Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: the65kid    02/11/2012    2 recensioni
"Ci salutiamo. Lo abbraccio. Probabilmente, in un contesto del genere, sarebbe bastato un bacio sulla guancia, o una stretta di mano, a voler proprio esagerare. Però, ho bisogno di abbracciarlo. Di sentire il suo calore, di sentire la sua pelle sulla mia."
Un'irrefrenabile voglia di fuggire. La fuga da ciò che più ci rendeva felici, e che, in un istante, si trasforma in una cupa foresta nera. Cosa c'è di più umano? Un breve racconto di esperienza, di vita, di ciò che tutti noi potremmo vivere o abbiamo già vissuto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

A volte le persone sono capaci di far molto male con le parole; spesso e volentieri non lo fanno neanche apposta, non si rendono conto del grandissimo potenziale che hanno. Quasi credono di essere nel giusto, nel seguire un ideale di correttezza e allo stesso tempo di vanagloria, incuranti di qualsiasi conseguenza o reazione. Non ho mai capito molto questo genere di persone; di solito le evito, di solito faccio finta che non esistano. Non mi posso permettere di soffrire per l’indole sadica del primo capitato. Eppure, prima o poi, uno doveva capitare anche a me. Ahimè, doveva capitare che fosse proprio lui.
“Non mi piaci abbastanza, non voglio una storia con te. Questo è quanto.”
Nella mia vita, ho sempre creduto di poter avere tutto, se avessi desiderato e lottato. Ho sempre creduto di essere bello, di essere intelligente ed interessante. Non potevo, non volevo crederci. Avrebbe significato rassegnarmi, accettare quel che aveva detto. Rinunciare. Una parola che non avevo mai concepito prima nel mio vocabolario. Schiudo leggermente le labbra, facendo un breve sospiro, di quelli che si fanno per riuscire a riprendere il minimo indispensabile di calma e di buonsenso. E’ necessario. Seppur a vedersi sono rimasto impassibile, senza alcuna reazione, il mio ego sta iniziando, lentamente, a ribollire, a confondere le idee e i sentimenti più vari. Muovo impercettibilmente le labbra, e nella mia mente balena una sola frase “C’è un cristo che sanguina e ci guarda con rabbia". Mi viene da ridere. In un contesto simile, in cui la persona che amo mi sta rifiutando, mi sta estromettendo dalla sua vita in via definitiva, mi viene in mente una canzone dei Verdena, e mi sorge naturale cantarla come se fosse la cosa più naturale al mondo. Mi mordo, come mio solito, il labbro, pungendolo con il canino e macchiando il canino con una punta di sangue. Poi giro lo sguardo. Guardo il mare, fisso per un attimo. Mi accorgo dopo un attimo che quel mare, per quanto sia sempre lo stesso, mi è sconosciuto. Mi guarda, come se fossi uno straniero, come se non dovessi essere lì. Forse, ha ragione anche. Forse, non sarei mai dovuto venire lì. “Perché sono venuto qui?” Mi chiedo, sfiorando, quasi inconsciamente, con la mano sinistra una ciocca laterale dei miei capelli, ma ritirando subito la mano al contatto, come se la salsedine che si era intrappolata tra di essi li rendesse terribili, odiosi al tatto. “Sei venuto a soffrire, sei venuto a farti dare il colpo di grazia”, rispose una voce nel profondo del mio cuore. Non che avesse torto. Però, non poteva essere questo il vero motivo. Sarebbe stato come un insana azione masochistica, il desiderio di un malato terminale di farsi staccare la spina prima del previsto, giusto per non soffrire ancora. Nel suo caso, se fosse stato sicuro di questo unico finale, non mi sarei neanche presentato. Avrei cercato, anzi, di dimenticare prima, di stroncare i miei sentimenti sul nascere. Ma allora, perché mi trovo qui? “Forse, speravi che cambiasse idea”, rispose un’altra voce, più bonaria e triste, quasi come la voce delle madri che consolano i figli dopo un fallimento o una delusione subita. Ovvio. Era ovvio che speravo che cambiasse. Speravo, soltanto, di avere una seconda possibilità. Di riprovarci. D’altronde, ci conoscevamo da poco, e ci siamo frequentati come “coppia” per un tempo estremamente breve. Perché, quindi, non provare a ricominciare? Un altro sospiro. Sì, era lì anche per questo motivo, ma in breve si rese conto che la cosa che lo aveva spinto a venire lì, in tutta fretta e spostando tutti i suoi impegni, era stato l’ardente desiderio di risposte. Voleva sapere la verità, voleva sapere se aveva sofferto per due mesi soltanto per quel giorno triste. O, forse, per niente.

Non ce la faccio più. Inizialmente credevo, speravo, di contenermi. Sì, insomma, alla fine sono sempre riuscito a trattenermi nella mia vita. Non vedo perché non farlo davanti a quest’altra delusione. Eppure, stranamente, non ce la faccio. Prima una, poi due, le lacrime iniziano a sfuggire dai miei occhi. All’inizio, quasi, non me ne accorgo neanche. Me ne rendo conto solo quando sento le guance bagnarsi, e istintivamente porto la mano destra per toccarle, per capire meglio cosa stia succedendo. Una consapevolezza amara, un nuovo simbolo di debolezza. Odio piangere in pubblico. Però, non ce la faccio a fermarmi. Inizio a piangere, chinando il capo per non farmi vedere in volto. Mi ha già umiliato abbastanza, non posso, non voglio perdere quel poco di dignità che mi rimane. Mi mordo ancora le labbra, cercando di fermare le lacrime, in questo modo. Ho bisogno di fermarmi, non posso di certo intrattenere una conversazione, di qualsiasi tipo essa sia, in quelle condizioni. Dopo due, interminabili minuti, finalmente riesco a smettere. Mi sento prosciugato, mi sento incapace, mi sento debole. Mi sento di aver fallito, di aver perso l’unica cosa per cui ho mai pensato valesse la pena lottare. Per colpa di quella donna, per colpa del suo ego, per colpa di un mio errore che non ho mai capito quale fosse. E non capirò mai, probabilmente. Lo guardo, fisso. Giusto il tempo di cercare di scorgere qualche sentimento di pietà nel suo sguardo, qualche segno di cedimento, di imbarazzo. Qualcosa su cui fare leva, qualsiasi. Non vedo niente, solo una sorprendente freddezza, un indifferenza tale da rigirare il coltello nella piaga. Quasi come se non c’entrasse nulla con la scena che gli si poneva davanti, continuava a grattare fastidiosamente con il cucchiaio il fondo della sua tazza di caffè, quasi a volersi prendere gioco di me. Quasi a volersi prendere gioco dei miei sentimenti.

