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Autore: _Ales    04/11/2012    0 recensioni
E' convinzione unanime -perlomeno tra le inguaribili romantiche- che il Principe Azzurro, il Grande Amore, l'Anima Gemella -o qualsivoglia altro nomignolo zuccheroso da appioppare alla persona con cui passerai il resto della vita- sia il ragazzo perfetto.
Per intenderci, quello con cui è tutto rosa e fiori fin dall'inizio. Quello bello, bello, bellissimo, e educato, e gentile, e premuroso...
Ma se il Principe Azzurro - Charming Prince o chicchessia- fosse proprio il tipo davanti a te che, tra un sorso e l'altro, vanta di poter pronunciare l'alfabeto ruttando?
Una storia volta a narrare le (dis)avventure in cui s'incappa per scovare l'Amore e che salta dalla teoria degli Spiriti Affini a quella, molto meno poetica, del "Carneade! Chi era costui?" .
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il buio era caldo, avvolgente, rilassante.

Le piaceva quella sensazione di affettuoso calore che emanavano le coperte di prima mattina, quando si svegliava e assorbiva quelle ultime briciole di tepore e pace ed equilibrio, unica parvenza di una notte senza sogni che fungeva da tranquillante assorbendo la negatività.
Se le avessero chiesto quale fosse la cosa che più preferiva a questo mondo avrebbe detto senza nemmeno pensarci due volte dormire e rigirarsi tra le lenzuola, ma tra le due non avrebbe saputo assolutamente a chi spettasse il primato.

Tuttavia, checché volesse dire alla sua coscienza per imbellettare quel che avrebbe dovuto essere un bucolico dato oggettivo, era costretta, a conti fatti, ad annientare quella amena illusione più chimerica dell’ideale anarchico e a rendere conto al sergente più autorevole, autoritario e dispotico dell’universo: Stéphane.
La coercizione alla quale si sottoponeva tutte la mattine, a seguito dello spiacevole evento dei preservativi, era l’equivalente di una vera e propria violenza psicologica che si auto infliggeva a causa del poco amore provato nei confronti del suo miserevole ego -che avrebbe avuto bisogno di notevole sussidio- e di quella sua innocente ignoranza, che era stata la causa di quello smacco avvilente che non l’aveva abbandonata per tre giorni di seguito -anche e soprattutto perché il tendone continuava a riderci sopra come un povero imbecille.
Oltretutto, tale obbligo era stato inflitto a priori dal volere di una Primadonna attenta al proprio egoismo narcisistico e ad un piacere autoreferenziale –che con tanto di popcorn e coca cola ed accomodata su di una comodissima poltrona godeva delle peripezie di una povera creatura come se assistesse al film dell’anno-e si traduceva in atto attraverso l’operato solerte ed ossequioso di un francese chic con tanto di puzzetta sotto il naso, tanto snob ed aristocratico da sembrare la fotocopia della prima, se non avesse saputo che l’ausilio del suddetto non era dettato da un piacere egoico e narcisista, ma da una premura cavalleresca snervante quanto la prima.

Quando il francese era stato abbacinato dal candore di Heidi, aveva notato con rammarico e un’espressione trasecolata, che si traduceva in quell’esasperato gesto di spiattellarsi una mano sulla fronte, che la bionda e la nanerottola dei cartoni animati potevano avere in comune il solo senso estetico.
L’ingenuità della sua Heidi superava di gran lunga quella della montagnarde provincializzata dei cartoni animati, che grazie alla zia Dete, alla Singorina Rottenmeier e i Sesemann aveva imparato non solo le buone maniere che si addicevano ad un’elegante mademoiselle, ma aveva avuto anche un’idea -seppur piuttosto vaga e fanciullesca- di come il mondo potesse girare. Oltretutto, nella biondina era quasi completamente assente lo spirito d’avventura, se si faceva eccezione per la sua decisione considerevolmente coraggiosa se rapportata alle sue esigue esperienze di vivere in una città nuova, del tutto sconosciuta e grande come Amburgo.
Spinto dalla crisi mistica che lo aveva lacerato per qualche ora e che era stata la coda di quell’onta vergognosa che era ricaduta sull’amica, in uno slancio di eroico furore aveva decretato l’urgenza di amichevoli chiacchierate volte all’acquisizione di concetti elementari. Avvertendo profondamente l’inderogabilità di quell’imperativo categorico di kantiana memoria si era sentito autorizzato ad arrogarsi il diritto di divenire quel che per Dante era stato Virgilio.
Avrebbe assunto il titolo di guida nel cammino che da quell’infernale ignoranza l’avrebbe portata ad una visione più armonica ed equilibrata, della moda e della vita.
Alla luce di quello spiacevole evento il ruolo di guru della moda che si era precedentemente auto assegnato risultava alquanto limitativo, quindi,fintantoché fosse stato opportuno e non avesse dimostrato una certa propensione al rischio, la sua parola sarebbe stata il verbum da seguire.
Insomma, se era vero che l’ingenuità fosse di per sé lodevole, doveva almeno cercare di inoculare in quella testolina qualcosa in più sul mondo della ‘non ingenuità’ che le era pressoché sconosciuto.
Di conseguenza, aveva perorato la causa di vincere l’ignoranza che ottenebrava la sua mente rendendola una montagnarde obsoleta ed antiquata cotidie -come avrebbero detto i latini-, attaccando con quella linguetta frenetica e logorroica la cricca neuronale della bionda che, messa allo sbaraglio da tanta prolissità, era stata costretta ad alzare bandiera bianca e a riconoscere la vittoria di quell’esercito di parole e di quella parlantina, per la quale i sofisti di tutti i tempi avrebbero pagato oro e forse anche più.

