Desclaimer: Prima o poi mi
stancherò di scriverli... tutto ciò non è mio: i personaggi sono stati creati
da Sir Doyle e appartengono a Moffat
e Gatiss, mentre la storia è della bravissima Linpatootie. Io non scrivo e/o traduco per scopo di lucro.
Note: Questa
è la mia preferita delle quattro, è inutile. Ed è anche l’ultima, il che mi
lascia un certo moto di soddisfazione nel poter dire che ho finalmente finito
di tradurre questa serie meravigliosa.
In ritardo. Lo so. Però
guardiamo il lato positivo: ce l’ho fatta
8D
È doveroso, da parte mia,
portare i ringraziamenti dell’autrice originale della serie, ovvero Linpatootie; è meravigliata da come il fandom
italiano ha risposto positivamente e vi ringrazia tutti quanti dal profondo del
cuore per le parole meravigliose che le avete scritto.
Da parte mia, il mio
ringraziamento va a tutti coloro che si sono trovati bene con la mia traduzione
e che mi hanno espresso i loro complimenti. Per me è un ottimo modo per
esercitare l’inglese, ma sono felice che l’adattamento scelto per quelle parole
o quei detti intraducibili in italiano sia apprezzato. All my feels ♥
Per l’ultima volta, il
link alla storia originale in inglese: Two Coffees One Black One With Sugar Please
A chi vorrà leggere, buona
lettura ;D
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La
Somma di Noi (Calcolata per la Maggior Parte da Tutti gli Altri)
– The Sum of
Us (Mostly Calculated by Everybody
Else) –
C’è
un momento specifico in cui John si accorge che ha smesso di tenere nascosta la
sua relazione nuova di zecca con Sherlock. Arriva quando sta facendo spesa e ci
ha trascinato uno Sherlock non molto entusiasta.
Sherlock
è un tipo stravagante dentro un supermercato, una specie aliena che fissa le
scatole dei cereali come se si aspettasse di vederle saltare giù dagli scaffali
e inscenare un numero di tip-tap lungo la corsia dei prodotti per la colazione.
Ed è un motivo sufficiente per John per portarlo con lui – solo il ricordo lo
fa ridere per giorni.
Sherlock
se ne lamenta spesso e rumorosamente, ovviamente, ma di solito finisce per
trovare qualcosa con cui tenersi occupato e getta nel carrello cose di cui non
hanno davvero bisogno, dichiarando felicemente che potrebbe usarle per qualche
malevolo esperimento che gli è appena venuto in mente.
Oggi
il suo capriccio sembra essere la maionese, e sei diversi tubetti compaiono
misteriosamente in mezzo ai cartoni del latte e alla pagnotta che John ha messo
nel carrello. Lui aggiunge tranquillamente un cartone di uova, così quando
Sherlock si sarà stancato dell’idea – qualunque sia – che sta architettando,
John potrà usare qualche suo rimanente per fare un’insalata di uova, o roba
simile.
Sherlock
piroetta lungo gli scaffali, leggendo gli ingredienti su scatole e bottiglie,
preoccupando occasionalmente gli altri clienti dicendo cose come “c’è una
concentrazione perfetta di polisaccaridi in questa composta di mela!”.
Ma
questa volta la ridicolaggine è tutta di John, quando incontra per caso una sua
ex-ragazza al reparto frutta e verdura.1 Il suo nome è Tessie, un’assistente di volo dalle gambe lunghe con cui
John è uscito per un paio di settimane circa un anno fa.
Sherlock
gironzola attorno ai pomodori ma non interviene, lanciando stilettate con gli
occhi nella schiena della povera ragazza. Tessie
sorride e fa ondulare i suoi capelli e chiede a John come sta, con quel tono di
voce che suggerisce che c’è una certa opzione ancora libera per lui, lì, e
qualcosa nel cervello di John va in cortocircuito.
« Sono impegnato in una relazione gay
con il mio coinquilino »
dice senza riflettere, e il momento diventa immediatamente così teso che
persino la lattuga sembra a disagio.
« Oh. Che carino » dice lei e mostra i denti in quello
che tecnicamente dovrebbe essere un sorriso ma la fa sembrare solo disgustata.
Anche John si sente abbastanza disgustato, soprattutto quando si accorge che
Sherlock è rosso quasi quanto i pomodori attorno ai quali sta gironzolando nel
tentativo di non ridere. Tessie gli lancia
un’occhiataccia e sparisce al reparto latticini con un fruscio della sua gonna
e Sherlock è improvvisamente interessato ai broccoli.
« Oddio... » sospira John, fissando una zucchina.
Non gli offre nessun tipo di consolazione, ma comunque a John non sono mai
piaciute, le zucchine.
« Fine, John. Davvero fine ».
« Ho fatto coming
out da Tesco ».
« Sì. Sì, l’hai fatto ».
Con
la coda dell’occhio vede il sorrisetto che Sherlock gli sta facendo ed entrambi
si piegano in un attacco di risatine che non smette del tutto prima di avere
pagato ed essersi incamminati verso casa, il sole che riscalda allegramente le
loro teste.
« Suppongo che questo voglia dire che
sono pronto a dirlo agli altri » riflette John mentre Sherlock pesca le chiavi del loro
appartamento dalla tasca.
« Dire cosa? ».
« Di noi. Che adesso siamo una coppia ».
« Ah. Va bene ».
Entrano
a passo malfermo nel corridoio e su per le scale, John con le braccia piene di
sacchetti e Sherlock con le mani esasperatamente nelle tasche.
« Sei d’accordo, però? ».
« Con cosa? » già troppo distratto, probabilmente
stava riassumendo nella propria testa gli ingredienti della maionese.
« Oh, stai al passo, vorresti? Con me
che dico alle altre persone che siamo una coppia ».
« Ah, sì. No, non mi importa. Le persone
per me importanti lo sanno già e non mi interessa minimamente cosa pensano
tutti gli altri ».
C’è
verità in quelle parole, suppone John, anche se insinuano qualcosa a proposito
di come Sherlock si relaziona con la sua attuale famiglia che è piuttosto
deprimente. In ogni caso, mrs. Hudson già lo sa, e
apparentemente anche Mycroft.
Non
avevano dovuto dirglielo specificatamente, era stato capace di intuirlo in
pochi giorni guardando a malapena le loro facce, o lo stato dei loro vestiti, o
qualsiasi cosa sia stata ad averli venduti.
« Quindi, John, è questa la parte in cui
ti dico che se gli spezzi il cuore io ti spezzo le gambe? » aveva chiesto amabilmente.
« Non possiamo semplicemente lasciarlo
implicito e saltare il discorso? » aveva suggerito John, e Mycrfot gli aveva fatto un sorriso educato quanto
raccapricciante, prima di lasciare l’appartamento.
« Tuo fratello è terrificante » aveva dichiarato John, Sherlock aveva
scrollato le spalle e aveva cominciato a suonare il violino.
In
ogni caso, il problema è tutto di John. Ci dorme sopra per tre notti, finché
non si sveglia un delizioso martedì mattina e trova Sherlock profondamente
addormentato accoccolato sotto al suo braccio, i capelli in disordine, le
labbra appena socchiuse, e l’onda di felicità che questa visione gli provoca è
sufficiente a spazzare via dalla sua testa qualsiasi dubbio vi permei. Lo
sveglia con un bacio e pensa che sarebbe bello indossare quella beatitudine
attorno al collo, così che tutti possano vederla.
Sa
che dovrebbe probabilmente cominciare da Harry, davvero lo sa, ma è difficile e
dunque si distrae dall’inevitabilità di tutto ciò fermandosi al Barts per vedere Mike Stamford.
Immagina
di doverlo dire a Mike personalmente – lui è quello che gli ha presentato
Sherlock, dopotutto. Dovrebbe portargli montagne di ricchezze per quel motivo,
un enorme “GRAZIE” detto con i fiori, scritto nei cieli di Londra con uno di
quei piccoli aeroplani, o almeno regalargli una bella cravatta, ma John davvero
capita lì per caso e decide che portargli un cappuccino funzionerà ugualmente.
« Sei un dono del cielo, in mensa hanno
ancora la stessa brodaglia di sempre » dice Mike, accettando il caffè da
sopra una pila di fogli che sta leggendo.
« Me l’ero immaginato, sì » sogghigna John in sua direzione.
Mike
ha l’ufficio più piccolo immaginabile, del tutto stipato di libri e
raccoglitori, le pareti affollate di diplomi e fotografie di famiglia.
