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Autore: La neve di aprile    19/05/2007    1 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
#2 The long long night in the city of the angels

 

 

PARLA ROXANNE:

Quella sera fu a dir poco memorabile.
Ricordo ogni dettaglio, ogni particolare, ogni piccola insignificante parola che sentii durante quella notte che continuo a considerare la più bella della mia vita.
I bagliori dei flash, l’assordante brusio della folla che si accalcava addosso a quel palco enorme che era vicino e lontano al tempo stesso.

L’aria profumava di pioggia, le stelle facevano capolino negli sprazzi scuri del cielo acora occupato da nuvoloni neri e minacciosi.
Ero ansiosa come quando, a scuola, si aspetta di conoscere il voto del compito che decreterà la tua bocciatura o la tua promozione.
Dopo un pomeriggio passato a saltare da una stanza all’altra in preda all’euforia e all’impazienza, improvvisamente avevo paura. Paura di rivederti, paura di scoprirti diverso. 
Ma mi imposi di raggiungere quella maledetta transenna all’estrema destra del palco: quando i riflettori si spensero all’uninsono e le urla si alzarono verso la notte, io la stringevo tra le dita come se da quella dipendesse la mia vita intera, lottando contro l’istinto di vomitare o di scappare via a gambe levate, senza guardarmi alle spalle.

 

 

All that noise, all that sound
All those places I got found
And birds go flying at the speed of sound
To show how it all began
 

Coldplay, Speed of sound

 
 

LOS ANGELES, settembre 1987

L’aria avrebbe dovuto essere incredibilmente tersa, quella sera.
Aveva smesso di piovere da qualche ora e un vento invisibile stava spazzando via quelle grosse nubi cariche di rabbia e di tempesta, scoprendo a tratti grandi porzioni di nero dove le stelle brillavano lontane. Ci sarebbe dovuto essere un buon profumo di erba bagnata, d’inizio autunno.
E invece, una fitta cortina di fumo sovrastava un mare pressoché infinito di teste e striscioni, perdendosi a vista d’occhio fino all’orizzonte, fino al confine tra terra e cielo, fino a una fitta muraglia di case scure in lontananza.
Roxanne riportò lo sguardo al palco ancora deserto, illuminato da accecanti fasci di luce bianca.
Dall’angolo dove si trovava, schiacciata da migliaia di persone che si ammassavano minuto dopo minuto sempre più inquiete alle sue spalle, riusciva a scorgere una gigantesca bandiera con il logo della band sventolare appena nella la brezza notturna.

Impaziente, si mordicchiò le nocche della mano destra, fissando insistentemente un punto non ben definito davanti a se.
Chiedendosi quando Izzy sarebbe comparso, cacciò le mani nelle tasche dei jeans, curvando appena le spalle per spingerle più in fondo.
Dondolò sui piedi un paio di volte, prima di sbuffare: era fin troppo consapevole di essere il nervosismo fatto a persona.

È che odio le attese, si disse accendendosi una sigaretta con apparente disinvoltura, non mi piace aspettare. E più il tempo passa, più io mi convinco che non verrà nessuno.
Soffiò fuori una densa nuvola di fumo, affrettandosi ad inspirarne un’altra per coprire quel miscuglio di pensieri e ricordi che si affacciava alla superficie.
Il sapore amaro in bocca, il soffice rimbombo in testa per il brusco calo di ossigeno.
Si sentì subito meglio, al punto che si azzardò ad appoggiarsi con disinvoltura alla transenna di freddo ferro che le impediva di avanzare, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di una guardia in uniforme nera, che in quel momento le passava accanto.
Ricambiò lo sguardo con altrettanta cortesia, senza muoversi di un millimetro.