“Ora devo andare. Ho il treno tra un ora e mezza, e non vedo altri motivi per attardarsi.” Non mi aspettavo, ad esser sincero, che volesse rimanere ancora in mia presenza, dopo una tale reazione. Anzi, se fossi stato in lui, me ne sarei andato da molto prima. Sarà stato un minimo di senso di rispetto per il mio stato a trattenerlo, o forse il suo desiderio di rimanere, nei limiti del possibile, mio amico. Non lo capisco.
“D’accordo, allora ci sentiamo.” Rispondo io, con un filo di voce, in maniera alquanto inattesa. Una persona normale, al mio posto, avrebbe cercato di tagliare tutti i ponti, avrebbe cercato di dimenticare, di lasciarsi tutto alle spalle. Io invece, non posso. Soprattutto, però, non voglio. Lo amo, non posso pensare di potergli dire addio così. Non voglio che finisca così.
“Vuoi fare un tentativo, di rimanere amici?” Mi dice, con un certo stupore mal celato. Probabilmente non se l’aspettava da parte mia. Sono sempre stato una persona orgogliosa, una persona che non si guarda troppo alle spalle. O almeno, lo sono per tutto ciò che non riguarda l’amore.
“Sì, ci voglio provare. Ma cercami tu. Io non ti cercherò, non ti chiamerò, non ti scriverò. Se ci tieni davvero, hai il mio numero.” Sono le uniche cose che riesco a dire. Per non sbottare di nuovo a piangere, sopprimo la cosa con il cinismo, con l’acidità. E, poiché non mi riesce neanche trattarlo male, questo è il massimo che riesco a fare. Probabilmente, se la voce non fosse stata mezza strozzata, e gli occhi non fossero stato rossi e gonfi, sarebbe bastata anche, come frase. In quello stato, invece, sembrava quasi l’appello di pietà di un cane bastonato. Un ulteriore perdita di dignità, oserei dire.

Ci salutiamo. Lo abbraccio. Probabilmente, in un contesto del genere, sarebbe bastato un bacio sulla guancia, o una stretta di mano, a voler proprio esagerare. Però, ho bisogno di abbracciarlo. Di sentire il suo calore, di sentire la sua pelle sulla mia. Ne ho troppo bisogno, sento quest’esigenza come non mai. Lo stringo, contando quasi nella mia testa i secondi, sperando che quel momento non finisca mai. Pregando che quello sia stato solo un brutto sogno, e che non mi sono ancora svegliato. Che è ancora notte, che sto ancora rigirandomi nel mio letto, che sto ancora sognando il suo volto. Che quei due mesi non siano passati, che sia ancora la notte in cui ci siamo conosciuti.

Mi riscuoto solo subito dopo che mi lascia. Si gira, sorride, e inizia a camminare, senza voltarsi. Non mi guarda neanche. Personalmente, ho sperato fino all’ultimo che per un qualche motivo, si girasse, mi abbracciasse, mi baciasse. Che qualcosa cambiasse, di avere ancora la possibilità di sperare, di sognare. Mi sfugge un'altra lacrima, singola, solitaria, che scende lentamente dal mio occhio destro, solcando la guancia e arrivando fino alle labbra. La lecco, socchiudo gli occhi, e quasi come un ubriaco, con una certa difficoltà nel camminare, mi giro, e mi avvio verso la strada da cui sono venuto. Nella mia mente, il vuoto. Probabilmente, era la solita crisi da panico, o forse la delusione di esser stato abbandonato, sia a livello emotivo, che a livello fisico. Ah, già. Come tornare a casa, ora? Sono a malapena le tre del pomeriggio, e non so neanche dove sta la fermata dei pullman. Sono da solo, in una città che non conosco, nel bel mezzo del niente, con pochi soldi in tasca e neanche un amico su cui poter contare. Un qualcosa di molto triste, se non fosse triste già il contesto stesso dell’incontro appena concluso. Tutti pensieri che mi balenano appena in testa, come se fossero importanti, ma non fossero prioritari. Come se fossero parte di un altro mondo, come se fossero divisi da me da un qualche muro o barriera. Cammino per quella via dritta, di cui non riesco neanche a scorgere la fine, girandomi solo una volta, indietro, appena dopo dieci metri percorsi. Non c’è nessuno, né lui, né nessun altro. Sorrido amaramente, e mi rigiro, continuando a camminare. Prima un passo, poi un altro. Un passo ancora, sempre più veloce, finché il semplice barcollare non si trasforma in una corsa folle, stancante, per allontanarmi sempre più velocemente da quel luogo; per cercare di allontanarmi dal mio dolore. Per cercare di sfuggire a quello che si è trasformato in un vero incubo.  

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: the65kid