Parlano
del più e del meno per un po’. John viene a sapere che la figlia di Stamford si
è fratturata una clavicola ad una partita di calcio; nel frattempo dà
un’occhiata casuale a qualche documento e si meraviglia di come certe cose
nello studio della medicina non siano cambiate tanto quanto si era aspettato.
« Allora, com’è la vita con Sherlock? » chiede Stamford e John immagina che
sia il momento.
« Bene. Molto bene, in realtà. Vado a
letto con lui? ».
« Cosa? ».
« Sì, beh... ».
Stamford
lo fissa per un lungo, immobile momento, con la tazza in carta del caffè a
qualche centimetro2 dalla bocca, poi gli offre un mezzo ghigno e la
più divertita scrollata di spalle che John ha mai visto. « Oh. Bene, allora. Congratulazioni.
Meglio per te, suppongo ».
« Sì, nemmeno io ne sono sempre
convinto. Potrebbe non essere la decisione più brillante che ho preso, uscire
insieme a Sherlock Holmes. Non mi annoio mai, almeno. Ieri ha fatto esplodere
tre tubetti di maionese, che è finita per tutta la cucina, e mi ci è voluta
quasi un’ora per tentare di togliergliela dai capelli. Ed ecco qui l’amore,
presumo ».
Mike
lo guarda, John risponde allo sguardo e scoppiano entrambi a ridere. Per quella
che sembra essere la milionesima volta, John si sente fortunato che Mike sia
suo amico.
« Ci sono state due morti come questa
fin’ora, Sherlock, pensavo ne fossi più interessato ».
Non
è una melodia insolita, quella, ovvero Lestrade che cerca disperatamente di
farsi aiutare da Sherlock per un caso.
Sherlock
non è ancora convinto. Ha detto che è un sei, al massimo, e non ancora
meritevole di un cambio d’abito. Lestrade è vagamente irritato – ha due morti
sul piatto, dopotutto. Un po’ di cooperazione da parte dell’unico consulting
detective al mondo sarebbe molto apprezzata.
« Non è ancora certo che le morti siano
collegate »
brontola Sherlock, affondando ancora di più nella propria poltrona.
« È quello che mi serve che tu faccia.
Provalo. Ho un presentimento ».
Sherlock
sbeffeggia il presentimento di Lestrade con uno sprezzante movimento della
mano.
John
rimane fuori dalla discussione, seduto sul divano ad allacciarsi le scarpe e
preparandosi per un turno inaspettato all’ambulatorio. Sarah ha chiamato poco
prima, uno dei medici si è dato malato, gli dispiacerebbe coprire un paio
d’ore? A John non dispiacciono un po’ di soldi extra, e finché Sherlock non
accetta il caso può tranquillamente farlo.
« Se cambi idea, telefonami. Per l’amor
di Dio. Se queste morti sono collegate, potremmo essere sulla strada del
disastro »
dice Lestrade cupamente. Sembra che John stia per lasciare l’appartamento e non
apprezza particolarmente l’idea di essere lasciato solo con Sherlock. In tutta
onestà, John non può biasimarlo.
« Ok, voi due smettete di battibeccare,
io esco ». Prende il cappotto, infila in tasca
il portafoglio e fa il giro della poltrona di Sherlock. « Comportati bene. Non farò tardi ». Appoggia una mano sulla spalla di
Sherlock e si china in avanti per posare un caldo bacio su labbra ricettive.
Solo quando si risolleva realizza che lo ha appena fatto davanti a Lestrade, che ora lo sta guardando come se avesse appena
fatto comparire per magia dalla sua tasca una scimmia che fischia “God Save the Queen”.
« Beh... a dopo » saluta John a disagio, dando qualche
colpetto alla spalla di Sherlock e fuggendo dall’appartamento. Fa finta di non
sentire la risatina divertita di Sherlock che lo insegue giù per le scale.
Lestrade
lo segue all’esterno, raggiungendolo giù dalle scale. « A cosa diavolo ho appena assistito? » chiede. Sembra divertito – è un buon
segno, crede.
« A me che saluto il mio ragazzo con un
bacio » ammette John.
« Oh. Ah. Vedo ».
Camminano
in silenzio e John può quasi sentire Lestrade pensare, il criceto sconcertato
sulla sua ruota arrugginita prendere velocità.
« Quindi, da quanto voi...? Perché non
mi sono mai accorto di niente, quindi o sono davvero stupido oppure voi siete
molto bravi a farmi credere che la vostra etichetta “non una coppia” fosse vera
».
Entrambe, pensa John, ma sarebbe troppo rude
dirlo a voce alta. Sherlock lo farebbe, in realtà, ma suppone che almeno uno di
loro debba mantenere un certo decoro sociale.
« È abbastanza recente » dice: « solo un paio di mesi. È semplicemente
capitato, in realtà, ma va tutto bene, quindi andiamo avanti così ».
« Mycroft lo
sa? ».
« Oh, sì. Ha importanza? ».
« No, niente affatto » dice Lestrade distrattamente, ficcando
le mani dentro le tasche del cappotto.
« Lo stavamo tenendo segreto » aggiunge John, facendo attenzione.
« Sì, beh... se volete davvero tenerlo
segreto, probabilmente dovete fare attenzione alle dimostrazioni pubbliche
d’affetto ».
« Il nostro appartamento difficilmente è
pubblico ».
« Giusto. Ma fate attenzione se avete
degli spettatori, allora. Non sono ancora sicuro di come categorizzare
quest’esperienza piuttosto inaspettata ».
John
ridacchia e colpisce la spalla di Lestrade. Greg sogghigna in sua direzione
prima di chiamare un taxi.
Dopo
aver cominciato a fare sesso, Sherlock ha sviluppato velocemente l’abitudine di
dormire nudo. John è assolutamente in disaccordo, con tutto ciò. Al mattino,
Sherlock è un lungo e magro insieme di pigra nudità distesa sul letto e John è
decisamente troppo vecchio per essere così arrapato. È diventato una sorta di
riflesso pavloviano quando la sola vista del grazioso arco della parte
inferiore della sua schiena, il rigonfiamento dei glutei nascosto per metà da
un drappo stupidamente artistico di lenzuola bianche, manda con una caduta a
picco tutto il sangue dal cervello di John al suo inguine.
« Fottiti » sospira John e Sherlock sogghigna
tranquillamente.
« Per me va bene »3
« Silenzio. Sono in ritardo »
« No, non lo sei. Non ancora, per lo
meno. Vorresti esserlo? »
« No. Taci, stai zitto »
Si
veste in fretta e lascia l’appartamento, evitando a malapena di confrontarsi
con uno Sherlock intento a fare colazione nudo. Alla fine, come sempre accade,
poteva anche rimanere e godersi lo spettacolo, dato che rimane in ambulatorio
appena due ore prima che il suo telefono suoni una, due volte, ed è costretto a
chiedere a Sarah un altro dei favori che non riuscirà mai a ripagare per
correre a Scotland Yard.
Non
era stato nemmeno Sherlock contattarlo. Era stato Lestrade a mandargli il
messaggio ingiustamente esasperato “per favore di’ al tuo ragazzo di smetterla
di terrorizzare la mia unità forense”, e gli servono appena quattro messaggi ed
un paio di pubbliche minacce da fidanzato per capire che c’erano stati altri
tre avvelenamenti e Sherlock aveva finalmente accettato il caso con frenetico
entusiasmo.
Le
vittime erano tutte state avvelenate con l’arsenico, ma non avevano
assolutamente niente in comune – persino Sherlock fallisce nel trovare il comun
denominatore. Estremamente preoccupante, ovviamente, e John pensa che potrebbe
non essere mai più in grado di comprare un sandwich per strada, ma Sherlock è
convinto che potrebbe esserci una connessione, un determinato tipo di cibo,
qualcosa che potrebbe usare per dedurre la strada verso l’omicida.
Questo
da origine ad una confusa ricerca attraverso Londra che John pensa finirà per
far bandire Sherlock da tutti i negozi per il resto della sua vita (e dopo dove
sarebbe andato a finire tutto il divertimento di John?).
Molly
non è minimamente turbata quando Sherlock entra con fare disinvolto nel suo
laboratorio, con tre sacche piene di diversi tipi di cibo. John cerca di non
pensarci troppo.