Cosa diavolo avesse poi quella guardia da guardarla male, lo sapeva solo il cielo: avrebbe dovuto esserle grata per non essere come quei pazzi scatenati che cercavano di salire sul palco e che facevano sgobbare parecchio gli addetti alla sicurezza.
Certo, a concerto iniziato sarebbe stato tutto un altro discorso, lo sapeva perfettamente: i Guns’n’Roses avevano lo strano potere di privarla di ogni inizibizione, lasciandola sola con il suo istinto, era molto più che probabile che anche lei avrebbe provato a scavalcare la transenna per salire sul palco.
Del resto, era anche per questo che li amava.
La loro musica sembrava essere capace di entrarle in circolo, nel sangue, e mandarla dritta in paradiso, senza fermate intermedie.

Si alzò in punta di piedi, sentendo le suole della All Star sbiadite scivolare sulla fanghiglia che si nascondeva tra l’erba, a terra, e si allungò in avanti. Chissà, forse sarebbe riuscita a scorgere qualcuno aggirarsi dietro il palco.
Non si accorse minimamente che Izzy la stava guardando, nascosto dietro una colonna di casse sistemate ai lati del palco, ma non ebbe modo di vederlo, perché i riflettori sul palco si spensero all’uninsono, facendo precipitare il buio sulla folla che reagì con un unico, assordante, boato.
La terra tremò sotto i piedi di Roxanne mentre tirava un’ultima boccata dalla sigaretta e la lanciava in una pozzanghera oltre la transenna.
Strinse le dita contro il ferro, imponendosi di fare qualsiasi cosa.
Era talmente terrorizzata che sentiva il battito del cuore rimbombarle nelle orecchie talmente forte che temeva scoppiasse da un momento all’altro. Era questione di secondi. Non ebbe nemmeno il tempo di notare che di Izzy non c’era traccia che le prime note del riff di Welcome to the jungle la fecero urlare assieme a qualche altro migliaio di persone.

I riflettori si accesero di nuovo con uno schiocco secco, il bagliore fu tale che si vide costretta a chiudere gli occhi con forza e alzare una mano davanti al viso.
E quando la abbassò, al centro del palco avanzava un ragazzo vestito completamente di bianco.
Una bandana nera sulla fronte, capelli talmente lisci da sembrare finti e grandi occhiali da sole.
Inconfondibilmente Mr. Rose.

Con un sorriso che sapeva vagamente di scherno, allargò le braccia come a voler abbracciare la folla e urlò un saluto che si perse nelle grida del pubblico.
Welcome to the jungle, we got fun 'n' games, we got everything you want.” iniziò a cantare, sovrastando il delirio che sembrava essersi impossessato di ogni singola persona “Honey we know the names , we are the people that can find whatever you may need: if you got the money honey we got your disease!
E mentre il mondo sembrava esplodere, mentre la terra tremava, mentre la chitarra di Slah strappava l’anima e la voce di Axl saliva e scendeva seguendo la melodia, mentre ogni singola nota le entrava dentro e la lasciava senza fiato, Roxanne scorse qualcuno che non si sarebbe mai aspettata di vedere lì, sul palco.
Izzy.
L’Izzy che lei aveva incontrato quel pomeriggio, il ragazzo a cui aveva detto una marea di bellissime parole, il ragazzo che aveva baciato, il ragazzo che aveva accusato di fingersi il chitarrista dei Guns, era davvero Izzy Stradlin.
Con gli stessi occhiali da sole, gli stessi capelli neri arruffati, la stessa aria indolente, con una sigaretta distrattamente abbandonata tra le labbra socchiuse.
Le stesse labbra che si erano gettate sulle sue, qualche ora prima.
Le due immagini, quella dell’idolo che la faceva sognare con una canzone e quella del ragazzo di cui si sarebbe potuta innamorare si sovrapposero l’una all’altra, sino a fondersi completamente, diventando un tutt’uno.
Non ebbe nemmeno il tempo di arrossire: la musica la rapì, penetrando in ogni singola fibra del suo corpo e facendole dimenticare il resto del mondo.
Come tutte le persone attorno a lei, si ritrovò a saltare e ad urlare con le braccia al cielo come se da quello dipendesse la sua intera vita.