Se all’inizio la bionda aveva cercato di opporre una certa resistenza, impegnandosi a fondo per vincere la loquela del francese, alla fine le era rimasta la sola possibilità di deplorare il proprio destino, che le si era sì tosto rivolto contro.
Ergo, la mattina avrebbe dovuto dire addio mestamente a quella meravigliosa dimensione onirica e sonnolenta che le aveva fedelmente tenuto compagnia per tutta la notte per rendere conto alle manie di Stéphane, che in un impeto di eroica generosità aveva deciso di offrirle il proprio dispotico aiuto, ben diverso dall’ausilio porto da un ego autoreferenziale.
Il melanconico stato d’animo con cui pativa quei risvegli, ben lungi dall’emozionarla e caldeggiarla in uno stato di adrenalinica tensione, avrebbe potuto essere comparato alla cappa di mestizia ipocondrica e vittimista che aveva schiacciato la povera Lucia mentre dava l’ultimo addio ai suoi tanto amati monti.
La pacifica quiete letargica era puntualmente interrotta alle zero sei punto zero zero.
 Ed erano le zero sei punto zero zero perché il francese aveva sostenuto a monte, non senza una certa aria di amichevole superiorità, che tali lezioni di vita e di moda dovevano essere affrontate di prima mattina, quando si era più svegli e più pronti ad assorbire concetti e, soprattutto, quando si disponeva ancora a sufficienza di tutto il tempo da poter dedicare alla cura di se stessi.
Ovviamente questo punto era stato presentato con dialettica aristofanesca in una luce piuttosto diversa: quell’oretta non era necessaria al francese, ma ad Heidi stessa che avrebbe dovuto dimostrargli di essere capace di mettere a frutto le nozioni da poco imparate attraverso il propedeutico esercizio di combinare un abbinamento femminile e très élégante che avrebbe dovuto passare il giudizio del francese. L'adoubement del’amico sarebbe stato il risvolto postumo dell’attuazione del criterio della par condicio.
Ergo, tutte le mattine il Grande Alessandro nelle peculiari e balorde vesti di un insignificante mortale, che per quanto  carismatico e di bell’aspetto rimaneva pur sempre mortale,varcava la soglia della camera della bionda, immettendo nell’ambiente la propria autorevole aura e rievocando giornalmente l’inclito episodio del nodo gordiano.
Squarciando con la propria fulgida spada tagliente il torpore inerte dell’amica, riportava la suddetta e la sua compagine neuronale a riprendere contatti con la realtà e, dopo una rozza lavata di faccia, esigeva da un tale plotone svogliato la massima attenzione, calandosi nel ruolo del docente con una professionalità ed una serietà tali da far invidia a chiunque.
Dopo aver fatto accomodare la sua alunna e aver camminato avanti e indietro di fronte ad essa per una manciata di minuti, si fermava di colpo squadrandola con un cipiglio severo e intransigente, fintantoché l’attività celebrale della bionda non si manifestava in quel sorrisino incerto e il viso contorto in una sorta di comico terrore non veniva mosso in segno d’assenso.
Era allora, non un secondo prima né uno dopo, che iniziava ad istillarle il toccasana del buon gusto e del vivere quotidiano.
La prima oretta ruotava intorno all’asse dell’elegante e celeste e sibaritica orbe della moda, affrontata dal francese con l’alacrità e la fiscalità di un ossequioso e pio seguace del buon costume che con devozione scrutava quel platonico mondo delle idee in un excessus mentis,cercando di trasferire sul piano fisico i concetti contemplati.
 Per contro, gli ultimi esigui dieci minuti erano dedicati saltuariamente alla carnale e dissoluta e concupiscente sfera sessuale, toccata da Stéphane in modo spiccio ma efficace, con l’unico intento di passare tutta quella serie di informazioni che prima o poi le sarebbero tornate utili e fruibili, e che l’avrebbero tolta dall’imbarazzo e l’ansia di fare strike con lo smacco,ma che per il momento non rimanevano che una pura astrazione metafisica.
 