Sherlock,
eccitato, comincia a tagliare dei campioni, ficcando pezzetti di mela e
patatine fritte sotto il microscopio. Molly lo aiuta senza nemmeno chiedere una
spiegazione, aggiungendo qualche sorta di prodotto chimico ai campioni di cibo
e osservando attentamente la reazione. John lavoricchia in giro, passando loro
qualche arnese e sentendosi vagamente inutile.
Sherlock
butta a lato mezza mela. John la raccoglie e la annusa. « Nessun veleno, matrigna? ».
« Cosa? ».
« Lascia perdere. È sicura da mangiare? ».
Sherlock
lo guarda accigliato, la sua attenzione tutta ai risultati e ai numeri e agli
enzimi – i nomi dei quali John sa a malapena pronunciare – e fa fatica a capire
la altrui situazione giornaliera di essere leggermente affamato e circondato da
cibo di dubbie origini. «
Oh, giusto. Sì, sì. È solo una mela ».4
John
sogghigna e la morde. Gli occhi di Sherlock si focalizzano sulla sua bocca per
un breve istante prima che distolga lo sguardo, con una specie di sorrisetto
negli occhi. John sorride ancora e si volta, toccando gentilmente con la spalla
la schiena di Sherlock prima di gironzolare attorno al tavolo di Molly. Si
siede, osservandola lavorare, masticando la mela.
« Quella mela è sicura da mangiare? » chiede lei, alzando gli occhi dalla
capsula Petri.
« Oh, sì. Sherlock l’ha controllata »
« Qualcosa è cambiato, fra voi due » dice all’improvviso, una domanda nei
suoi occhi a cui non vuole dare voce.
Lei
capisce le persone fin troppo bene, pensa John. Notevole, per una persona che
passa la maggior parte del proprio tempo attorno ai morti, essere così
percettiva nei confronti dei vivi.
« Sì » risponde semplicemente. Non ha senso
girarci intorno. Molly è una ragazza sveglia, può connettere quei piccoli e
strani puntini.
« Oh » lei tiene gli occhi puntati su di lui,
e John può vedere il suo cuore rompersi, cadere in pezzetti seghettati che
strappano e tirano le sue viscere, e ciò lo fa sentire una persona
incredibilmente orribile.
« Quindi voi siete... siete... capisco » continua lei, e si sforza di fare un
sorriso.
« Con-congratulazioni.
Voglio dire... è una bella cosa ». Lo dice davvero e non lo dice davvero
tutto insieme, e per un momento John è perso. Vorrebbe abbracciarla, più o
meno, dirle che andrà tutto bene e che ci sono molti altri pesci nel mare, ma
allo stesso tempo c’è questo bisogno intenso di farle sapere che, ehi, capisco che questo inusuale e selvatico
pesce tropicale è una meraviglia, ma lui è mio. John non ha mai
sperimentato quel livello di possessività, prima. È positivamente illuminante.
« Grazie » le dice comunque, forzando un sorriso
che combacia con quello di lei. Rimangono a sorridersi falsamente a vicenda per
qualche secondo mentre Sherlock nell’angolo bestemmia contro il microscopio e
scuote una pipetta come se fosse una bacchetta magica, come se dovesse far
comparire i risultati desiderati con la sola forza di volontà.
« Da quanto? » chiede Molly, cercando di suonare
perfettamente colloquiale e amichevole e carina, e lui è quasi tentato di dirle
che non deve sempre fingere di essere per forza d’accordo con qualsiasi cosa.
« Non molto. Un mese o due ».
« Oh... » La sua espressione vacilla e guarda
altrove per un momento, prima di prendere un profondo respiro e tornare a
guardarlo: «
Mi sento così stupida... »
dice, così piano che è quasi un sussurro. « Mi dispiace, io... non intendo...
ecco... »
« Ho capito » risponde John, e trova la forza dentro
di sé di allungare la mano e darle qualche lieve pacca sulla spalla. Il falso
sorriso ritorna e lei si agita e si allontana, gli occhi che volano a Sherlock
per un istante.
« Scusami » dice lei in tono piatto e poi sparisce
fuori dalla porta. John la guarda correre per il corridoio e scomparire dietro
l’angolo e può solo immaginare: è andata a piangere in un cubicolo del bagno,
forse? Non è per niente sicuro di come affrontare questa situazione ed il suo
cuore duole un po’ per lei, per quella ragazza con una terribile sfortuna.
Spera solo di non provocarle ferite che mezzo chilo di gelato ed una maratona
di Glee non possano guarire.
Sherlock
ne rimane deliziosamente ignaro, mentre gira la manopola del microscopio e
sembra frustrato. John gli passa un braccio attorno alla vita e appoggia la
testa alla sua spalla. Sherlock non reagisce nemmeno, ma va tutto bene. John
non si aspettava che lo facesse.
« Non ha senso » borbotta Sherlock.
« Non stai trovando ciò che ti eri
aspettato? ».
« No ».
Sherlock
alza lo sguardo ed il laboratorio vuoto lo colpisce solo in quel momento. « Dov’è Molly? Ho bisogno che faccia
qualche altro test ».
« Le serviva un momento » dice John attentamente.
« Per cosa? ».
« Ha scoperto di noi ».
« Gliel’hai detto tu? ».
« No, ci è arrivata da sola. Non sei
l’unica persona del pianeta brava osservare gli altri ».
« Oh. E perché se ne è andata? ».
« Perché le serviva un momento da sola.
Lascia che sia ».
Non lo capiresti comunque, pensa
John. Sherlock osserva accigliato lo spazio vuoto e John si china e posa un
bacio nell’angolo della sua bocca, solo per un istante, bisognoso di quella
piccola assicurazione più di quanto serva a Sherlock.
Sherlock
torna al suo microscopio e la sua concentrazione si dissolve completamente
dentro qualsiasi cosa abbia dissezionato sotto la lente e John rimane
appoggiato a lui ancora per qualche minuto, solido calore vivente, prima di
lasciarlo e trovarsi un posto in cui sedersi ed aspettare diligentemente che
Sherlock abbia finito.
Il
caso viene risolto, come sempre accade, con Sherlock che ha un qualche strano
lampo di genio e John che si risolve a non comprare mai più un altro budino per
il resto della propria vita. Le cose vanno avanti, ancora come sempre accade, e
John tenta di non pensare troppo a come catturare un avvelenatore seriale sia
il pane quotidiano, per loro.
È
a malapena due giorni dopo che l’avvelenatore seriale viene trovato morto nella
propria cella, che qualcun altro viene a sapere della relazione di John e
Sherlock.
Sherlock
aveva detto a John, dopo l’inaspettato momento di onestà di quest’ultimo al Tesco, che tutte le persone per lui più importanti sapevano
già di loro.
Era
una bugia.
Ovviamente
non è qualcuno di cui potrebbe parlare a John, ma eventualmente è con un
semplice messaggio – che porta ad una meno semplice conversazione – che
Sherlock lo dice all’ultima persona a cui potrebbe immaginare di volerlo dire.
Trova una strana soddisfazione in tutta la faccenda e capisce, allora, perché
per John è così importante. La felicità di una persona, capisce, è fatta per
essere messa in mostra, come le piume di un pavone sono progettate per essere
mostrate e risplendere.
Il Guatemala è bellissimo in questo
periodo dell’anno. Dovresti unirti a me – I
Non credo che John apprezzerebbe molto
se andassi all’improvviso a girovagare in America Centrale. – S
Il dottor Watson è parecchio premuroso
nei confronti tuoi e di dove girovaghi, non è vero? – I
Beh, sono suo, fa bene ad essere
premuroso. – S
I miei occhi mi ingannano, o ti sei
appena riferito a te stesso come suo? – I
L’ho fatto. – S
Finalmente si è arreso?
Congratulazioni, sono stranamente orgogliosa di voi. – I
Non credo che “arrendersi” sia
necessariamente la descrizione giusta per lo svolgersi degli eventi. Ma sì. – S
Presumo significhi che non posso più
rivolgermi a te come “il vergine”? – I
Potresti, ma sarebbe incorretto. – S
La
conversazione continua ancora, vorticando verso un territorio molto più
esplicito piuttosto in fretta. Sherlock ne esce con qualche favolosa idea su
cose che potrebbe fare a John, e non gli rivelerà mai da dove le ha prese.
John
non se ne lamenta, comunque.
Ogni
due o tre mesi John esce con i suoi vecchi compagni di rugby di Blackheath.5 Non gioca più ormai, non dopo
l’Afghanistan, non ora che ha la spalla e la gamba e il suo coinquilino
esasperante da rincorrere su e giù, ma vedere i ragazzi è un piacevole ricordo
dell’essere giovani e di quanto gli piaceva farsi regolarmente spaccare i denti
su di un campo infangato.