 

Izzy era in un’altra dimensione.
Letteralmente.
Mentre premeva con forza le dita sulle corde della chitarra per strapparle quegli accordi che facevano impazzire il pubblico, si disse che sarebbe potuto morire felice.
Che se un fulmine lo avesse fulminato ora, in quel momento, non gli sarebbe importato più di tanto perché era in sintonia con tutto e tutti.
Mentre se ne stava schiena contro schiena con Axl, Slash e il suo ridicolo cilindro nero alla sua destra, Duff e Steven alle spalle, era nel suo elemento.
Come se fosse nato per stare lì, su quel palco, in quel preciso momento.

Lasciò spegnersi le ultime note di Mr. Brownstone e si scambiò un’occhiata con Axl, che sorrise.
Il biondino si passò una mano tra i capelli, dopo avergli fatto segno che avevano tre minuti scarsi per riprendere fiato, e urlò qualcosa nel microfono, scatenando un’ennesima ondata di caos da parte del pubblico.
Stordito dall’intensità del rumore, afferrò una bottiglietta d’acqua e ingurgitò un lungo sorso, che scivolò nella sua gola arida lasciandosi dietro una scia di sollievo.

Passandosi il polso sulla fronte, gettò un’occhiata al pubblico: lei era ancora lì.
Sembrava pendere letteralmente dalla labbra di Axl, appoggiandosi alla balaustra davanti a lei.
Era bella, pensò mentre un sorriso gli si faceva largo sul volto madido di sudore.
Era dannatamente bella, con le guance arrossate per il caldo e gli occhi lucidi di felicità.

“Fa impressione, eh?” domandò Slash, comparendo alle sue spalle.
Izzy non lo guardò, ma sentendo uno scatto metallico subito seguito da un improvvisa nuvola di fumo immaginò si fosse acceso una delle sue solite sigarette.

“Cosa?” replicò distratto, cogliendo l’occhiata che la ragazza gli aveva lanciato, prima di arrossire furiosamente e tornare a guardare il cantante.
La vide gridare, alzando le braccia al cielo.

“Tutto questo enorme, cosmico casino.” stava dicendo l’altro chitarrista, affiancandoglisi “Fa impressione.”
“Già.” commentò, togliendosi gli occhiali da sole per vedere meglio quell’enorme distesa di corpi che si agitava, come un gigantesco animale pronto a scattare per avventarsi sul palco.
Urlavano, cantavano, ballavano, saltavano.
La terra tremava, le stelle si oscuravano, il tempo diventava relativo.

“La magia della musica. Tu sei qui, che suoni senza pensare ad altro che alla musica, e loro reagiscono come la tua chitarra, facendoti scoprire che hai un potere su di loro che fa quasi paura.” rise Slash, tra un tiro e l’altro, iniziando a pizzicare le corde dello strumento che portava a tracolla, come a voler dimostrare quello che aveva appena detto, con lo stesso amore che un amante avrebbe dedicato alla sua donna.
Era fatto così Slash.
Messo insieme alla meno peggio dalla mano del caso, del tutto incapace di relazionarsi con le persone, privo di tatto e sensibilità, dolce solo con la sua chitarra e innamorato unicamente del sapore del whisky, ma capace di notare le piccole cose nei momenti più disparati.
Dopo un attimo di smarrimento, rise a sua volta, seguendolo fino a raggiungere il centro del palzo, davanti a quella distesa in subbuglio.
Dimentico degli occhi scuri di Roxanne, si abbandonò a Paradise City tenendo d’occhio il pubblico: ed era vero, Slash aveva ragione. Saltavano, quando la musica saliva.

