In questa one shot ho cercato di concentrare un
insieme di immagini che da sole non significano altro che luoghi comuni, e che
contemporaneamente sono elementi in qualche modo presenti, indirettamente o
direttamente, in quasi tutte le mie fan fiction: la pioggia, la neve, il
funerale, il volatile, il sogno ricorrente, l’insetto nero inteso come qualcosa
di viscido, infido e pauroso, e la memoria dello spirito di un morto.
E il personaggio di Luna Lovegood, una delle poche,
pochissime, àncore di salvezza che consentono alla saga di Harry Potter di
salvarsi dal ridicolo.
“Who’s behind the rain” è una frase contenuta nella
splendida “Quicksand Jesus” degli Skid Row, alla quale mi sono ispirata, ma dal
punto di vista della musica e del ritmo, perché come testo non c’entra poi
molto.
Ho cercato di rendere il personaggio tramite
metafore, naturalmente, perché di monologhi interiori piuttosto noiosi se ne
trovano a bizzeffe. Non pretendo che il mio flusso metaforico sia interessante
più delle altre one shot sul personaggio… ho solo fatto del mio meglio. Bhe,
spero che vi piaccia.
- Coral Dana Rose / Marghe
Who’s behind the rain
by Coral Dana
Rose
Una
sagoma dietro la pioggia. Chi era? Chi poteva essere?
C’era
qualcosa di strano, qualcosa di familiare in tutto ciò. Forse era soltanto la
sua immaginazione. Eppure quella persona, dietro la pioggia…
Appena
svegliata, aveva sentito freddo ai piedi.
Aveva
impiego qualche minuto, dopo essersi destata, per aprire gli occhi e a scoprire
che qualcuno le aveva tolto le coperte durante la notte e le aveva appese alle
finestre in modo che la luce del sole non penetrasse nella stanza, e non la
svegliasse. Aveva di nuovo saltato delle lezioni importanti; chissà che ore
erano…
Aveva
ignorato la scritta “Ben svegliata,
Stralunata!” impressa a caratteri magici iridescenti sulle coperte che
fungevano come stendardo derisorio, ed era scesa per recarsi a lezione.
Il
cielo non rifletteva affatto il candore della neve che aveva ricoperto il parco
di Hogwarts. Tutt’altro: era plumbeo e nuvoloso, a tratti d’un grigio talmente
scuro da apparire nero. Il sole non riusciva a sbiancare neanche un poco la
distesa funerea del cielo invernale.
Il
lago era ghiacciato e i ragazzi pattinavano.
Nevicava
un po’.
I
fiocchi candidi danzavano in cielo come stanchi, poi cadevano a terra. Non
erano come la pioggia, che quando si scontrava come una superficie dello stesso
suo materiale la spezzava, ne increspava la superficie. Quando la neve cadeva
su altra neve e al suo tocco freddo rispondeva il freddo del tocco dei fiocchi
caduti prima di lei, non era quasi possibile percepirne con lo sguardo
l’infrangersi. Né tanto meno si udiva. Sembrava essere assorbita dalla morbida
neve.
Tuttavia
il punto dove lei si trovava non aveva niente a che vedere con quel candore.
La
neve era in realtà sporca di fango, e perciò era marrone, sudicia, smottata
dalle impronte che avevano lasciato il segno della suola delle scarpe che
l’avevano calpestata disfacendone la morbida linea perfetta sulla collina.
L’erba
ghiacciata giaceva come mummificata sotto lo strato di ghiaccio apparentemente
dolce. Le piccole mani nude scavavano disperatamente nella neve fangosa,
ingrata. Il sangue si era gelato nei vasi sanguigni, quasi. Il freddo pungeva
sulla pelle come avrebbe punto un pugno di chiodi. Non c’era aria dei tristezza
nei suoi occhi. Né di disperazione. Né di febbrile timore d’aver perso il suo
prezioso oggetto.
Era
calma e aveva gli occhi stralunati, leggermente sporgenti dalle orbite, nella
sua espressione di eterna sorpresa.
Sagome
umane sembravano dormire sotto la neve, anzi, erano cadaveri, perché non
respiravano, era inverno e gli allegri studenti calpestavano il cadavere della
terra morta per il freddo. Ecco i fianchi, la collina lì davanti, ecco le
natiche. Sopra, le spalle di qualche gigante dalle forme sinuose accavallato
sull’altro cadavere. La testa e i capelli fluenti.