Hanno
quasi tutti raggiunto i quaranta ora, la maggior parte è sposata, alcuni hanno
dei bambini, rispettabili padri di famiglia con un seggiolino per neonati
sull’auto. Eppure, le loro serate fuori sono rozze come ci si aspetta, una
follia spacca-spalle e trangugia-birra,
ed è uno spiraglio di normalità nella vita tutt’altro che normale di John.
Gli
si presenta una scelta pesante da fare, però. Dire o no a questi ragazzi di
Sherlock?
Si
scola una pinta6 e lascia che il pensiero ristagni per un momento
nell’atmosfera muschiata del pub. Le loro discussioni rumorose arrivano
velocemente alle loro vite – a Kev è nato un
maschietto giusto il mese scorso, la cui fotografia passa di mano in mano
finché anche il più lontano dal centro del gruppo fa le moine a quella facciotta – e il caro vecchio Stephen sta pianificando di
sposare la sua Joyce in estate, il che conduce a prese in giro che coinvolgono
catene e palle di ferro e l’occasionale imitazione della sferzata di una
frusta.
È
un enorme bastione di eterosessualità e, ovviamente, cominciano molto presto a
dare il tormento all’ultimo uomo single del gruppo – John Hamish Watson, grazie
tante.
« Allora, stai finalmente pensando di
sistemarti anche tu, Johnny? » dice Kev, agganciando un braccio
alle spalle di John.
« Speriamo di no, dovrà pure rimanere
qualcuno di cui essere gelosi, qui! »
dice Amir, felicemente sposato e padre di tre
bambini.
« Già, e John non è mai a corto di
attenzioni femminili, non è vero? » rimarca Stephen e John ghigna in sua
direzione.
« È sorprendente che tu ci riesca, per
essere un omarino piccolo e fesso »
Eliot lo spintona con la spalla e John gli da una gomitata scherzosa al
fegato. « Si chiama sex appeal, amico. Sex
appeal » risponde.
« Andiamo, dicci qualcosa di più. Stai
vedendo qualcuno di recente? » insiste Kev.
Va
bene. Quello è il suo segno, decide John.
Prende
un lungo sorso della sua Lager e annuisce con la bocca piena.
« Questo è il nostro Johnny! Parlacene,
come si chiama? ».
Sente
il cuore battere nelle orecchie, ingoiandosi il ronzio del pub tutto intorno. « Sherlock » sputa fuori, a disagio.
« Sherlock? Che diamine di nome è, per
una ragazza? ».
« Non è una ragazza ».
C’è
un battito, un momento di scioccato silenzio, e il braccio di Kev scivola via dalle sue spalle. Lascia un vuoto
tangibile, come una fresca folata di vento che persiste nel piccolo spazio che Kev stava occupando fino a poco prima.
« Che diamine di nome è, per un tizio? » dice Eliot, ed un sogghigno vagamente
maniacale sfugge al controllo di John.
« Aspetta, sei diventato gay? » li interrompe Kev,
e qualcosa nel suo tono di voce innalza segnali d’avvertimento che John avrebbe
preferito non veder comparire intorno ai suoi amici di vecchia data.
« No, non proprio » dice.
« Bisessuale allora ».
« Non lo sono. No, non penso ».
« Ma esci con un uomo ».
Kev sta avendo dei problemi a seguire il
discorso e John lo vede provare a connettere le cose in un modo in cui potrebbe
capirle, ma fallisce nel tentativo. Suppone che sarebbe più semplice per
l’altro se lui fosse capace di stamparsi addosso quell’etichetta,
“omosessuale”, una categoria chiara e nitida, ma John non può imporre a se
stesso di banalizzare così tanto i propri sentimenti per Sherlock.
« Sì » risponde John. « Esco con un uomo, sì. Mi sono
innamorato di un uomo, persino. So che è strano. È... beh, è incredibilmente
complicato ed incredibilmente semplice in parti uguali. Non ha senso e
contemporaneamente ha tutto il senso del mondo. So come suona, è solo che– ».
« Le persone non diventano gay tutto
d’un tratto »
lo interrompe Kev. Eliot si agita nervosamente,
piegando le mani a coppa intorno alla sua pinta. Amir
si blocca e fissa John come se gli fosse cresciuta una seconda testa.
« Sherlock è il nome del tuo
coinquilino, vero? Da quanto tempo te lo scopi? » continua Kev
e c’è una nota d’accusa nella sua voce, il sentore che la confessione di John
fosse una sorta di affronto personale, il che accende una fiammella di rabbia
negli occhi di John.
« Non sono affari tuoi da quanto tempo
me lo scopo »
dice sulla difensiva. «
Sherlock mi rende felice come non ricordo nemmeno di essere mai stato. Se per
te è un problema che sia un uomo, puoi anche levarti dai coglioni ».7
« Forza ragazzi, manteniamo toni
civili... »
prova a dire Steven, alzando la mano per cercare di calmarli, ma John la
schiaffeggia via.
« No, non mi piace il suo tono. Hai dei
problemi con me? Con me che ho un ragazzo? » la parola con la R sembra riscuoterli,
un’immagine molto più concreta del vago “uscire con un uomo”.
« Sì, forse ce l’ho » risponde Kev,
stizzito. «
Non è un crimine, certo. Non ti sto mettendo in croce. Ho solo un problema
quando uno dei miei compagni mi dice all’improvviso di essere una checca come
se fosse una cosa di poco conto ».8
« Mia sorella è gay e lo sai da anni,
anche quello è un problema per te? ».
Kev lo ha appena chiamato “checca”. John
si era immaginato che sarebbe successo presto o tardi, ma gli risuona in testa
e manda un brivido strano lungo il suo sistema nervoso non dissimile da quello
che si avrebbe masticando la stagnola.9
« Non me ne frega un cazzo di tua
sorella. Me ne frega quando tu ce lo butti in faccia come se niente fosse.
Facevamo la doccia insieme, amico! ».
Qualcosa
nel cervello di John va finalmente in cortocircuito, un lampo bianco di
qualcosa per cui sperava di essere troppo vecchio, e deve trattenersi per non
attaccare fisicamente Kev. Lui è più massiccio, ma
John sa di poterlo battere, se deve.
« Qual è il tuo cazzo di problema?! » urla John. Amir
fa un passo indietro, uscendo dal cerchio. « Sei preoccupato che io ti faccia
segretamente la corte? È quello? Beh, permettimi di far esplodere la bolla per
te: non toccherei il tuo culo da femminuccia nemmeno con un palo lungo tre
metri. Sì, mi sono innamorato di un uomo. Un ragazzo alto e bellissimo, più
intelligente di tutti noi messi insieme e che è infinitamente meglio di te in
un modo che non puoi neanche immaginare. Quindi non sforzare quella tua piccola
testa ignorante pensando a come potrei trasformarmi in una sorta di predatore
gay che brama di scoparvi tutti uno per uno perché fidati, ho qualcosa di
meglio da cui tornare ».
« Mi stai accusando di qualcosa?! » ribatte Kev
con rabbia, gonfiando il petto.
« Sì, forse lo sto fottutamente facendo.
Guardati, va tutto bene finché non scopri che mi sono innamorato di qualcuno
che ha un cazzo. Se hai qualcosa da dirmi, Kevin, devi dirmelo in faccia! ».
Lo
guarda dritto negli occhi ma Kev rimane in silenzio,
squadrandolo a sua volta.
« Qualcun altro ha qualcosa da dire? » continua John, fissandoli con uno
sguardo d’ira pura che solo una persona bassa può avere; un accenno di rabbia
cruda a malapena avvolto da un pacchetto troppo piccolo. Amir
evita il suo sguardo, ed Eliot sembra ridicolmente incapace nonostante la sua
stazza imponente.
« Credo che Kev
stia cercando di dire... »
comincia Stephen con cautela dopo un momento di silenzio profondamente
imbarazzante, ma John lo interrompe.
« Stai dalla sua parte? Seriamente? Così,
come niente? Non me lo sarei mai aspettato da voi, ragazzi, mai » scatta. « Sto solo cercando di essere onesto,
ok? Vi sto solo dicendo costa sta succedendo nella mia vita e voi mi sparate
addosso queste stronzate? ».
Rimangono
in silenzio, fissando lui o i loro bicchieri, e John ne ha semplicemente
abbastanza.