Ballavano, quando la melodia si faceva più morbida.
Cantavano, quando le canzoni diventavano dolci.
D’un tratto comprese perché in tanti guardassero alla luna con ammirazione: il suo potere di causare le maree, di trascinare enormi quantità d’acqua con se, era qualcosa di assolutamente splendido.
E lui provava la stessa identica sensazione, mentre intonava assieme ad Axl un ritornello o lottava con Slash, chitarra contro chitarra, in una nuvola di fumo sbiadito.



Roxanne lo guardava ammirata, dal suo piccolo spazio alla destra del palco.
Il solo vederlo lì, in piedi sotto i riflettori, la faceva sentire talmente bene che temeva il cuore le schizzasse fuori dal petto per la troppa forza con cui batteva.
Doveva sforzarsi per ricordarsi di respirare.

Moriva dalla voglia di scavalcare quella maledetta transenna che le si era conficcata nello stomaco e minacciava di tagliarla a metà se non si fosse allontanata un po’, e salire su quel palco con un unico, chiaro obbiettivo ben fissato in testa: saltargli addosso. Letteralmente.
Coprirlo di baci. Tappargli la bocca.
In barba alla folla che l’avrebbe vista, in barba al fatto che sarebbe stata cacciata fuori e avrebbe dovuto ascoltare il resto del concerto dalla sua macchina, nel parcheggio. Saltare o non saltare?

Strinse inconsciamente le dita attorno al ferro, i muscoli tesi, pronti allo scatto. Ma ne valeva davvero la pena? Certo, se ci fosse riuscita sarebbe stata una di quelle avventure epiche, da tramandare ai nipoti, da ricordare con orgoglio.
Ma se non ci fosse riuscita... beh, quella era un’altra storia.

“Fanculo.” sbottò alla fine.
La vita è una sola, pensò mentre si sollevava verso l’alto e passava le gambe oltre quel muro in miniatura che la separava da Izzy, da una momentanea gloria e da una molto più probabile rovina. Se non lo faccio adesso, quando dovrei farlo?
Si chiese mentre atterrava agilmente dall’altra parte e si lanciava in avanti, di corsa, con un sorriso che le si allargava sul viso.

Era saltata.
Era davvero saltata e stava correndo verso un Izzy che la guardava a bocca aperta, rischiando di far cadere la sigaretta che aveva tra le labbra e portando avanti la canzone meccanicamente.
Non sapeva nemmeno se sperare che riuscisse davvero a raggiungere il palco o che venisse fermata prima. Rimase attonito, guardandola saltare oltre una pozzanghera, schivare agilmente una guardia e fermarsi davanti a lui.

“Izzy.” la sentì gridare, sovrastando di poco la voce di Axl intento a strillare tutto il suo immenso e smisurato amore per Erin Everly.
Sembrava non aver notato quello striscione che svettava in mezzo al pubblico con su scritto qualcosa che suonava vagamente come “Erin, you’re such a bitch, go to hell”.

Il chitarrista non seppe trattenere un sorriso, mentre lei si guardava attorno e posava le mani sul palco, prima di darsi una spinta e cercare di tirarsi su: per un attimo sembrò che c’è l’avesse fatta.
Vedeva già il trionfo brillare nei suoi occhi scuri.
In quel momento Duff gli si avvicinò, come a chiedergli perché si fosse incantato in quel preciso punto del palco, e scorse la ragazza che si lanciava letteralmente in avanti nell’esatto momento in cui un omone le afferrava una caviglia e la strattonava giù con forza, facendola cadere faccia a terra con un gran tonfo.

“Ouch!” esclamarono assieme i due artisti, mentre Roxanne iniziava a dibattersi come un’ossessa, scalciando e dimenandosi.
Izzy scoppiò a ridere, mentre colpiva la faccia della guardia con un calcio e si liberava: fu quella stessa risata a morirgli in gola quando la vide improvvisamente sparire con un altro urlo, trascinata via da altre cinque omaccioni dall’aspetto poco amichevole.