Tutto
sepolto dalla neve.
I
tuoni rombavano. Presto avrebbe piovuto.
Non
spazzare la neve; non voglio vedere quei cadaveri.
Un
piccolo merlo stava sul ramo dell’albero spoglio. Le ramificazioni della pianta
parevano quasi dita scheletriche profilate nella straordinaria profondità del
cielo nuvoloso. Ricordava i giorni estivi che le mettevano uguale tristezza: il
cielo azzurro era accecante, piatto, e aveva un colore tanto invadente da
apparire finto. E le piante, le erbacce in giardino, i fili d’erba,
soccombevano, prosciugati dal caldo secco, mentre i grossi alberi germogliavano
e i loro frutti cadevano presto a terra dove marcivano e venivano divorati
dagli insetti.
E
tutto era sudato e tutto odorava di febbre e di devastazione, in estate. E la
bara nera risplendeva tanto che toglieva la vista. Era lucida come un grosso
scarabeo con la croce d’oro nel mezzo. La gente sudava negli abiti luttuosi. La
gente? Poca gente.
Non
si rendeva bene conto di cosa fosse successo. Forse non era successo niente,
come le aveva detto sua madre. Però qualcosa le diceva che sua madre non
avrebbe più pronunciato altre frasi?
Che
cosa era successo, insomma? Luna contemplò la scatolina dove aveva rinchiuso il
grosso insetto nero trovato per strada. Dei Maghi l’avevano stregato e ora le
sue lunghissime antenne alle estremità risplendevano di globi iridescenti di
luce, come candele magiche. Guardò di nuovo l’esiguo corteo funebre. Possibile
che davvero…?
Luna
alzò gli occhi al cielo. Il ramo striminzito dell’albero, sì, il ramo secco. E
il volatile che pigolava infreddolito.
Ora,
qui?
Le
sembrava così strano…
L’uccellino
pigolò un’ultima volta, dopodiché spalancò le ali e cercando di volare via
cadde invece nella neve lercia di fango bagnato, mentre cadevano con lui i
primi schizzi di pioggia. Luna fissava gli schizzi di pioggia con la stessa
intensità con la quale aveva osservato l’uccellino cadere, e si sentiva triste
dentro, aveva sognato un grosso insetto nero al centro del corteo funebre e
tutto odorava di sudore e di lacrime roventi consumate in silenzio.
Corse
a raccogliere l’uccellino morto. Prese un fil di ferro che aveva in tasca e lo fece
passare con precisione attraverso i fori nel cranio dell’animaletto, che
corrispondevano alle orecchie. Annodò il fil di ferro intorno all’elastico che
le stringeva in vita la vecchia gonna lisa dell’uniforme e lasciò che il
corpicino piumato pendesse come un portachiavi.
Ah,
quanto significava per lei…! Era certa che tutti l’avrebbero capito.
Non
era possibile che nessuno comprendesse la perfezione di quell’istante!
Stava
iniziando a piovere troppo forte. Ormai era fradicia.
La
pioggia, no. Non voglio che piova.
Portatemi
via.
Col torpore era tornata la sagoma dietro la pioggia, che le faceva cenno con la mano di seguirla, di avvicinarsi. Poteva crederci. Sapeva che poteva crederci. Era semplicemente impossibile percepire qualche dubbio circa la realtà di quella figura… ma l’identità non le era altrettanto chiara.
L’uccellino
si librava ora nel cielo e alla cintura di Luna aveva lasciato soltanto il
corpo esangue e le piume arruffate incrostate di ghiaccio.
E
la pioggia batteva sui vetri… La pioggia che scioglieva la neve. La spazzava
via. Liberava il cammino. Luna non voleva aprire gli occhi; non voleva vedere
il cadavere della natura apparire dissepolto lentamente da sotto l’abbraccio
mortale ma senz’altro magnanimo della neve invernale.
D’estate
la natura seccava.
D’inverno
annegava nel freddo e lì cadeva morta.
D’autunno
gli alberi perdevano le foglie che si decomponevano sul terreno fangoso dei
boschi.