« Sapete cosa? Non mi serve questa merda
» sputa, sbattendo il proprio bicchiere
sul bancone con un botto deciso. Sa benissimo che se non se ne va ora potrebbe,
in effetti, prendersela troppo e finirebbe con il regalare a qualcuno di loro –
probabilmente Kev – un naso sanguinante.
Afferra
il suo cappotto mentre se ne va, così incazzato che a malapena avverte la
pioggerellina fine pungergli il volto. Non sapeva cosa aspettarsi. Poteva
essere peggio, ma poteva anche essere meglio, e si perde nel tentare di capire
cosa diavolo sia successo esattamente, là dentro.
Non
gli viene in mente di fermare un taxi o di prendere la Tube finché non è già a
metà strada, schivando gli avventori di altri pub e una ripugnevole gang di
turisti tedeschi. Suppone che potrebbe semplicemente continuare a camminare,
con Londra che diventa sempre più scura e sempre più bagnata attorno a lui.
Quando finalmente apre la porta del 221B, la pioggia gli scivola nel colletto
sottoforma di pigre goccioline.
La
puzza lo coglie a metà delle scale.
Sembra
essere sia organica che chimica al tempo stesso, con una forte base di carne
bruciata. Scatta su per le scale e dentro la cucina dove una non meglio
identificabile massa mezza-bruciata di qualcosa se ne sta sopra il tavolo.
Sherlock, almeno, ha avuto l’accortezza di mettere un telo di plastica sul
tavolo, prima, ma tutto l’appartamento puzza come un Transformer che ha
combattuto fino alla morte contro un rinoceronte, finendo poi entrambi in quel
casino bruciacchiato sulla superficie del tavolo.
« Cosa diavolo è successo qui?! » grida.
« Un esperimento ». Sherlock è seduto dietro il laptop di
John, e sta scrivendo.
« Cosa... cosa?! Cosa accidenti è
questo?! »
allunga un dito per toccare la massa strana e tremolante, ma Sherlock lo ferma
con un urlo acuto: «
non toccarlo senza guanti! ».
« Che?! Non posso lasciarti solo nemmeno
per cinque minuti, vero?! » John non fa altro che urlare.
Sherlock
alza lo sguardo e aggrotta le sopracciglia. « Te ne sei andato solo per cinque
minuti? ».
Ovviamente.
Ovviamente Sherlock si era accorto a malapena che se ne era andato per un paio
d’ore, ovviamente non aveva nemmeno considerato che era tornato prima del
previsto.
« Cos’hai combinato? Cos’è questo
casino?! ».
« L’effetto del calore e di un certo mix
di sostanze chimiche sui tessuti animali, John. È rilevante per un caso ».
« Beh, hai intenzione di ripulire? ».
« Non è ancora finito ».
Questo
abbatte l’ultimo pilastro superstite della pazienza di John e lui afferra la
prima cosa a portata di mano – un libro che lui stesso aveva lasciato sul
tavolinetto, quel pomeriggio – e lo scaglia dall’altra parte del salotto. Si
schianta contro il muro e ricade tristemente sul tappeto. Sherlock si stacca
dalla scrivania e lo guarda ad occhi sgranati.
« Fai sempre così! » grida John. « Fai un casino e non ti prendi nessuna
responsabilità! Non ti accorgi per niente degli effetti che ha sulla vita delle
persone! Il nostro appartamento puzza come uno zoo di robot, te ne rendi almeno
conto? Ti rendi conto che ci devo vivere anche io qui dentro?! ».
Sì,
John ha, tipo, mescolato insieme più cose. Ne è dolorosamente consapevole, come
una luce gialla e brillante che lampeggia nella sua visione periferica, ma la
copre con una rabbia vagamente male indirizzata.
« Pulirò...? » offre Sherlock, ma non è abbastanza.
« Non è questo il punto, Sherlock! Pensa
prima di fare qualcosa, pensa! Pensa
a me, per una volta! ».
Sherlock
si sente quasi offeso da quelle parole e John si rende conto di cosa sta
dicendo, e si sente irragionevole, e odia ogni cosa per un desolato, vuoto
momento.
« Fanculo, fanculo tutto. Vado a letto. Lasciami solo » ringhia.
Gira
i tacchi, ignorando appositamente il casino in cucina, ed entra in camera da
letto. Getta i suoi vestiti a casaccio attraverso la stanza, quasi strappa la
maglietta con cui dorme tentando di infilarsela dalla testa così violentemente
che quella quasi protesta e si rintana iracondo nel letto di Sherlock.
A
questo punto gli viene in mente che questo suo “andarsene a dormire con stizza”
avrebbe avuto più senso se fosse andato nel suo,
di letto. La sua camera al piano di sopra è rimasta esattamente com’era, un
sottile strato di polvere a coprire le lenzuola inutilizzate. L’idea di andare
di sopra a dormire gli fa chiudere dolorosamente lo stomaco, invece, quindi
rimane dov’è, provocatoriamente accucciato dalla sua parte del letto.
Sherlock
entra in camera forse mezz’ora dopo e si arrampica sul letto senza accendere la
luce. È così dolorosamente silenzioso fra loro, pensa John, che può quasi
sentirlo trattenere il fiato, e John stringe i pugni sotto le lenzuola.
« Ti ho fatto arrabbiare » dice Sherlock nell’oscurità immobile,
ogni parola cautamente misurata.
« Te ne sei accorto, meglio per te » borbotta John.
« Ho ripulito. L’odore rimarrà per un
giorno o due, però. Mi dispiace ».
John
si gira sulla schiena e fissa il soffitto. « No, non è vero. Non scusarti se non
intendi farlo sul serio ».
Sherlock
rimane in silenzio per un po’ e John strizza gli occhi e cerca di obbligarsi a
dormire. Non funziona, la rabbia ed un senso di inutilità si rincorrono nella
sua testa come un cane che insegue la propria coda. Da un lato, inoltre, un
guizzo di senso di colpa richiede la sua attenzione per essersi sfogato su
Sherlock in quel modo, ma quello sceglie di ignorarlo. Non è sicuro di essere
dell’umore giusto per affrontare tutto in una volta senza rischiare la
combustione spontanea.
« Dimmi cos’ho sbagliato » chiede Sherlock. Dovrebbe suonare come
un ordine ma non lo sembra – impercettibilmente
trattenutosi per evitare che John si arrabbi ancora di più.
« Oh, Cristo » borbotta John. « Hai trasformato la cucina in una
discarica di rifiuti tossici, tanto per cominciare. Senti, non è... non sei
solo tu ». Sospira e si strofina gli occhi con i
pollici. «
Ho parlato di noi ad alcuni dei miei vecchi compagni di rugby. Il responso è
stato... affatto favorevole ».
« Oh... » Sherlock lascia che le parole si
depositino. «
Te la sei presa con me ».
« Sì, sì l’ho fatto. Perché sono un cazzone, a quanto pare. Ma un cazzone
giustificato, penso, considerando la cucina ».
« Mi dispiace ».
« Di nuovo: no, non lo sei. Tu fai
sempre del casino e non ti scusi mai ».
« Non per la cucina. Per i tuoi amici ».
« Ah, già. Beh... anche io, in realtà ».
« Ti hanno insultato? ».10
« Oh, no. No, no. Niente di così...
immediatamente omofobico, credo. Non l’hanno
semplicemente accettato. Non hanno accettato te. Ho urlato loro contro ».
Sherlock
si muove verso di lui ma si ferma, tirandosi indietro. L’esitazione esce da lui
come un’onda, e John è felice di non poter vedere gli occhi da cucciolo che
sicuramente Sherlock gli sta facendo nell’ombra, ma comunque sospira.
« Vieni qui, stupido » mormora, e Sherlock è attorno a lui
praticamente subito, lunghe e snelle braccia che lo circondano e lo tirano
contro il suo petto come un bambino. Indossa il pigiama, il che dice a John che
si sentiva troppo a disagio a causa della situazione per dormire nudo come
faceva di solito. Sherlock non è l’unico che può dedurre certe cose delle altre
persone, dopotutto.
« Credo che vada tutto bene » medita John, appoggiando la fronte sul
cotone soffice della maglietta di Sherlock. « Almeno ora so chi sono i miei veri
amici ».