Ma non ebbe tempo di chiedersi dove sarebbe finita.
Non ebbe tempo per pensare.
L’uragano Nightrain lo strappò via dal palco, portandolo in un posto dove non ci sarebbe dovuto esser altro al di fuori della musica.

Gettò un’occhiata al cielo: non c’erano più stelle, solo un’enorme distesa nera dove enormi nuvoloni neri si ammassava minacciosi, brontolando in lontananza.
Che stesse arrivando un altro temporale?

 

Era l’inizio di un nuovo giorno, quando il concerto finì.
Esausti, i cinque musicisti abbandonarono il palco assieme, dopo aver ringraziato il pubblico.
Con le orecchie ancora piene di urla, applausi e ovazioni si rintanarono nella stanzetta che era stata riservata loro.
Quando iniziarono a parlare, tutti contemporaneamente, si stupirono poco della stanchezza che colorava le loro parole.

“Ohi, Izzy.” esclamò ad un certo punto Steven, cercando di passarsi una mano in quella criniera impazzita che aveva al posto del capelli “Ti sei un po’ perso a metà di Sweet child, sai?”
Il chitarrista annuì stancamente, accenendosi una sigaretta.
Ignorò volutamente tanto la critica che si nascondeva nelle parole del batterista quanto il flash che gli aveva attraversato la mente.
Il viso di Roxanne, illuminato dai bagliori della fiamma di un accendino, sotto la pioggia.

“Capita.” scrollò le spalle, massaggiandosi il collo indolenzito.
“Beh, del resto c’era una pazza che minacciava di saltargli addosso.” ghignò Duff “Un gran bel pezzo di ragazza, per essere sinceri.” commentò leggero, riempiendosi un bicchiere con qualcosa che era tutto meno che acqua.
Ingurgitò il liquido ambrato, abbandonandosi contro lo schienale di un divano sfondato recuperato in chissà quale discarica.

“Vabbeh, pazze a parte...” s’intromise Axl, con un sorrisetto inquietante sul viso “Direi che è andata piuttosto bene.”
“Dire che andata bene è un eufemismo, cazzo!” sbottò Slash, calcandosi il suo inseparabile cilindro nero in testa.
“E’ andata fottutamente bene.” commentò laconico Steven, molto più concentrato sulla bottiglia che Duff gli aveva passato.
“Mh-mh.” mugolò Izzy, che secondo un copione che si ripeteva sistematicamente dopo ogni concerto, avrebbe dovuto rincarare la dose.
Avevano iniziato a farlo nei primi tempi, quando erano poco più di una delle centinaia di band che tentavano di calcare la scena a Los Angeles, quando il loro nome non valeva niente e mostrarsi sicuri di se era molto più che fondamentale.

Quattro facce si voltarono verso il ragazzo, che sembrava intento a fissare il vuoto.
“Contempli la geometria astratta dell’universo cercando di scoprire il mistero della vita fissando una macchia sulla parete?” s’informò premurosamente Axl, sedendosi accanto all’amico e passandogli un braccio attorno alle spalle con aria meditabonda.
Izzy sbuffò, scrollandoselo di dosso.

Il front-man non mollò.
“Ah, Izzy Izzy!” sospirò, scuotendo il capo “Sarà mica che ti sei innamorato?” lo prese in giro.
Lo ignorò, senza neanche guardarlo torvo. Gli occhi di Slash vagarono tra i due, inquieti.