Ma,
ah, la primavera… oh, quanto mancava mai alla primavera? Luna sarebbe impazzita
se non fosse giunta la primavera. Sapeva che l’uccellino era volato in quei
cieli dov’era sempre primavera. Avrebbe tanto voluto che lui potesse parlare e
raccontarle com’era… com’era vivere lì e librarsi nel cielo caldo, vivo, ma
uguale, mai piatto, il cielo bellissimo di aprile o di maggio.
Non
seguiva la lezione mentre osservava la pioggia sul vetro. Doveva essersi
nuovamente assopita. O forse aveva soltanto chiuso gli occhi per un istante e
aveva avuto comunque modo di rivedere quella figura dietro la pioggia.
Era
lì che sospirava rassegnata e si chiudeva in sé stessa come una vecchia perché
nessuno poteva vederla, ed era triste.
Ma
chi sei?, avrebbe voluto chiederle Luna; Voglio conoscerti!
Ma
la figura continuava a guardarla con espressione eterea, e tutto d’un tratto
spalancava gli occhi come terrorizzata, e le sembrava che le spuntassero i peli
come a un cane, scappava con le orecchie basse, ricurva, e la coda fra le
zampe, ma Luna la sentiva ancora sussurrare nel sonno, sentiva la sua voce
infantile e spaventata soffiare fuori dal drappo nero fluttuante nell’aria
ferma.
*
Tutto
a un tratto.
Senza
il tempo per pensare. Non ce n’era bisogno, no?
Luna
si sente leggè, sa di stare ascendendo verso il Cielo… o forse è il Cielo che
discende gentilmente su di lei che non può volare, che ha le ali spezzate e
merita lo stesso il Paradiso? O forse no… forse la piccola Luna si sta
immaginando tutto?
No,
deve essere…
Forse…?
La luce bianca la avvolge, o forse non è nemmeno bianca, forse è soltanto la felicità del suo spirito che aveva un colore del genere. E lei adesso è felice, vede tutto sotto la luce della sua felicità. Tutto poi si fa rosato e i contorni svaniscono e vengono sostituiti da una pioggia di petali di tutti i colori pastello che lei conosca.
Poi
tante voci le ridono intorno, ma non sono risate beffarde, oh no!, sono risate
carine e affabili, che la fanno sentire bene, e anche un po’ più amata, forse…
È
tutto semplice, d’un tratto, semplice e puro come la fede più naturale del più
naturale degli uomini. È apparso tutto così com’è. Sì, è bello! Sì, sì,
bellissimo!
E
lo scarabeo nero è sparito. Non c’è più un corteo funebre ma tante persone
tutte vestite di felicità che le vengono incontro e un grande frullio di grandi
ali di tonalità abbaglianti del rosa.
Ma
dov’è la figura dietro la pioggia?
Dov’è
la mamma? Dev’essere qui, lo so, è qui!
No, Luna, amore mio, sii felice, sorridi e non guardarti intorno, tesoro splendente… la mamma l’hai lasciata lontana, dimentica la mamma…
No, no, abbiamo lasciato la mamma!
Ma
il globo di felicità si allontana dalla Terra degli uomini e sale verso il
Paradiso. La figura dietro la pioggia… la mamma! Tu non eri morta, mamma! Eri
lì, eri sempre stata lì!
Luna,
l’avevi pur sentita sussurrare, insieme agli altri dietro il velo!
MANGIAMORTE
ATTACCANO LA SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS.
Nessun
sopravvissuto, il mondo magico nel caos, nessuna direttiva dal Ministero.
La
prestigiosa Scuola di Magia e Stregoneria è stata attaccata da una squadra di
Mangiamorte che l’hanno bruciata e non hanno lasciato un solo superstite, fatta
eccezione per il professor Albus Silente, del quale però non si è trovata
traccia. Il mondo magico è nel caos. Si parla di mancanza di “polso” da parte
del Ministero della Magia e di scarsa preparazione del personale scolastico.
Sono stati rinvenuti soltanto cadaveri di Maghi e Streghe purosangue; gli altri
sono scomparsi, e le autorità li stanno ancora cercando.
“Non
contiamo di ritrovarli,” confessa costernato il capo degli Auror, “Se i
Mangiamorte hanno deciso di farli sparire, è probabile che li abbiano bruciati,
seppelliti o fatti a pezzi.”
Di nessun
conforto sono queste parole per le famiglie. Ora che perfino il
Ragazzo-che-era-Sopravvissuto, Harry Potter, è stato ucciso, esistono ancora
speranze di fermare Voldemort?