Checché Heidi dicesse a se stessa per evitare bruschi risvegli di quel tipo, avvertiva l’incoercibile dovere di riconoscere quanto potessero giovare alla sua dignità le lectio mattutine che l’amico le riservava con tanta pignoleria e solerzia.
Se, di fatti, la fredda ala del tempo sembrava non mostrare l’intenzione di cancellare l’onta di quell’ignoranza, occorreva correre ai ripari aggiornando la propria enciclopedia e mostrandosi incline ai cambiamenti.
Il consenso a trattare una tale questione era stato, però, tutto un altro paio di maniche.
Quello se l’era proprio sudato e guadagnato con fatica, il povero Stéphane.

Sesso.

Nel preciso istante in cui aveva proferito quelle cinque lettere in sua presenza la prima volta, poco mancò che le venisse un infarto e perdesse con un colpo solo bocca e braccia.
Per contro, lo stesso Stéphane per una frazione infinitesimale di secondo sembrò essere pervaso dallo stesso urticante imbarazzo, che imporporava prepotentemente le guance dell’amica.

«Insomma Heidì Deve tu  connaître certaines choses!»

Dopo tutta una serie di ricatti, ritorsioni e ragionamenti era bastata questa modesta frasetta laconica e lapidaria, pronunciata con tono stentoreo ed ovvio a portare la ragazza sulla via della redenzione.
 Nonostante avesse ripetutamente dimostrato una certa reticenza nell’affrontare determinati argomenti in presenza del francese, che seppur molto finemente  non faceva che, a conti fatti, parlare di sesso, si era vista costretta a (as)sorbire coraggiosamente quei rabbuffi antimeridiani –dei quali tuttavia riconosceva l’impellenza- e ad accettare la propria condizione di subalterna.
Parola per parola trascriveva su quel block notes giallo canarino che le aveva rifilato durante la prima lezione con l’accuratezza di un mansueto amanuense tutta quella serie di comandi, ordini e nozioni che le avrebbe chiesto la mattina seguente, quando avrebbe dovuto affrontare quel che le era stato propinato come un amichevole colloquio, ma che in realtà si traduceva in quella schizofrenica batteria di domande.
Heidi era venuta a conoscenza di questa atroce nozione nel momento in cui la voce stridula e alterata dal dispetto di Stèphane -indottrinandole improperi di ogni tipo in francese-  aveva raggiunto le sue orecchie, la cui unica colpa era stata quella di non trasmettere più dati al cervello il giorno precedente.
A seguito di quello spiacevole spettacolo aveva iniziato a ripetere più e più volte le lectio di quell’atipico quanto insigne professore, onde evitare alla propria salute psichica e a quella dell’amico un crollo di nervi degenerante, quanto conturbante.
Così, poco alla volta si era addentrata nei bui meandri della moda e della realtà guidata dalla luce di Stéphane che la conduceva ora in una strada ora in un’altra.
Dopo i primi errori, aveva iniziato a rendere più fine il proprio palato, entrando nell’otica dell’abbinamento perfetto che l’amico le aveva propinato in tante salsette diverse ma che alla fine convergevano tutte su quel solo punto e scongiurando abominevoli fashon faux pas e spiacevoli combinazioni cromatiche e di tessuti.
Ultimamente il francese era così fiero di quei risultati, cui aveva tanto anelato dal primo momento in cui il suo sguardo innocente si era posato sui vestiti della bionda e che stavano maturando addirittura prima del tempo rispetto alla terribile tabella di marcia che aveva programmato all’inizio, che le aveva persino concesso di beneficiare del proprio (in)finito guardaroba, accordandole la perigliosa possibilità di scegliere le mises che avrebbero indossato per il lavoro.

Lavoro.

Il francese continuava ad asserire con ardore invidiabile che lo spiacevole espediente cui erano stati costretti per espiare quella colpa, ricaduta sulle loro teste innocenti con una meticolosità feroce ed un’atroce precisione chirurgica, potesse ancora essere annoverato nella categoria dei lavori.

Un lavoro pure parecchio prestigioso e nobile e stimabile, per di più.

Lavoro era quello che avevano trovato la settimana scorsa in un locale al centro della città che permetteva loro di essere economicamente indipendenti e soddisfatti del ruolo di addetti alla pulizia/ camerieri, grazie allo stipendio piuttosto considerevole che incassavano prestando in cambio servizio in un meraviglioso turno di cinque ore lavorative, a partire dalle nove di sera alle due del mattino.

Lavoro, in parole povere, poteva definirsi una qualunque occupazione degnamente retribuita, descrizione che non contemplava, insomma, la schiavitù gratuita alla quale si erano sottoposti per non minare alle povere casse piagnucolanti che la piacevole occupazione serale prometteva di risanare.

A sentirlo parlare non si sarebbe mai detto che sgobbavano come due poveri iloti incatenati in quel marasma di disordine e pura follia, un paragone che -a differenza delle iperboliche captatio benevolentiae di Stéphane- rendeva giustizia a quella miserevole realtà.