“Sono solo stanco.” commentò, alzandosi in piedi “E me ne torno in albergo.”
“Ma come, non viene a festeggiare con noi?” chiese Steven, dopo una lunga sorsata di liquore che gli bruciò la gola e il fegato.
Scosse il capo “No, questa volta passo. Davvero, sono solo stanco.” Sorrise, fermandosi davanti alla porta “Ci si vede tra un paio d’ore, okay?”
Non aspettò i saluti di nessuno, varcando la soglia della stanzetta e incamminandosi lungo il corridoio.
Era vero, era stanco.
Di essere preso in giro, delle battutine di Axl che quando era euforico non sapeva proprio starsene buono nel suo angolino: in fondo, lui aveva la sua bella, eterna Erin sempre pronta a corrergli dietro.
Lui no.
Lui aveva la musica, i Guns e la sua chitarra.
Per gli amici, non aveva il tempo che avrebbe voluto, preso com’era da quella folle routine che gli dava a malapena tempo di respirare, della sua famiglia non aveva più notizie da anni. Si sentiva solo, e non si vergognava ad ammetterlo.

“Ma maledetta la volta che l’ho raccontato ad Axl, quell’imbecille non ha capito proprio un cazzo!” sbottò, inspirando a fondo una boccata d’aria fresca, che portava con se strascichi d’estate.
Si guardò attorno, constatando che non c’era nessuno oltre l’alta rete metallica che separava il back stage dal parcheggio dove le ultime macchine indugiavano ancora ad andarsene.
Si chiese dove fosse Roxanne, dove l’avessero portata, che fine avesse fatto.
Una strana angoscia gli strinse la gola e gli attorcigliò lo stomaco, costringendolo a percorrere il perimetro disegnato da quella rete, affondando le dita nelle maglie dipinte di verde. Si trattenne dal correre, guardandosi attorno nella grigia luce che precede l’alba senza vedere altro che un’enorme distesa di cemento scuro.

“Dove sei, Roxanne?” mormorò tra se e se, fermandosi per accendersi un’altra, ennesima sigaretta.
Tirò un calcio ad un sassolino, riuscendo persino a sentire il flebilo suoni della pietra che rimbalzava via.

La voce di Roxanne, che gli arrivò da un punto imprecisato alla sua destra, gli parve una risposta alle sue preghiere.
“Certo che sei strano forte, Izzy Stradlin.” commentò pacata la ragazza, che se ne stava appoggiata con un fianco contro la rete, le braccia incrociate al petto.
“E tu sei completamente pazza.” replicò fermandosi la davanti a lei, che si girò stringendo tra le dita il filo metallico.
Trattenne l’impulso di coprirle le mani con le sue.

“Tu dici?” osservò pensierosa, inclinando il capo di lato.
Un livido scuro sullo zigomo destro le trasformava il viso in una maschera.

“E quello?” chiese il chitarrista, sfiorandole il viso con la punta delle dita.
Le socchiuse gli occhi, che brillavano nella penombra.
Non sorrideva, ma era felice. Non aveva mai visto così tanta felicità concentrata in una persona.

“Questo?” scrollò le spalle, con noncuranza “Un gentile souvenir di un’adorabile guardia che non ha apprezzato il gentile tocco dei miei piedini sul suo visino angelico.”
Il ragazzo sorrise, indugiando per qualche attimo di troppo sul suo viso.
Quando lei spalancò gli occhi e socchiuse le labbra, senza però dire nulla, si ritrasse.

“Cosa c’è?” le chiese, senza l’ombra di un sorriso.
“...non lo so.” Distolse lo sguardo, curvando le spalle “E’ come se... oh, non lo so, è strano.” tornò a guardarlo, sentendosi uno sciame di farfalle nello stomaco “Voglio dire, tu sei Izzy! Sei quell’Izzy! L’Izzy che mi è sempre sognato così maledettamente lontano e impossibile, l’irraggiungibile. È strano!” ripeté.
Lui annuì, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.