« No, non va tutto bene » dice Sherlock, e John ci vede un fondo
di verità. Sherlock respira nei suoi capelli e, per quanto odi ammetterlo, la
sua sola presenza calma la matassa di sentimenti surriscaldati che vortica nel
petto di John. Si arrotola sul dito l’orlo della maglietta di Sherlock, ascolta
il battito del suo cuore e si sistema in una sorta di fragile calma fra le
braccia dell’altro.
La
tangibilità del battito del cuore di Sherlock, così fermo, battiti sordi, a
volte lo coglie ancora di sorpresa. Sherlock è così lontano dalla normalità,
talmente al di fuori da quel cerchio che rappresenta tutto ciò che è comune,
che è fin troppo semplice vederlo come più che umano (o meno, dipende con chi
si sta parlando).
Il
fatto che sia come chiunque altro, dopotutto, che il suo cuore batta e il suo
stomaco a volte faccia strani rumori e che si tagli le unghie dei piedi...
quello è qualcosa che, ogni tanto, John considera.
Arriva
sempre con la realizzazione che lui è, probabilmente, l’unica persona a cui
Sherlock ha permesso di avvicinarsi così tanto da vedere anche quel lato di sé.
Il lato che parla nel sonno e arrossisce come una pesca sotto la forza delle
labbra e dei denti desiderosi di John sopra la sua pelle pallida.
« È stato il nostro primo litigio come
coppia » dice poi Sherlock. La sua voce è un
tremore profondo nel suo petto e sa di casa più di ogni altra cosa a cui John
possa pensare.
« Mh...
probabilmente non sarà l’ultimo » dice John. Sherlock ridacchia – un
altro tremore profondo, e John vuole accucciarvisi sopra e non lasciarlo mai.
« Ti amo » gli offre Sherlock.
« Succhiamelo ».
« Idiota ».
« Ti amo anche io ».
« Lo so ».
John
sorride e sospira e prende fra i denti un po’ di tessuto della maglietta di
Sherlock. Si sente molto meglio.
John
riceve un messaggio di Eliot, fra tutti, la mattina successiva.
Scusa per ieri sera, amico. Nn volevo
ferire i tuoi sentimenti. – Eliot
Sì, lo so. Ha fatto piuttosto schifo,
però. – J
Lo sai cm è Kev,
tt agitato x l’aria fritta. Non sono d’accordo con qll ke ha detto, xò. – Eliot
So com’è Kev.
Scusa, ma non voglio avere più niente a che fare con lui. Non mi serve, nella
mia vita. – J
Siamo ancora amici, ok? Nn mi interessa
cs fai a letto cn gli
uomini. – Eliot
Siamo ancora amici, Eliot. – J
Grazie. – J
Nn c’è problema, Johnny. Saluta il tuo
uomo da parte mia. – Eliot
John
lo fa. Sherlock ne è piacevolmente confuso.
E
poi, tre settimane e quattro giorni dopo la sua decisione di essere aperto
sulla sua riscoperta sessualità, che è sempre più convinto sia “eterosessuale-con-l’eccezione-di”, John non può più evitare
l’inevitabile.
Una
cosa è fare coming out con la padrona di casa, con il
fratello del tuo ragazzo, con i tuoi amici. La tua famiglia, tuttavia, è una
cosa completamente diversa, un acquario di pesci spaventosi e giudicanti.
Ti
conoscono da tutta la vita. Le percentuali di disapprovazione, di delusione, o
di puro rifiuto sono così vaste e devastanti che quasi lo affogano, lo tengono
sveglio, lo distraggono.
Desidererebbe
poter dire che il tutto verrebbe mitigato dal coming
out di Harry, fatto quando aveva diciannove anni. Ma non lo è. È sapere come la
sua famiglia ha reagito con lei che rende le cose difficili a lui. Il senso di
profonda responsabilità, il desiderio di non far passare a sua madre ciò che
Harry le fece passare all’epoca, è così immediato che gli fa venire la nausea. Un
traditore verso sua sorella, verso se stesso, forse anche verso Sherlock, ma è
radicato così profondamente dentro di sé che non riesce a scrollarselo di
dosso.
Quindi
Harry. Sì, Harry.
Rimane
in piedi davanti alla sua porta per circa dieci minuti dopo aver bussato prima
che finalmente lei venga ad aprire, apparendo sorpresa e più che colpevole. Lui
fa finta di non accorgersene, cerca di non pensare a cosa stesse facendo, ma
c’è una bottiglia vuota di vino nel lavello e un’altra mezza vuota sul ripiano
e nessun altro in casa. Sembra in forma, ha messo su un po’ di peso, ma il
trucco sbavato sul suo volto a malapena nasconde le profonde occhiaie sotto i
suoi occhi.
L’appartamento
è come’è sempre stato ma l’assenza di Clara è palese: le sue piccole cose sono
sparite, le candele profumate che accendeva sempre e i lavori all’uncinetto sul
divano di casa sono spariti. Lui non ne fa parola. Non commenta nemmeno la
nuova bottiglia di vino con la quale lei torna dalla cucina, accettandone
silenziosamente un bicchiere.
Chiacchierano
di cose stupide per un po’ – Harry gli parla del suo lavoro, John le dice della
clinica, riempiendo gli spazi vuoti con parole che si sono detti l’un l’altra
talmente tante volte da risuonare insensate. È una di quelle chiacchierate che a
Sherlock non piacerebbe, piatta e semplice, e per venti minuti buoni John
invidia la capacità del detective di declinare obblighi sociali di quel tipo.
Finalmente,
dopo il secondo bicchiere che lei ha bevuto da quando è arrivato, gli chiede
perché è lì. Una domanda che potrebbe essere rude, forse, se non fosse così
insolito per suo fratello presentarsi alla sua porta all’improvviso come ha
appena fatto.
« Ho bisogno di parlarti » dice lui lentamente, le parole
bloccate in gola. Il vino è pesante e gli impasta la lingua. Lei alza le
sopracciglia.
« Di Sherlock » continua lui. Ancora troppo vago. Una delle
sopracciglia si abbassa, l’altra rimane alzata.
« Di Sherlock e di me ». Lui la guarda e aspetta che realizzi.
Lo
fa, una luce che si accende nella parte del cervello di Harry non troppo
affetta dalla sbornia. «
Oh » dice. « Oh. Cristo, Johnny. Dici sul serio? ».
Lui
annuisce, portandosi il bicchiere vuoto al petto. « Maledettamente serio ».
« Oh. Oh, Cristo ».
I
minuti passano sull’orologio a muro – una cosetta pacchiana, caratteri
elaborati, Harry se ne è innamorata in un negozietto bric-à-brac11
fin troppo costoso di Hastings – mentre rimane seduto
e osserva Harry rielaborare tutto ciò che sapeva di suo fratello.
« Com’è successo? » chiede finalmente.
Lui
le fa un sorrisetto stentato e con una scrollata di spalle le dice la loro
storia, e per la prima volta racconta a qualcuno tutta la faccenda dall’inizio
alla fine.
« Potrà sembrare stupido, ma ha
cominciato a dormire nel mio letto per uno dei suoi sventurati esperimenti.
Solo dormire, nient’altro. Beh, all’inizio. Solo... non lo so. Ad un certo punto
mi sono reso conto di quanto fosse bello averlo accanto per tutto il tempo.
Parla nel sonno, è... stranamente confortante. Poi, ad un certo punto, ci siamo
accorti di essere già in una relazione senza che nessuno di noi due avesse
fatto lo sforzo effettivo di entrarci e io ho dovuto mettere in ordine
parecchie cose, dentro di me. Ne sono uscito con la consapevolezza di essere
stupidamente innamorato di lui e non mi ero nemmeno mai accorto di esserlo.
Gliel’ho detto. Lui mi ha detto di provare la stessa cosa. Sono passati un paio
di mesi e... beh... è tutto molto semplice, in realtà, in un modo strano e non
mi sono mai sentito al mio posto come ora. Se per te ha senso ».
« Sì, è sensato » dice Harry con una voce calma e
reverenziale, guardandolo come non lo ha mai guardato prima e lo colpisce il
fatto che, per la prima volta nella loro vita, si capiscono perfettamente a
vicenda. «
Lo dirai alla mamma? ».
John
sussulta. «
Non lo so. Forse, non so. Parlo raramente con lei, comunque. So che
probabilmente suono come un codardo, però... ».
« Sì, sei un codardo, ma ti capisco » lo interrompe con un sospiro. « Non c’è bisogno di riaccendere quel
trauma infantile, hai ragione ».
« Eventualmente lo farò » dice lui debolmente ed entrambi sanno
che sta mentendo.