Erano trascorse ormai due settimane dal loro primo aberrante incontro con la deliziosa dimora di quattro uragani e mezzo, mirabolante e zuccherosa e romantica quanto quella di Hansel e Gretel ma lisciata da una patina di sporcizia e marciume al suo interno che a quei due bambocci sarebbe sicuramente venuta una scarica di cagarella dolorosamente ridicola, oltre che un conto salatissimo dal dentista.
In quella casa il caos si rigenerava in aeternum, al punto tale che ai Titani sarebbe sorto un paradossale e deprimente complesso di inferiorità a confronto. Il giorno prima pulivano, lustravano, rendendo tutto luccicante, pulito e profumato e il dì seguente vedevano svaniti e sfumati sotto i loro annichiliti occhi tutti i tentativi di spennellare lindore e freschezza a quell’ambiente che si propagginava scevro ormai della pulizia precedente.
La causa principale era legata al fatto che quei cinque balordi esseri umani -in cui era ovviamente compreso lo stesso Jost che, lungi dal dimostrarsi l’uomo serioso e lezioso del primo incontro, aveva svelato una considerevole capacità nel mettere carne sulla brace e nello specifico sporco sullo sporco- non mostravano la minima cura nel rendersi consapevoli del’indistinto subbuglio del quale si attorniavano.
Si sarebbe potuto asserire senza alcuna illazione che, ad onta della zuccherosa apparenza, rivestiva delle funzionalità molto meno idilliache: in primis quella di stalla –seppur si trattasse di una stalla di classe-, casa, studio di registrazione e arena gladiatoria –perché i gemelli quando litigavano ci davano dentro, ma proprio dentro.
Quei solchetti rossi -riverbero dell’affilatura delle unghie con le quali il cantante si era artigliato al suo braccio per difendersi dal fratello- non avevano ancora lasciato la loro dolorosa ubicazione e per ristabilire un ordine cosmico, nonché  interno, ci era voluto un giorno intero, mentre la funzione gemellare continuava a rimanere alterata.
 E l’equilibrio si era ristabilito solo perché quei due avevano smesso di trasformare l’abitacolo in una trincea e di minare all’equilibrio cosmico e psichico, firmando un tacito accordo di indifferenza reciproca, che si era tradotto in un’occhiata maliarda che aveva risollevato il loro esercito neuronale scompaginato e dichiarato l’inizio della guerra fredda.
Ricordava di aver letto da qualche parte “lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” e, Heidi ne era certa, se l’avesse appeso fuori l porta per lo meno avrebbe risparmiato ad altri innocenti quello sfibrante martirio, o quanto meno avrebbe preparato psicologicamente il pharmacos. Insomma, se i cani meritavano “l’attenti al cane”, anche quei quattro si meritavano a pieni voti quel verso -magari scritto pure in colore scuro.
La favilla poi che aveva secondato gran fiamma, incendiando gli animi di quei due era talmente insignificante e a tratti ridicola che a nessun altro sarebbe sembrata una scintilla degna di una tale attribuzione -almeno a qualcuno con il sale nella zucca- ma avrebbe assunto i connotati di uno sbuffetto di fumo grigio e nemmeno nero.

Il tutto per una rachitica patatina fritta finita sul pantalone nuovo e costosissimo dell’essere più schizzinoso e permaloso e modaiolo del pianeta, perché l’improbo riverbero genetico di quello spermatozoo rinsecchito -che aveva dimostrato il barbaro coraggio di dividersi e che non era stato in grado di distribuire equamente il cervello- aveva avuto la strabilianterrima idea di lanciargliela addosso «così, per scherzare» -come non aveva mancato di far notare con quella sua voce ovvia e retorica.
Peccato che tale illuminante trovata non fosse stata apprezzata da nessuno –in primis, la vittima dello scherzo.
Anche perché le geniali giustificazioni che erano seguite non avevano avuto altra conseguenza che quella di incattivire ancor più l’usignolo assassino, che lungi dal sembrare tenerello e coccoloso, tremolava da capo a piedi disintegrando quell’abietta metà con quel suo sguardo d’ambra infuocata.
Aveva celato gli occhi alla loro visuale, inspirando grevemente e scacciando malamente quell’abominevole patata che gli aveva lasciato come ricordo amorevole quella chiazzetta oleosa. Dopodiché si era alzato con la grazia di una graziosa gazzella e aveva iniziato ad inveire contro il suo gemello, urlando improperi di ogni tipo e falsando la sua voce di un’ottava isterica e fastidiosa.
 La parte critica, quella in cui se l’erano vista brutta, ma proprio brutta aveva iniziato ad accennarsi, però, quando quell’altro al posto di ingollare come il buon senso avrebbe suggerito qualsiasi galante lemma uscisse dalle candide labbra del fratello, aveva cominciato col restituirgli tutte quelle galanterie secondo il codice cortese, rispondendogli per le rime e giustificando il proprio gesto come atto di amore fraterno che a nessun altro sarebbe venuto in mente di accusare.
Insomma, «A nessuno sarebbe venuto in mente di litigare, sveglia! E’ il tuo carattere di merda!»-tanto per citare una delle infinite apologie che aveva iniziato a scarcerare dalla nocciolina.