“Posso capire.” mormorò.
“No, non puoi!” sbottò lei, facendolo sussultare “Cazzo, ti ho pure accusato di essere un bugiardo che voleva solo provarci con me, diamine non puoi proprio capire quanto è imbarazzante!”
La vide arrossire sempre più, man mano che il tono della voce diventava sempre più alto. Era veramente imbarazzata.
“Ma non potevi saperlo.” osservò.
“Ma avrei dovuto! Con che coraggio posso definirmi una fan dei Guns se non li riconosco quando li vedo per casa?” esclamò, facendolo scoppiare in una risata.
“Roxanne,” le chiese dopo averla guardata per qualche minuto “è solo questo il problema?”
“Io non... non lo so, Izzy” sospirò “Cioè, è strano. Solo questo.”
“Ed è una cosa tanto brutta?” abbozzò un sorriso poco convinto, sentendosi la terra cedere sotto i piedi.
O forse, erano le sue gambe a cedere.

Lei rimase in silenzio, colpendo un paio di volte la rete con una mano, per poi stringerla tra le dita di nuovo.
“No.” rispose alla fine “Non lo è. Probabilmente è la cosa più bella che mi sia mai capitata in vita mia.”
Izzy aspettò qualche attimo, prima di sorridere e coprirle la mano con la sua.
Aveva le dita gelide, osservò, e un graffio le correva lungo il dorso della mano, fino al polso.
Si chiese, con un brivido, cosa le fosse successo dopo il fallito tentativo di abbordaggio al palco.
Posò le labbra sulla sua fronte, senza curarsi della rete che li divideva e sentire il bisogno di dire nulla.
Non c’era niente da dire, c’erano solo loro due e un’alba che tardava ad arrivare.
C’erano i loro respiri, il silenzio del parcheggio rotto solo dai rumori indiscreti della città ancora addormentata.
Si guardarono negli occhi, lei si alzò in punta di piedi e gli andò incontro, incontrando le sue labbra a metà strada, con la rete che premeva contro il viso di entrambi.

Fu un bacio lungo, lento, di quelli che si fa fatica a dimenticare anche ad anni di distanza, un bacio al sapore di fumo, un bacio che cancellò ogni difesa e li lasciò li, l’uno in balia dell’altra.
Quando si separarono, Roxanne tenne gli occhi chiusi per qualche attimo, lasciando che lui le sfiorasse il viso con una carezza che scese fino al suo collo e li si spense, a causa della rete.

“Non credere che questo ti scusi, comunque, per aver clamorosamente sbagliato Sweet child o’mine” puntualizzò lei, riaprendo gli occhi.
E l’ennesima risata di Izzy, fu accompagnata da un timido raggio di sole che si fece largo tra i banchi di nubi.

No, non stava arrivando un altro temporale.


 

PARLA ROXANNE:

Fu così che cominciò.
Te lo ricordi Izzy?
Ricordi quella notte che sfumava in mattina, quel parcheggio, quella rete?
Io si.
Io ricordo ogni cosa come se fosse ieri.
Ricordo le tue mani bollenti, il tuo viso stanco, il tuo sapore, il tuo profumo.
Ricordo l’eccitazione che mi teneva sveglia, ricordo quella colazione che facemmo a casa mia, accoccolati tra le lenzuola aggrovigliate del mio letto.
Ricordo che mettesti due cucchiaini di zucchero nel caffè e non mangiasti niente mentre io divorai metà scatola di biscotti.
“Esploderai, se continui a mangiare così tanto.” ridevi mentre io buttavo giù un biscotto dopo l’altro, senza poterci fare niente: avevo la sensazione di vivere un sogno ed ero terrorizzata dall’idea che tutto potesse finire da un momento all’altro.
Era sempre così con te, la paura di perderti mi perseguitava come un fantasma e non mi lasciava dormire in certe notti troppo lunghe e troppo silenziose.
Ma eravamo giovani.
Non ci importava, non mi importava.
Volevo solo stare con te, affondare il viso nella curva del tuo collo, far scivolare le mani sulla tua schiena e sentirti rabbrividire, sentire i tuoi baci, sentirli bruciare come se fossero marchi.
Io ero felice.
Lo sono ancora.
Ma tu? Sei felice, adesso?
Pagherei, per poter vedere il tuo viso e chiederti, guardandoti negli occhi, se sei felice come allora.

   
 
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