietro ai pupazzi, le canne la sera fuori con gli amici, le notti passate fuori l’una dall’altra, le mani che non stavano al loro posto, ma scendevano, scendevano sempre più in basso, che sfioravano i seni ma non si soffermavano dove avrebbero dovuto; all’insegna del peccato, secondo il cristianesimo, Liz e la sua migliore amica raggiungevano la gioia l’una nelle braccia dell’altra, soffocando i gemiti con dei baci rubati, che servivano solo a creare un’atmosfera speciale. La mattina dopo, come se niente fosse, ognuna tornava dal proprio ragazzo, suggellando quella complicità con una semplice occhiata.
Ashley era sempre stata fedele a mia sorella, e Liz lo era stata con lei. Nessuna si era mai stancata davvero di quell’amicizia, perché non erano troppo diverse né troppo uguali per annoiarsi. Se nessuna faceva da guastafeste ma, al contrario, offriva sempre nuovi stimoli, come voler chiudere una storia simile?
 
Ashley mi guardò con i suoi enormi occhi azzurri. Ashley era una ragazza semplice, dai lineamenti dolci; i suoi capelli erano biondi come il deserto del Sahara nelle cartine fisiche (come sostenevano i suoi fratelli minori), i suoi occhi del color del mare. Adoravo gli occhi di Ashley; ti ci potevi vedere riflessa dentro, ti ci potevi perdere, come in un oceano. Come quando guardi il mare e ti chiedi: tutto questo finisce, ad un certo punto? La risposta la sai, ma non ci puoi credere. Quella distesa d’acqua non ha fine. Non ha inizio. Non la si può racchiudere finché rappresenta una libertà. Quando guardavo l’oceano delle coste a sud della Florida, be’, aprivo le braccia e chiedevo all’aria di portarmi via, sussurrando parole dolci al vento che sembrava esaudire le mie preghiere.
Gli occhi di Ashley erano così.
“Non credo di volermi sballare, stasera”, mi disse. “Però tua sorella sembra strafatta.”
“Si è fumata una canna, prima, si.”, okay, questo glielo concessi. Ashley era un po’ quella più responsabile delle due. “E credo che Taylor le abbia dato qualcosa di strano.”
“Una volta ci siamo ubriacate e ci siamo ritrovate a letto assieme.”
“Sì, Ashley. Quanto hai bevuto stasera?”, la presi. I suoi occhi cominciavano a dilatarsi e a muoversi; il suo alito sapeva da alcool e io ero consapevole del fatto che avrei dovuto farle da babysitter per quella serata. “Da quanto tempo sei qui?”
“Uhm.. che ore sono, Meredith? Però, vedi, non ho bevuto tantissimo.. è che quel ragazzo al bar è davvero un gran pezzo di gnocco, non credi?” lo indicò spudoratamente, senza farsi tanti problemi. Io rivolsi lo sguardo in quella direzione, trovando un ragazzo abbastanza carino che shakerava un drink.
“Vuoi portarmi a casa, Meredith?”, mi chiese. “Posso dormire da te? Mia madre mi uccide se mi vede così!”
Acconsentii, riluttante, e trovai due mie amiche che se ne stavano appunto andando. A loro parere il concerto era un disastro, e io non avevo intenzione di dar loro torto. Mi diedero un passaggio in macchina, nascoste sotto i sedili, ad aspirare l’odore di piedi, caramelle alla menta e briciole di pane, e potei portare Ashley dentro casa.
Mia madre, all’erta, saltò sul divano non appena sentì la porta spalancarsi.
“Meredith? Dove sei stata? Dov’è tua sorella? Oh, ciao Ashley, come mai sei qui?”, si alzò dal sofà e s’incamminò verso di noi. Mi studiò e scrutò la ragazza che era con me. Le spiegai, allora, con tono stanco, che Liz si era fermata da delle sue amiche e  che Ashley non aveva i genitori a casa, per quella sera. Sì, insomma, inventai qualche scusa per non farmi fare il terzo grado; mia madre capì che stavo mentendo, oppure si bevve le mie bugie, non lo so e non lo voglio sapere; mi lasciò andare nella mia stanza con Ashley a seguito.