Tuttavia, lo spannung era stato raggiunto –e qui concordavano tutti, persino Jost che inizialmente aveva giustificato quello scatto d’ira in relazione all’anomala e perenne sindrome mestruale del cantante- quando Bill Kaulitz s’era immobilizzato di botto, pietrificato dalla ventata gelida delle parole caustiche del fratello.

«E non comportarti sempre da donnetta offesa!»

E non comportarti sempre da donnetta offesa.

Una frase, sette parole, trentasette caratteri avevano strozzato l’impeto furioso del cantante.
 
Tom Kaulitz aveva guardato Bill.
Bill Kaulitz aveva guardato Tom.
 
Bill Kaulitz aveva guardato il fratello con un piglio indecifrabile e piuttosto ferito, stigma dell’accelerazione negativa con il quale il suo ego colpito nell’orgoglio stava cadendo a picco arrivando a toccare i fondali più profondi e reconditi dell’oceano della propria autostima; mentre l’altro gli aveva restituito un superficiale sguardo di sfida, consapevole di aver beccato il suo tallone di Achille e forte proprio di questa consapevolezza pocanzi desunta dalla sua espressione da cucciolo bastonato.
Tom Kaulitz non aveva mostrato la benché minima intenzione a retrocedere di qualche passo e terminare la discussione, troppo tronfio e burbanzoso del risultato raggiunto.

A quel punto l’uscita di scena di Bill era stata talmente plateale da far impallidire quelle della Callas.
Aveva atteggiato le labbra come a voler proferir parola, con l’unico risultato di rendere noto il tremore del suo labbro e, dopo aver alzato il mento stizzito e sostenuto e aver sventolato una mano in segno di disprezzo, aveva racimolato la dignità che gli si era accasciata addosso e volto le spalle a tutti.

Jost aveva sospirato impercettibilmente, rivolgendo il suo sguardo esasperato in direzione di chissà quale autorevole divinità e si accingeva a biascicare molto pateticamente ringraziamenti al suo indirizzo.

Peccato che dall’altro lato non ci fosse nessuno in ascolto oppure una qualche entità dal senso dell’ironia piuttosto tagliente.

Prima di uscire del tutto, il cantante aveva fatto dietro front e in un impeto di esaltazione autoreferenziale e di furor eroico aveva agguanto delle patatine e schiacciatele sulla fronte del fratello.
Allorché ebbe compiuto tal nobile gesto, da cavaliere senza macchia e senza paura quale si era profilato era partito a razzo,rintanandosi nella camera degli ospiti, una volta aver girato la chiave nella toppa, ovviamente.
A quel punto la mannaia della vendetta aveva mietuto i campi dello spirito del chitarrista, che spirava tra quelle mura roboante e spaventoso.
Gli sguardi dei membri di quella detestabile adunanza erano saettati fulminei sull’unico Kaulitz rimasto, immobile e furente.
Heidi aveva guardato quel ragazzo piuttosto contrariata e afflitta e indispettita, osservando quella strana ruga al centro della fronte che sembrava rigettare tutta l’ira nel suo corpo.
Aveva guardato quei suoi occhi ammalianti, caldi e disumani, che sembravano ardere di  lava incandescente, in grado di trapassare le pareti fino a riversarsi sul diretto interessato.
Quando a  grandi falcate era sparito dalla loro annichilita visuale al punto di divenire un’ombra che camminava per il corridoio nessuno aveva osato parlare.
La sgommata agghiacciante che seguì di lì ad una manciata di minuti rese noto a tutti il silenzioso preludio che scorreva inesorabile, cui sarebbe seguita un’opera bellica e belluina dalle dimensioni epocali.

