Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC
Ricorda la storia  |      
Autore: Shu    25/05/2007    6 recensioni
Qualcuno, una volta, gli aveva chiesto perchè non gli piacessero gli specchi, e lui aveva risposto che bastavano le piscine, i riflessi delle grandi vetrate, le centinaia di piccole monete che le donne del suo regno portavano agli orli degli scialli, a scintillare sulla fronte.
Ma il fatto era anche un altro.
Che nessuno poteva sapere cosa significasse uno specchio per un uomo con i suoi poteri.

-Storia scritta per il concorso "Fantasmi" della writing community True Colors.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Clow Reed
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Note: questa storia ha come protagonista Clow Reed, e si basa su un assunto mio personale, che può non essere condivisibile: il fatto che il Clow di "Tsubasa" sia lo stesso che conosceva Yuuko e che viene a volte nominato anche in "Holic". Ho immaginato che l'incontro con Yuuko faccia parte del passato, e che in un secondo tempo Clow si sia allontanato da lei per fondare il suo regno, in previsione degli avvenimenti che lì si sarebbero svolti in futuro. Ci sono delle piccole tracce nel manga che mi hanno portato a pensare questo, ma nulla è stato finora detto di preciso, quindi questa mia ipotesi potrebbe essere del tutto falsa... E' solo che Clow mi sembra, un po' come Yuuko, un personaggio speciale, al di sopra di tutto, "unico" -anche nella filosofia delle dimensioni parallele di "Tsubasa". Spero ad ogni modo che questo non vi disturbi.
Un ringraziamento molto speciale a Mia, beta-reader d'eccezione per l'occasione!
Colonna sonora, se ne volete una, è "The Mystic's Dream", Loreena McKennitt.

--Storia scritta per il terzo concorso di True Colors, "Fantasmi", gestito da Harriet. Elemento scelto: specchio.--

 

 

Una farfalla

 

 

Entrò nella penombra di fine pomeriggio dei suoi appartamenti. Gli scuri erano accostati per risparmiare alle stanze del sovrano almeno un poco della canicola del giorno; ma la finestra era ugualmente circondata da un alone d’oro, e il riflesso del sole sulla sabbia trapelava ancora accecante nonostante l’ora.

Entrò, e sentì subito la stanchezza della giornata allentarsi. Dopo gli immensi atri pieni di luce, dopo la pietra delle sale imbevuta dell’afa di mezzogiorno, l’ombra e la frescura della sua camera erano una delizia. Si lasciò cadere su una poltrona in un sospiro, iniziando a togliersi di dosso il mantello; e mentre lo slacciava, si accorse che uno degli alamari della veste era già sganciato. Oh... se ne doveva essere andato in giro così per un bel po’ di tempo, se non addirittura proprio dalla mattina… lui, il sovrano del regno… molto carino, da parte dei consiglieri e di suo figlio, non averglielo fatto notare…

Sorrise, scuotendo la testa. Già, poteva benissimo darsi che non avesse allacciato bene l’abito già all’inizio della giornata. Poteva darsi, sì, visto che nella sua camera non aveva nemmeno uno specchio.

Per quanto potesse sembrare una bizzarra mania, lui non amava avere specchi intorno a sé. Non ce n’erano nei suoi appartamenti, ma non ce n’erano nemmeno nei corridoi e nei quartieri pubblici del palazzo. Qualcuno, una volta, un amico gli aveva chiesto perchè non gli piacessero gli specchi, e lui aveva risposto che bastavano le piscine, i riflessi delle grandi vetrate, le centinaia di piccole monete che le donne del suo regno portavano agli orli degli scialli, a scintillare sulla fronte.

Ed era vero, nella sua capitale del deserto il sole sfolgorava già abbastanza ovunque senza bisogno di rifrazioni, gli spazi erano già infinitamente vasti, non servivano illusioni ottiche per allargarli. Ma il fatto era anche un altro. Che nessuno poteva sapere cosa significasse uno specchio per un uomo con i suoi poteri.

Odiava camminare davanti ad un vetro argentato, e vederci dentro luoghi lontanissimi, altre dimensioni, mondi che non avrebbe mai visitato, per il solo passaggio di un pensiero nella sua mente, per un semplice sbalzo d'umore. Bastava un'immaginazione, il soffio di un'idea, per animare la superficie di visioni, universi paralleli, squarci di passato, o di futuro. Poteva controllarlo, certo, nulla si ribellava alla sua volontà, ma non sopportava comunque il fatto che fosse sufficiente una distrazione a sbattergli in faccia frammenti di cose che non voleva vedere, che aveva deciso di non vedere.