« A papà non sarebbe importato » aggiunge lei e John vorrebbe che non
l’avesse fatto, ma comunque annuisce.
Lei
si versa un altro bicchiere di vino e permette a lui di rifiutarlo. « Ora te lo devo chiedere. Sei gay,
adesso? ».
« Dubito che le persone possano essere
“gay adesso” »
dice lui meditabondo.
« Sai quello che intendo ».
« Sì. No, non davvero. È solo lui, ne
sono abbastanza sicuro. Non che il mio occhio non abbia subito un ampliamento
d’orizzonti – giusto un po’ – però sai... lui fa questo effetto a tutti, non
solo a me. Prende tutto quello che sai essere vero di te stesso e del mondo in
cui vivi e te lo rigira completamente ».
Lei
sogghigna, ingoiando una sorsata di vino. « Ho letto da qualche parte che se un
gemello è gay, l’altro ha il 70% di possibilità di esserlo a sua volta ».12
« Sono abbastanza sicuro che si applichi
solo ai gemelli identici ».
« Dettagli. Andiamo, guarda noi due: è
strano, non è vero? Il lato positivo è che mamma potrebbe anche avere quel
genero che ha sempre voluto ».
« Oh, fidati, nessuno vorrebbe avere
Sherlock come genero ».
Lei
ghigna di nuovo, facendo girare il vino dentro al bicchiere. « Sai, credo di doverlo incontrare per
forza, adesso. Più di prima. Ci devi presentare, perché praticamente fa già
parte della famiglia ».
« Sì, sì. Lo incontrerai presto, ne sono
sicuro. Preparati ad una delusione, lui vive per insultare la gente ».
« Anche tu. Lui lo fa solo in modo più
evidente ».
John
la guarda, sorpreso per quell’intuizione improvvisa, e appoggia il bicchiere
vuoto sul tavolo.
« È davvero una cosa seria, comunque? » chiede lei dopo aver finito di bere il
suo senza riempirlo di nuovo.
« In che senso? ».
« Nel senso se stai pensando al
matrimonio eccetera ».
« Oh santo cielo. No, no, no ». Non che John non riesca ad immaginarsi
loro due insieme per il resto della vita – dubita che Sherlock lo lascerebbe,
dopotutto – ma l’idea di fare quel nodo sembra più che sciocca, a questo punto.
Sherlock potrebbe non smettere mai più di ridere se John suggerisse un’idea
simile, in ogni caso.
La
loro è un’unione per la vita che rimarrà beatamente non-ufficiale.
« Ne sei sicuro? Penso che sarebbe
carinissimo con addosso un vaporoso vestito bianco ».
John
le lancia addosso un cuscino.
John
si sente una persona completa. È una conclusione bizzarra, dato che non ricorda
di essere mai stato solo mezza persona, o tre quarti di persona, o qualche
altro numero matematicamente complesso ma si sente esattamente così ed è
bellissimo, e quindi non se ne lamenta.
È
innamorato. Non lo sta nascondendo a nessuno. Ha la più stravagante situazione
domestica che chiunque a Londra possa avere (e se effettivamente c’è qualcun altro in città il cui
fidanzato ha l’abitudine di tenere un timo umano nel frigorifero dentro un
contenitore della Tupperware gli farebbe piacere
incontrarlo, perché è sicuro che andrebbero meravigliosamente d’accordo), ed è
ancora soggetto a più sparatorie di quanto dovrebbe, ma è innamorato e tutti lo
sanno e lui è, semplicemente, pacificamente e anche facilmente, felice.
Ha
contato le sue perdite ed i suoi guadagni ed è arrivato al perfetto
bilanciamento. Immagina che sia tutto ciò che chiunque chiederebbe per se
stesso, nella vita.
Appoggia
la sua zuppa di pomodoro fatta in casa davanti a Sherlock, in una scodella con
un Puffo disegnato sopra che ha avuto gratis all’alimentari. Sherlock nota il
Puffo e John si chiede per un istante se sa cos’è.
« Non ho fame, John » dice Sherlock semplicemente e torna
sulle sue carte. Qualcosa che ha a che fare con il timo e che implica un sacco
di numeri e lunghi paragrafi scritti nella calligrafia disordinata di Sherlock.
John non fa domande. È divertente che la maggior parte della loro relazione si
riduca a quello, in realtà.
« Hai mangiato qualcosa, oggi? ».
« Ho fatto colazione ».
« Stai mentendo ».
« Non è vero ».
Col
cavolo che non è vero. Sherlock poteva essere ancora addormentato quando John è
uscito per andare al lavoro, ma sarebbe pronto a giurare sulla propria anima
che quell’insopportabile cazzone non ha mangiato
niente per tutto il giorno.
« Fuori la lingua, fammi vedere ».
Sherlock
si acciglia, tirando fuori un vagamente confuso pezzo di lingua e guardando
verso John.
« Ecco, visto? Non hai mangiato niente ».
La
lingua torna di scatto dentro la sua bocca e Sherlock lo guarda meravigliato. « Come fai a dirlo?! ».
John
sogghigna. «
Non posso. Me l’hai appena confermato tu. Ora dammi ascolto e mangia questa
dannata zuppa ».
Sherlock
lo fissa con cipiglio crucciato ed emette un suono insoddisfatto che le persone
non dovrebbero più fare dopo i sei anni, ma comincia comunque a portarsi alla
bocca qualche cucchiaiata di zuppa. È una buona zuppa, in ogni caso. John si
sente orgoglioso di come riesce a ficcare cose a caso dentro una pentola piena
d’acqua e farle bollire.
Si
siede di fronte a Sherlock, apre il proprio laptop e aspetta pazientemente che
si accenda. Al suo blog serve un aggiornamento – è passata una settimana da
quando ci ha scritto qualcosa sopra. Non hanno nessun caso al momento, però,
non ha molto da condividere, tranne forse per... beh.
Si
chiede se dovrebbe. Si chiede se potrebbe.
Sa che a Sherlock non importa e sa che sarebbe, effettivamente, la via più
veloce per rendere il tutto deliziosamente cristallino a tutti quanti.
Fissa
lo schermo del suo laptop e pensa.
« Posso? » gli chiede Sherlock, spingendo la ciotola
vuota in sua direzione a titolo dimostrativo.
« Puoi cosa? ».
« Aggiornare il tuo blog ».
« Tu
vuoi aggiornare il mio blog? ».
« Stai pensando di scrivere di noi sul
tuo blog, ma hai dei problemi a trovare le parole giuste per dirlo. Posso
provare io? ».
Come
fa a farlo, come?
« Tu vuoi scrivere un post... su di noi ». John solleva un sopracciglio in
direzione di Sherlock da sopra lo schermo.
« Sì, John, è ovvio, continua così ». Sherlock non lo sta nemmeno guardando
mentre scrive ancora qualche nota su quello che John pensa essere un disegno
molto dettagliato e sorprendentemente accurato del timo.
« Perché non lo scrivi sul tuo, di sito?
».
« Nessuno legge il mio sito, John ».
Oh.
Già, ok, è abbastanza. «
Va bene » dice.
Sherlock
alza lo sguardo, sopracciglia sollevate fino all’attaccatura dei capelli. « Davvero? ».
« Sì, davvero. Ma lo leggerò prima di
pubblicarlo, va bene? Niente sorprese ».
Sherlock
gli fa un mezzo sorrisetto e un mezzo sogghigno e abbandona subito il suo
lavoro sul timo, il che significa che è abbastanza serio riguardo al post. John
si alza, prende il piatto vuoto e pensa che potrebbe benissimo lavare i piatti,
nel frattempo. Sherlock si sistema e scrive in silenzio.
John
ha finito di lavare i piatti, pulito il ripiano, le pentole, ha quasi finito di
scaldare l’acqua per il tè, quando Sherlock lo chiama.
« John, ho finito. Puoi venire a
leggerlo? ».
Gira il laptop e John si siede e lo legge e, letteralmente, quasi cade dalla
sedia.
Salve, lettori delle parole di John.
Oggi non è l’onorevole Dr. Watson ad intrattenere le masse. Sono io, invece,
Sherlock Holmes in carne ed ossa, a cui è stato concesso il privilegio unico di
aggiornare il famigerato blog di John.
Per la cronaca, il mio sito può essere
trovato all’indirizzo www.thescienceofdeduction.co.uk. Visitatelo se cercate un’esperienza
più educativa.