Di fatti, le operazioni militari avevano cominciato ad esser messe in atto quando il fratello con le treccine era ritornato incazzato più di prima e aveva stanato il bianconiglio dalla tana come un lurido verme, approfittando degli attacchi di pisciarella acuta di questi che  sparivano e riapparivano insieme a quelle litigate estemporanee.
L’aveva agguantato e messo con le spalle al muro, proprio mentre quel perfido coboldo se ne tornava quatto quatto in camera sua, sfregandosi le mani come a voler tacitamente applaudire la propria furbizia silenziosa.
Sicché, quel gesto inaspettato aveva mandato in frantumi il proprio piano, tanto che lo squarcio della calma era stato accolto con un urlo disperato.
Quando Heidi, accompagnata da Stéphane, il manager e gli altri due li aveva trovati mentre rotolavano a terra e si azzuffavano come due bambinetti dell’ asilo -due bambinetti un po’ troppo cresciuti, però- era rimasta con tanto di bocca spalancata e pupille dilatate.
Schiacciata dall’incredulità, non era stata in grado di muoversi nemmeno quando Cip e Ciop  avevano iniziato a saettare tra di loro, cercando di salvaguardare ognuno le proprie penne e acciuffare quelle dell’altro.
Nel momento in cui, però, le unghie di Wolverine s’erano infilate nella sua carne, aveva lanciato un urlo talmente perforante da far impallidire tutti.
Il supereroe artigliato ritirò l’artiglieria e la bionda, esasperata da quella situazione, esplose in un muggito di collera, decisa a riequilibrare la situazione, esponendo la propria tesi.
«Tu,tu – parlò indicando con quell’indice accusatore Bill- non provare mai più ad artigliarmi con quegli affari o a lanciare cibo per aria e tu –continuò riferendosi all’altro- chiedi immediatamente scusa e finitela qui. Ora.»
La partecipazione accalorata e la gelida determinazione con cui accompagnò quelle parole fecero ammutolire tutti i compresenti, persino le due piaghe che, dopo aver assunto un’espressione più decorosa, si lanciarono un’occhiata assassina e s’incamminarono per strade diverse.

Era stato così che erano arrivati alla guerra fredda.

Heidi esalò un respiro enfatico, mentre si chiudeva la porta di casa alle spalle seguendo Stéphane, che tutto ringalluzzito procedeva a ritmo soldatesco per raggiungere la fermata dell’autobus.
Durante il tragitto la bionda si preparò psicologicamente ad affrontare il clima polare che investiva chiunque mettesse piede in quella casa -il che doveva per forza essere la conseguenza di una iettatura colossale.
 Il vaso di Pandora si era aperto (ir)reparabilmente ed ora si doveva avere la pazienza di aspettare o dimostrare l’ardire presuntuoso di prendere quel tappo e incollarlo sull’orlo di quel fatale contenitore in una visione delle cose piuttosto ottimista e chimerica.
Se era vero che avevano smesso di scazzottarsi, astenendosi  dallo scontro diretto, onde evitare ferventi  pestamenti a sangue, era pur vero che quella baruffa indiretta aveva conseguenze non meno gravi: il cantante era rintanato nel suo guscio inoppugnabile e mal mostoso e nevrastenico che gli concedeva l’inderogabile diritto di lusso di trattare il suo prossimo con un’indifferenza a tratti crudele; per contro, la sua metà si dimostrava molto meno plateale nell’estrinsecare il suo fastidioso malessere ‘gemellare’, in quanto si limitava a respirare nicotina, andando avanti a fum di sigarette, le cui cicche puntualmente venivano abbandonate con una superficiale non curanza su una qualunque superficie concava, dal momento che i posacenere si riempivano con una facilità ed una velocità sconcertanti.
Era scostante, attributo che si traduceva in quelle occhiatine fugaci e gelidamente disinteressate che di tanto in tanto si premurava di regalare al resto del mondo e nel suo atteggiamento strafottente e teneramente burbero. Oltretutto, era molto meno incline a fare il buffone, predisposizione naturale che evidentemente si annullava quasi del tutto nel momento in cui il suo orgoglio fraterno si faceva sentire, scazzottando all’interno del proprio cuore e agitandosi superbamente.