Aveva vissuto così tanto, aveva spinto i limiti della magia così lontano da aver già visto tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Fin dove gli occhi e il potere si potevano protendere, lui aveva guardato. Oltre, c'erano solo i contorni sfumati di quello che doveva ancora essere deciso, intuizioni, immagini volubili, inafferrabili. Spazio e tempo fusi, confusi in un mondo dove il vero non si distingueva dall'inganno.

E lui, ormai da molto, aveva deciso che non si sarebbe mai più avventurato in quel territorio.

Era un punto fermo. Era finito per sempre il tempo della ricerca, della fatica e dell'esaltazione nel guardare più avanti, nell'avvicinarsi ogni volta di più al confine della conoscenza. Aveva visto segreti, vite di chi ancora non era nato, meraviglie e disgrazie. Ma poi, si era fermato.

Aveva accettato di avere cose ancora da vedere, anzi, lo aveva voluto. Si era lasciato da parte le giornate che aveva ancora da vivere, i momenti quotidiani: di quelli, aveva preferito non sapere. Del resto, era un uomo curioso e amava le sorprese: non se le sarebbe sciupate per niente al mondo. Aveva ancora voglia di stupirsi, di ridere, di arrabbiarsi, di affrontare quello che gli si parava davanti.

E aveva accettato anche che ci sarebbero state cose che non avrebbe visto mai. Accettato l'idea che la sua esistenza si sarebbe chiusa prima che accadessero gli eventi decisivi del destino di tanti mondi. E non aveva intenzione di avventurarsi in congetture, di cercare fino a sfinirsi la verità su quello che sarebbe successo tra quei sentieri malfermi, negli spettri e nelle parvenze del domani. Perchè aveva una certezza, una convinzione che tanti maghi non condividevano, ma di cui lui era assolutamente sicuro.

Che il futuro poteva essere cambiato.

E oltre i confini del lecito, preferiva lasciare la speranza.

Posò il mantello, poi si rialzò dalla poltrona per versarsi un po' d'acqua da bere. Tornò a sedersi. Un sorso, abbassò la coppa, e nella superficie confusa scorse i suoi occhi. Uno specchio.

Dalle terrazze del palazzo, dai giardini, veniva un profumo. E attraverso i cortili, attraverso l'aria infuocata e vuota, entrò nella sua stanza una farfalla.

Una farfalla...

L'uomo s'incantò a contemplare i suoi colori, non se ne vedevano spesso di farfalle lì, nella capitale, era un luogo troppo arido nonostante i giardini artificiali che aveva fatto edificare. Era nera, e rossa, e viola, di mille sfumature cangianti che si accendevano nella luce mentre l'insetto girava attorno alla finestra chiusa. Poi si allontanò, prese a svolazzare intorno a lui; si posò sulla coppa che teneva ancora in mano.

Fu un attimo: l'acqua s'increspò, percorsa da una brezza inesistente, perse la sua trasparenza... e in quello specchio, comparve un'immagine.

Era lo scorcio di una città, una città del tutto diversa dalla sua capitale, distante da qualsiasi fantasia. Gli edifici erano tutti altissimi, tutte torri, rivestite di vetri e metalli, migliaia di finestre, migliaia di strade affollate di persone, di mezzi di trasporto quali i suoi sudditi non avrebbero mai potuto neanche immaginare. Ma lui li conosceva, e non si stupì. E in fondo, non si stupì neanche di vedere dove quella panoramica si arrestava: un cortile nascosto dietro i palazzi, un cortile e lo strano edificio che lo occupava.

Prese un respiro profondo, e chiuse gli occhi. Ma nel buio vedeva ancora la scena, anzi, quella si colorava, si riempiva di nuovi particolari, mezzelune sui pinnacoli della casa bizzarra, ombre che passavano dietro alle finestre... nel buio poteva percepire ancora il freddo della coppa d'oro tra le dita, il fremere dell'insetto posato sull'orlo.

Il battito delle ali della farfalla, il battito di lunghissime ciglia, il socchiudersi di occhi, grandi, truccati di nero, un pensiero. Il profumo lontano dei fiori, l'odore dell'incenso e del fumo, onnipresente, a riempire stanze a lui note. Ed erano ancora farfalle, dipinte sulla stoffa di abiti che si aprivano in spacchi e scolli più che provocanti, ed erano sorrisi, quelli maliziosi e quelli che si allargavano in risate. Quelli che nascondevano segreti che tutti e due conoscevano, e quelli tirati sopra un dolore. I disegni sui vestiti di lei, i gioielli sempre diversi per ogni volta che si divertiva a sorprenderlo, e la sua bellezza, pura e disarmante, a colmare anche i momenti di vuoto, quando non c'era nulla da dire.