La ragione per cui John mi sta
permettendo di aggiornare è che c’è qualcosa che desidera condividere con il
mondo, e ha dei problemi a farlo nel modo giusto. Gli ho offerto la mia
assistenza – dopotutto, questo discorso riguarda anche me in modo personale.
La cosa è questa – le voci, sì? Quelle
che girano su John e me più o meno dal giorno in cui ci siamo incontrati. Oggi,
confermiamo che sono vere. Molto vere. Non sono sempre state vere, ma lo sono
ora. Io e John siamo, in effetti, coinvolti in una relazione romantica e
sessuale.
Per molto tempo le persone hanno dato
per scontato che fossimo una coppia quando non lo eravamo. Per la maggior parte
del tempo John ha creduto che fosse lui a fare in modo che gli altri lo pensassero,
probabilmente riguardo a qualcosa di ambiguo nel suo comportamento, ma si
sbagliava. Ero io. Era il modo in cui l’ho sempre guardato, e tutti quanti lo
avevano notato, tranne lo stesso John.
John è l’uomo più affascinante che io
abbia mai avuto il piacere di conoscere. Straordinario, persino. Non riesco mai
a conoscerlo del tutto, il che è fantastico. Mi sorprende continuamente. Appena
penso di averlo finalmente capito fa qualcosa di imprevedibile. Appena mi
convinco che il mio mondo ruota gentilmente verso destra, lui gli da’ un colpo
e lo fa girare a sinistra.
Non appena penso di avere un indizio su
di lui e su di noi, lui sorride e mi dice di amarmi. Non ho mai provato nei confronti
di altri niente di simile a ciò che provo per John Watson, il che è esilarante
e terrificante in parti uguali.
John scrive questo blog su di me, sulla
vita con me, e voi commentate dicendogli di essere fortunato, di come la sua
vita sia eccitante ed interessante per merito mio, ma vi sbagliate. È la mia
vita ad essere eccitante ed interessante per merito suo e sono io, in realtà,
il fortunato.
Quindi eccola, caro lettore, per te è
la nostra verità: non ho mai amano nessuno, o niente, in tutta la mia vita, come
amo John Hamish Watson, il mio blogger. Non posso descrivere quanto
profondamente mi rende felice il fatto che abbia deciso di amarmi a sua volta.
Sinceramente,
Sherlock Holmes
John
si risiede. Rilegge. Fissa Sherlock, che è tornato a scrivere le sue note come
se non avesse appena scritto la più fantastica testimonianza di sempre della
loro relazione. John la rilegge ancora una volta.
Clicca
su “pubblica”. In pochi secondi è tutto là fuori, e John si sente incredibile.
« Sei davvero un bel tipino,
lo sai? »13 dice affettuosamente. Sherlock gli fa una vaga scrollata di
spalle. « Chi avrebbe mai detto che, dopotutto,
hai il cuore di un poeta? ».
A
questa, Sherlock gli lancia un’occhiataccia – come osa insinuare che sia altro oltre uno scienziato? – ma c’è qualcosa
all’angolo delle sue labbra, quella curva verso l’alto da lieve compiacimento, che
lascia intuire a John che l’altro abbia accettato le sue parole come un
complimento.
John
si alza, spegne il laptop – è abbastanza sicuro che ci sarà una valanga di
commenti da gestire domani mattina, ma per il momento non ne vuole sapere – e si
muove verso Sherlock, gli circonda le spalle con le braccia, strofina il naso
contro la sua nuca. «
Idiota ».
« Mi è piaciuta la zuppa. Ce n’è ancora?
».
« Ho appena finito di pulire la cucina,
non dirmi che adesso ti è venuta fame ».
« Mh ».
John
sospira, si raddrizza spettinando i capelli di Sherlock, e va in cucina. Toglie
il resto della zuppa dal frigorifero e accende il fornello.
__________________________________________________________________________________
1.
Il testo usa "produce section", ma dato che
non ha senso, e più avanti si parla di zucchine, ho considerato che si
trattasse del reparto ortofrutticolo. Se qualcuno sa illuminarmi, magari poi
correggo.
2.
Il testo usava la misura anglosassone "inch"
(pollice) che comunque corrisponde a qualche centimetro, dunque l'ho
europeizzata un po' ;D
3.
Nel dialogo originale:
“Fuck,” John breathes and Sherlock grins leisurely.
“Fine by me.”
L'uso
del verbo "to fuck"
è più impersonale rispetto all'italiano "fottiti", motivo per cui la
resa del gioco di parole è infinitamente peggiore, nella nostra lingua. Volendo
renderlo più aderente all'inglese potrebbe essere tradotto con
"fottimi"/"per me va bene" ma non mi piace che non concordi
con l'insulto classico italiano. La onde per cui ho lasciato la prima
traduzione anche se non rende il gioco di parole al 100%.
4.
La frase in inglese era un po' più incasinata, e tradotta letteralmente non
rendeva bene il senso. Mi sono presa la libertà di adattarla un po'.
5.
Blackheat è un sobborgo della periferia di Londra.
6.
La "pinta" è un'unità di misura anglosassone per i liquidi (usata per
lo più in Gran Bretagna, Irlanda e Stati Uniti). Esistono la pinta inglese e la
pinta americana ed entrambe equivalgono a circa mezzo litro (la seconda a un
po' meno).
Gli
inglesi utilizzano l'espressione "a pint"
quando intendono ordinare una birra perché il comune bicchiere da birra tiene
esattamente una pinta di liquido.
7.
John usa il termine "bloke" qui, e mi
dispiace ammettere che è uno di quei termini che tradotto letteralmente fa
perdere l'impatto di tutta la frase.
La
traduzione letterale sarebbe "tizio, tipo" e mentre in certe frasi
potrebbe starci (ad esempio qualche riga prima, in cui Eliot dice: "what the hell sort of a name
is that for
a bloke?" tradotto con: "che diamine di
nome è, per un tizio?") in frasi come quella che pronuncia John in questo
caso ("[...]If it's a problem for you
that he's a bloke, you can just piss off") metterci "tizio", per quanto
letterale, rovinerebbe l'impatto.
A
seconda delle frasi ho optato per aggiustamenti diversi.
8.
In questa frase viene usato il modo di dire (o quello che a me sembra tale)
"I'm not bashing your head in".
Ora,
letteralmente "bashing a head" sarebbe
"sbatterci la testa/sbattere una testa" ed effettivamente il detto
"devi sbatterci la testa/devi sbatterci il muso" si usa anche in
italiano... ma nella frase in oggetto è rivolto a John, e temo che tradotta
letteralmente in italiano cambi completamente di senso.
Ho
provato a cercare in giro ma purtroppo non ho avuto fortuna, dunque avverto che
questa è una traduzione a cuore aperto: credo che "I'm not
bashing your head in"
voglia dire una cosa tipo "non voglio darti la colpa di niente/non voglio
accusarti di niente" dunque ho preferito il nostro modo di dire
"mettere in croce", che mi sembra un po' più adatto al senso
generale.
9.
"Chewing on tinfoil"
è un altro modo di dire che, purtroppo, non ha traduzione in italiano se non la
letterale "masticare la stagnola". Il senso sarebbe richiamare
qualcosa che fa male, che provoca dolore.
Precisazione:
sinceramente ignoro se la parola "stagnola" sia conosciuta solo
regionalmente o sia usata nazionalmente, comunque si sappia che altro non è che
il foglio d'alluminio che si usa in cucina.
10.
La frase originale sarebbe "Did they call you
names?" che è un altro modo di dire.
Letteralmente, "call a name"
significa insultare, prendere una persona a parole, diffamare.
11.
Il "bric-à-brac" è una catena di negozi, da
quellpo che ne so, ma la parola in sé è riferita ad
oggetti di particolare gusto estetico molto spesso paragonati a semplici
chincaglierie.
12.
L'autrice ha la convinzione - e non ho ancora capito da cosa provenga ma fa lo
stesso - che John ed Harry siano gemelli eterozigoti, dunque che siano nati lo
stesso giorno ed abbiano la stessa età.
13.
La frase originale sarebbe "You're a right piece of work, you know that"
in cui - indovinate? Sì! - c'è un modo di dire. "Piece
of work" in inglese viene usato per descrivere
una persona molto particolare con la quale è difficile convivere di giorno in
giorno e che rende difficili e complesse anche le cose facili.
Il
caro dizionario mi dice che è giusto tradurlo con "bel tipo", dunque
chi sono io per andare contro il dizionario?