Sicché, quando era giunta alla casettina zuccherosa di Hansel, Gretel & co. e Jost le aveva aperto la porta di casa accogliendola con un sorriso sconsolato, non si era molto sorpresa nell’essere pervasa dalla ventata di freddo siberiano che ultimamente spirava in quella casa e nel ritrovarsi di nuovo immersa in quella meravigliosa dimensione di amore, tutta cuoricini e farfalline, che aveva fatto impallidire vistosamente quel sol che le aveva scaldato il petto.
 Varcata la soglia, aveva posato delicatamente il giubbotto sull’attaccapanni –straordinariamente ordinato- e aiutato l’amico a togliersi di dosso quella palandrana sconcertante che il francese continuava a chiamare trench, ma che sembrava il mantello di un sudicio super ero(rr)e imbarbarito, ridotto alla miserevole condizione di straccione pieno di pulci.
Immessasi nel salotto aveva trovato Wolverine appollaiato tutto contrito sul divano intento a fissare imbambolato il vuoto davanti a sé con un’espressione corrucciata ed alterata, ai suoi lati Georg e Gustav guardavano beatamente la televisione, catturati dalle immagini colorate e rapide che scorrevano sullo schermo; mentre si sentiva l’eco lontana di una chitarra.
Salutò i ragazzi accennando un sorriso e ricevendo risposta da tutti, tranne che il piccolo Casper, se si faceva eccezione per quell’impercettibile alzata di mento che il cantante doveva aver avuto la premura di riservarle, fosse pure per l’educazione e la gentilezza che in fin dei conti gli appartenevano.
Apprezzò lo sforzo di quella povera animella in pena, lanciando delle occhiatine intenerite e cogitabonde in sua direzione. Dallo sguardo impietrito e al tempo stesso del cucciolo di foca bastonato intuì che la guerra fredda iniziava ad avere dei risvolti e sentì il peso del disagio farsi in strada nel suo animo nel preciso istante in cui Bill la guardò diritto negli occhi. Non le piaceva vedere la gente soffrire, soprattutto se si sentiva del tutto impotente ed un’estranea rispetto alla situazione, perché pur frequentando lo studio con una certa assiduità, a conti fatti, lei e Stèphane non erano che due estranei.
Abbassò rapidamente lo sguardo lievemente imbarazzata e per una manciata di secondi decise di uccidere i propri neuroni dedicandosi alla nobile contemplazione di un’interessantissima pubblicità di bagnoschiumi, che vedeva come interprete umana della freschezza del prodotto una modella (mezza)nuda.
In quel momento pensò che con ogni probabilità l’unico membro assente del gruppo avrebbe apprezzato la panoramica offerta da quella telecamera, che era stata guidata sapientemente fino a regalare alla vista più del dovuto e  a catturare nell’obiettivo tutte quelle forme.
Sorrise, dandosi mentalmente dell’idiota per un pensiero così insensato.
«Allora, oggi quanto sporco ci tocca sconfiggere?» azzardò, cercando di fare un po’ di ironia e strofinandosi appena le mani.
«Dipende da quanto i miei bambini viziati si sono comportati male.» s’intromise Jost ilare, stando al gioco e dando un pugno affettuoso sulla spalla del bassista.
«Vorrai dire, dipende da quanto tutti noi ci siamo comportati male. Ricordati che nel novero dei bambini viziati ci sei anche tu.» rispose serafico Gustav, guardando il manager con uno sguardo compassionevole che propalava divertimento allo stato puro.
La bionda soffocò una risata, che le morì in gola nel momento in cui David la inchiodò al muro con il suo sguardo gelido. Tossicchiò appena per darsi un certo tono, facendo gravitare la propria attenzione altrove.
«Non iniziare anche tu, Schäfer!» proferì burbero il manager, tirandogli uno scappellotto.
Il batterista massaggiò la zona colpita, scuotendo la testa in segno di resa.
«Ha ragione lui, monsieur Jost.» Iniziò il francese con quel suo fare galante, ignorando bellamente l'occhiataccia di questi. «Spero che aujourd'hui sci sia poco sporco, visto che ho messo queste scarpe très chic. Sicuramente non pulirò il bagno, ma è per questo che sci sei tu, Heidì.» continuò angelico il francese, scoccandole uno sguardo adorabile e melenso e dandole un pizzicotto affettuoso sulla guancia.
Gli altri tre risero, mentre il cantante dopo aver accennato la cerea ombra di un sorriso, si alzò dileguandosi da perfetto spiritello.
La bionda rimase leggermente sbalordita dalle parole del francese, salvo unirsi alle risate dei ragazzi poco dopo.

Inconfondibile, extravagant Séphane.

Guardò l’amico fintamente offesa, dandogli un buffetto sul braccio e cercando di sondare in quegli occhi profondi quei guizzi oscuri che di tanto in tanto annebbiavano il suo sguardo, rendendolo cupo e sofferente.
Il francese la guardò di rimando, concedendole un sorriso amichevole.
«Bene, pelandroni, dopo aver perso tutto questo tempo direi che è ora di iniziare a lavorare!» David Jost accompagnò questa frase racimolando tutta la buona volontà di cui era disposto -considerevole tentativo visto che la sua pigrizia era evidente in quel momento- e alzò un pugno in aria, nell’inutile sforzo di effondere spirito di iniziativa nei ragazzi che aveva di fronte.
 




 

*
 

Heidi faceva avanti e indietro dal salone alla cucina, raccattando gli oggetti indefiniti sepolti dal divano e sotto il divano, differenziando calzini, cartacce, cicche e pezzetti di cibo da buttare e salvando confezioni di brioche o patatine più o meno intatte e ancora mangiabili- anche se, ne era sicura, quei cinque avrebbero mangiato anche roba scaduta senza battere ciglio, ad eccezione forse del cantante che avrebbe additato gli altri quattro regalandogli attributi di ogni tipo e inveendo contro l’essere indegno che tramite quella roba stava tentando di ucciderlo.
Aveva già percorso quell’insignificante corridoio che da una camera portava all’altra una decina di volte, quando dopo aver posato la seconda busta piana di robaccia in cucina, urtò contro qualcuno.
Il chitarrista la guardò dal suo indefettibile metro e ottanta –o giù di lì- vagamente divertito, conservando però gli evidenti postumi di una feroce sbraitata con il gemello.
«Scusa»  mormorò accennando un piccolo sorriso.
Tom alzò le spalle con fare piuttosto superficiale, superandola con due falcate e ripescando dal frigorifero  un succo di frutta.
Heidi dopo aver guardato per un pugno di secondi il ragazzo,si girò in direzione del lavandino ed iniziò a trafficare con quella montagna di pentole e piatti, marasma indefinito in cui le prime riportavano addirittura delle bruciature che se ne sarebbero andate solo dopo tanto, ma proprio tanto impegno; mentre i secondi, per quanto unti e laidi, sarebbero ritornati come nuovi dopo un po’di strofinate.
Aprì lo sportellino sotto il lavandino reperendo una spugnetta e il sapone e, inspirando profondamente, prese a lustrare quella pila di sudiciume.