L'uomo riaprì gli occhi di scatto, fissando lo sguardo di fronte a sé. Ritrovò la luce del tramonto, il colore della pietra, con i familiari motivi sulle pareti, nella grazia un po' languida della mano degli artisti levantini. Nulla di quel luogo poteva ricordargli di lei, ma era proprio perchè non era in nessun particolare di quell'esistenza che la sua distanza gli pesava di più, e tutto quello che lei era contrastava più forte con quel mondo che non la conosceva.

Abbassò di nuovo lo sguardo verso la coppa: la visione era ancora lì. Lei era lì. Davanti a lui. La sua sagoma, ecco, pareva affiorare dalla semioscurità, ombra tra le ombre, eppure inconfondibile.

Come sempre.

Non aveva volontà sufficiente a scacciarla.

Lei era il suo fantasma. Un fantasma non insistente, non ossessivo, non lo perseguitava, gli lasciava vivere la tranquillità delle sue giornate. Ma in cambio si prendeva i minuti deserti, tutte le volte che credeva di avere la mente libera, di non pensare a nulla. Quando aveva soltanto se stesso con cui stare, allora non era mai solo. Come il vento, come le note di una canzone lontana, come un passo di danza la sentiva arrivare.

Un fantasma, così concreto e così inafferrabile, fatto solo d'istanti, di quei pochi momenti che di una vita si ricordano con nitidezza. La curva corrucciata d'un sopracciglio, i colori di un vestito, le esatte parole e l'intonazione di una frase importante, di tante altre casuali. Non era soltanto memoria, era anche presenza, la sensazione confusa ma quasi tangibile che lei fosse lì, nelle ombre sulle pareti, nell'aria profumata, nel tremito delle ali della farfalla.

Quale incantesimo gli aveva incollato alla pelle, quale sortilegio gli aveva gettato addosso, di cui non poteva, non voleva liberarsi? Ricordava che una volta, davanti a un bicchiere di vino, si erano promessi ridendo che dopo la morte nessuno dei due sarebbe venuto ad assillare l'altro, ma si sarebbero lasciati finalmente in pace a vicenda. Gli tornava alla mente l'espressione divertita di lei, mentre elencava tutte le cose che aveva voglia di fare in futuro, senza il perfido occhialuto fra i piedi. Lui si era limitato a sorridere, in silenzio: sapevano entrambi perché non aveva nulla da dire.

E invece...

"Perché sei qui, allora?" gli sfuggì dalle labbra, un sussurro indirizzato al vuoto.

Ma all'amarezza di quella domanda, alla follia di dialogare con il nulla, già s'immaginava la replica, quasi gli pareva di sentire la voce di lei... "Eh no, io questo non te l'avevo mai promesso!"

Aveva ragione, quella disonesta, purtroppo aveva ragione. E forse era proprio per quello che si portava addosso il suo fantasma.

Perché lei era viva, maledizione, viva, perché sapeva che, oltre distanze incolmabili, in un punto preciso nel caleidoscopio degli universi, lei ancora esisteva. Ma lui non era lì.

Quello che gli bruciava dentro non era tanto la separazione, ma l'idea che c'erano ancora momenti che avrebbero potuto dividere; che se solo avesse voluto, avrebbe potuto raggiungerla anche in quell'istante. Se solo... se solo non avessero deciso che era meglio così... Ed era vero, era meglio così, anzi, era così che dovevano stare le cose. Era l'Inevitabile, e lui aveva scelto, consapevolmente, di adeguarvisi. Eppure, quel fantasma rientrava tra i particolari che non aveva previsto.

In fondo, oh, certo, sapeva bene di non essere incatenato da alcun maleficio, che un suo cenno avrebbe potuto dissipare la visione. Se solo lo avesse desiderato. Ma era troppo più bello fingere che lei fosse lì, che gli si muovesse attorno, che da un momento all'altro gli avrebbe rivolto la parola. Quel fantasma... se l'era costruito da solo. Era soltanto colpa della sua debolezza di uomo un po' stanco, dei sentimenti taciti ma sconfinati che teneva chiusi dentro all'anima, e di quella magia così unica che lei gli aveva lasciato addosso, perché troppe erano le cose che avevano condiviso perché adesso lui potesse fare a meno di lei.

Così, con un sorriso, si arrese a guardare un'ultima volta dentro l'acqua della coppa.

La casa era sempre là, qualche foglia veniva trascinata pigramente dalla brezza per il cortile. Percepiva la presenza di lei -non un fantasma, questa volta, ma la sua esistenza vera, vera- sentiva che c'era, là dentro, ad affaccendarsi tra le stanze. E anche lei lo sapeva, di sicuro sapeva che lui la stava osservando. Eppure, nulla da fare, non gli dava la soddisfazione di mostrarsi. Sarebbe bastato un minimo gesto, anche solo uno sguardo da dietro una finestra... Ma lei era sempre stata più ostinata di lui. Anche più forte, forse.