Questa, non appena entrammo, si gettò sul mio letto, si stese supina e mi guardò; portò le braccia alla testa. Indossava una canottiera nera che le evidenziava il seno sodo, e un paio di jeans attillati. Giocherellò con il suo cellulare e mise una canzone che non mi sarei mai aspettata di sentire in una situazione simile; una canzone molto provocante, molto sensuale, molto vecchia e soprattutto molto lesbo.
Mi fece cenno di avvicinarmi ed io non seppi, su due piedi, cosa fare. Ma non mi importava. Ero sola; mia madre era al piano inferiore, la televisione accesa, troppo terrorizzata da ciò che avrei potuto fare per apparire senza preavviso.
Ma le cose non dovevano andare così. Mentre mi chinavo verso Ashley per baciarla, lo stomaco mi si strinse in una morsa assurda, tanto dovetti piegarmi per sottrarmi, almeno in parte, al dolore. Eppure non passava. Lei era troppo ubriaca per rendersene conto; io non ero innamorata di lei, non volevo che lei fosse nel mio letto, non la trovavo abbastanza attraente per considerarla in quel modo, non era il mio tipo, non potevo sforzarmi troppo. Ashley cercò di baciarmi, mi scostai violentemente e mi rimisi seduta. Non aveva odore a coprire quello dell’alcool, la canzone era finita, non era lei, non era lei. Non era lei la mia prima donna. Non poteva essere lei. Ashley cercò di baciarmi la spalla. Non sentivo niente, se non un martello pneumatico all’altezza dello stomaco; non era eccitazione, non era felicità, era una sirena d’allarme: cretina, cretina, scappa finché sei in tempo, non te ne potrai più andare fra due minuti: vattene ora.
E fu quello che feci; scostai Ashley, la spintonai via.
“No, Ashley, no!”, la trattai come un cane. Le urlai dietro cose orribili, e lei mi guardò con quegli occhi enormi, i capelli smorti, mi fissava confusa, come un cane bastonato. Non capiva perché la stessi rifiutando, non capiva che non ero Liz, io non ero mia sorella; non trattavo il mio corpo come un luogo pubblico. Non avrei lasciato che fosse Ashley ad impadronirsi dei miei segreti.
La spintonai fino alla stanza di Liz, le dissi di dormire là e di lasciarmi in pace. Credo di averla sentita piangere, quella notte, ma ero troppo scossa per sentirmi in colpa. Tornai al mio letto, spensi le luci e mi infilai sotto le coperte, chiudendo gli occhi, ancora vestita come una battona sotto la felpa larga. Mi coprii le orecchie per non sentire i singhiozzi – forse immaginari – dalla stanza accanto, la televisione dal piano di sotto, le urla di mia sorella che udivo solo nella mia testa. Non riuscivo a piangere o a provare emozioni; mi contorsi nel mio letto, piegata in due per il forte dolore allo stomaco, cercai di non pensarci ma non riuscivo a distoglierne la mente. Ogni cosa che mi balenava in testa portava ad Ashley, al sesso, al rifiuto, alla solitudine, alla disperazione. Io non ero disperata, non ero sola, o si? Erano quelli i motivi che mi avevano portato ad uscire, quel venerdì sera, con mia sorella, pur sapendo benissimo a cosa sarei andata incontro? Avevo accettato di portare a casa l’amica di Liz, cosciente di quello che sarebbe poi successo? Avevo fatto in modo che la situazione mi sfuggisse di mano? Avevo illuso Ashley, facendole credere che ci sarei stata, per poi andarmene, battere in ritirata?
 
  
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