D’un tratto venne pervasa da un profumo intenso, forte, pregnante.
Un odore di fumo, misto a dopo barba che raggiungeva le sue narici con l’impeto di un uragano.
Il chitarrista appoggiò il bicchiere sporco nel lavandino, premurandosi ,in uno dei sue rari slanci di bontà, di incastrarlo in modo da non farlo cadere.
La bionda sollevò il proprio sguardo, fissandolo lievemente allibita.
«Che c’è, anche io ho i miei momenti di gentilezza, quando voglio.» si difese, ammiccando maliziosamente.
«Quando vuoi, appunto.» rispose beffarda, simulando una certa esasperazione irrefrenabile.

Il ragazzo la fissò con occhi di sfida.

«Ma se io fossi sempre così gentile non avresti niente da fare e ti gireresti i pollici, annoiandoti a morte.» continuò con quel suo fare lascivo.
Heidi sentiva l’imbarazzo sbaragliare le porte del suo animo e prendere progressivamente controllo delle sue azioni, tuttavia decise di dare a quello sbruffone la risposta che meritava, senza timore né timidezza alcuna.
«Deduco che tu l’abbia fatto talmente tante volte da sapere benissimo quanto possa essere snervante, quindi ti ringrazio per la tua incommensurabile cavalleria.»
Fu la prima a sorprendersi della propria determinazione e sicurezza, impegnandosi con tutte le forze nel non estrinsecare la propria meraviglia per un gesto tanto inconsueto e azzardato continuando a lavare le stoviglie con una certa frenesia.
Per contro, Tom Kaulitz non poté non atteggiare le proprie labbra in un ghigno, sollazzato dall’imprevedibile linguetta della ragazza che le era sembrata tanto pura e parecchio ingenua.
«Non preoccuparti, so sempre come vincere la noia.» rispose facendole l’occhiolino e indicando un punto preciso al di sotto del proprio busto.
La bionda arrossì, ostentando un’indifferenza indignata  e  imbarazzata.
«Cos’è, il gatto ti ha morso la lingua?» continuò imperterrito quell’altro.

La bionda si fermò di colpo e lo guardò addolorata.

«Perché, perché proprio a me?!» pronunciò con tono esasperato quell’interrogativo retorico.
Il chitarrista soffocò una risata.
«Dal momento che non posso crucciare quell’altro con le mie angherie, devo pur trovare un’altra valvola di sfogo.»
Le labbra di Heidi s’incresparono in un timido sorrisino. Alzò lo sguardo e si perse in quelle due ambre profonde.

D’un tratto si fece seria.
«Sai, credo che dovresti scusarti con lui…» iniziò, sperando di non sembrare troppo invadente.
Non si sentiva a proprio agio ad intromettersi negli affari altrui, ma la tristezza di Bill era così evidente che la raggiungeva con la violenza di una pugnalata in pieno petto.
«Non so cos’altro sia successo, ma stamattina era parecchio a terra… »
Gli occhi di Tom erano diventati caldi e ammalianti. Avvertiva le briglie del controllo sfuggirle dalle mani, mentre si specchiava in quelle due iridi languide e penetranti, che incatenavano il suo sguardo obbligandola all’inerzia.
«Insomma, io non… Io non vorrei sembrare invadente, ma…» cercò di continuare, ma le parole le morirono in gola.

 Di fronte a quel ragazzo si sentiva nuda ed inerme. Abbassò il proprio sguardo.

«Lascia stare.» biascicò piuttosto esitante, mentre continuava a sentire quelle due ambre ardenti scandagliarla nel profondo.
«Non fermarti proprio sul più bello. Stavi andando così bene!» scherzò l’altro una manciata di secondi dopo, ridendo del tenero impaccio della ragazza.


Ad  Heidi caddero le braccia.








Nota dell’autrice: Mi scuso per il ritardo riprovevole con cui ho postato il capitolo, ma ultimamente sono parecchio impegnata e mi risulta difficile gestire il tempo libero per scrivere. Mi auguro che il capitolo possa essere stato di vostro gradimento, in modo da aver premiato la vostra attesa. Se così non fosse stato, mi scuso due volte.
Alla prossima e un grazie a chi ha letto!
   
 
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