Sulle labbra, aveva ancora il sorriso. In fondo, la sua maga testarda poteva dire quello che voleva: ma se lui dentro a quella coppa poteva vedere il suo negozio, significava che aveva bisogno di entrarvi. Non era così che recitava sempre lei, ad ogni nuovo cliente?

Sì, avrebbe proprio avuto tanto bisogno di varcare ancora una volta la soglia di quel negozio. Anche se i desideri che aveva da esprimere non si potevano comprare, e neanche la Strega delle Dimensioni avrebbe potuto realizzarli. Ma questa era un'altra faccenda.

Guardò la farfalla, nera come l'onda di quei capelli che ancora s'impigliavano tante volte nei suoi pensieri, iridescente di tutte le sfumature di cui quella donna aveva colorato il suo mondo. Gli bastò scuotere appena la coppa, e l'insetto riprese il volo, ogni visione s'infranse e scivolò via dall'acqua, quasi non fosse mai esistita. Allora lui si alzò, ed andò ad aprire la finestra.

La stanza si spalancò all'improvviso sulla luce e sul calore, il riverbero rosso del tramonto cancellò in un attimo tutte le ombre dalle pareti. E la farfalla volò via, fuori, nel vento.

L'uomo sospirò, un sospiro lungo, forse doloroso. Ma il suo volto appariva sereno e chiaro, come il cielo sopra l'orizzonte, e gli occhi guardavano lontano, verso le dune. Verso alcune dune in particolare, anche se il deserto sembrava tutto uguale: ma lui sapeva dove cercare il segreto che la sabbia taceva. Un giorno, il vento avrebbe svelato dal mezzo del nulla le prime avvisaglie di quel segreto. Un giorno qualcuno sarebbe venuto, per scavare proprio in quel punto, e allora tutto sarebbe cominciato. Ma dopo, lui non ci sarebbe stato. Quel tempo non era per lui.

Laggiù, fra quelle dune dipinte di fuoco, brillava qualcosa, qualcosa che sembrava una distesa d'acqua, una pozza di cielo incastonata, per qualche singolare miracolo, in mezzo alla sabbia. E brillava. E l'uomo restava a guardare, colmo di pienezza e di meraviglia, proprio come restava tutte le notti a guardare quel fantasma che animava le ombre delle sue stanze e della sua vita. Quelli che erano solo un miraggio, e un'illusione.

Solo un miraggio, quel riflesso di cielo abbacinante sotto il tramonto...

Semplicemente un'illusione, quell'istante di stupore e di gioia, nel sentire la presenza dell'essere che più aveva amato...

Se queste erano cose semplici, sciocchezze... allora sì, era uno sciocco.

Del resto, bisognava davvero essere almeno un po' sciocchi, per credere in un futuro di cui non avrebbe fatto parte, un futuro che aveva visto annuvolato di avversità e di sofferenze.

Per credere che il destino potesse essere cambiato.

Si voltò di nuovo verso l'interno della camera, tutta rischiarata di luce, dove non c'erano più le ombre, né la farfalla, dove non c'era più nulla... e a quel nulla sorrise. Perché ogni suo respiro era ancora pieno di profumo, di magia, di tutto quello che lei gli aveva lasciato. Il ricordo di una felicità che non era più, eppure non era mai stata spezzata, un filo ancora teso tra le distanze e gli equilibri degli universi.

E anche senza il buio e i fantasmi, lei c'era. E stava pensando a lui, come lui la stava pensando.

In quel pensiero, la sentiva ridere, forse lo stava prendendo in giro, ma sapeva che anche a lei piacevano quelle sciocchezze, le piccole meraviglie del quotidiano, i fenomeni strani che ogni tanto sfrecciavano nel visibile. Le cose un po' stupide, ma fatte per amore.

Le idee più folli, quando erano speranze. Quando erano sfide al pessimismo e all'incredulità, a chi guarda il mondo da una prospettiva sola.

E a loro due, le sfide erano sempre piaciute.

Credere...

Credere nei miraggi e nei fantasmi, alle speranze e ai sogni più belli, alle sfide, credere che il cuore di pochi ragazzini avrebbe salvato l'armonia degli universi...

Oltre lontananze senza misura, distese d'infinito e d'impossibile, oltre gli spazi ed il vuoto, in uno stesso sorriso...

C'erano due persone che credevano.

 

 

 

   
 
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC / Vai alla pagina dell'autore: Shu