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Autore: Lady_Cassandra    08/11/2012    3 recensioni
"Unforgivable" nasce in una notte d'estate, è una storia che vi porta dentro una vita di Spencer diversa da ciò che conosciamo. Ci troviamo diversi anni avanti, tutto è cambiato, Spencer non è più il "ragazzino" di tempo, è sposato ed è ormai padre.
Ritroverete i personaggi che conoscete, ma nulla sarà come vi aspettate. Spero di avervi incuriosito e gradiate la mia storia. Buona lettura!
[REVISIONATA FINO AL 10° CAPITOLO]
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Spencer Reid, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Unforgivable.'
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“E so anche che potrebbe essere che anch’io fallisca/Ma so che tu eri come me/Con qualcuno deluso da te” (Numb, Linkin Park)
 
 
Diverse settimane trascorsero senza apparenti risvolti nelle indagini, le ricerche compiute sia da Garcia quanto da Lucas non sembravano condurre ad alcun risultato. Davis sembrava scomparso, o per lo meno nessuna traccia aveva lasciato di sé, tuttavia Spencer sapeva che la sua temporanea scomparsa non poteva che significare che il nostro uomo stava tramando qualcosa di sempre più pericoloso, a quel pensiero un brivido gli attraversò la schiena. Non c’era un minuto da perdere, doveva fare tutto quello che in suo possesso per porre finalmente fine a quella storia.
E con quest’intenzione raggiunse Quantico un mercoledì di mattina presto.
“Allora qualche novità?” domandò l’uomo al loro analista informatico intento a incrociare dati su dati.
“Buongiorno Spencer” lo salutò Lucas. “Comunque ancora nulla” rispose scuotendo la testa.
“Continua” gli disse Spencer e dopo averlo opportunamente salutato. L’analista informatico annuì e tornò al lavoro.
L’open space era completamente vuota quella mattina per una qualche ragione che Spencer non seppe spiegarsi e che non gli interessava particolarmente.
Si sedette alla sua scrivania gettando un’occhiata al piano di sopra dove notò Derek ed Emily discutere nell’ufficio di quest’ultima, incuriosito decise di raggiungerli.
“Spencer, proprio te stavo cercando” gli comunicò Emily non appena lo vide.
“Vi ho visto e ho pensato di salire” rispose lui infilandosi le mani in tasca, non si sentiva a suo agio in quella situazione, qualcosa dentro di sé gli diceva che quella conversazione non avrebbe portato a nulla di buono.
“Fatto bene, fatto bene …” mormorò la mora poi si rivolse a Derek invitandolo a lasciarli soli. L’uomo non se lo fece ripetere due volte e si allontanò rivolgendo a Spencer un sorriso di circostanza.
“Emily cosa c’è?” domandò l’uomo, dal tono si poteva percepire la sua stanchezza e soprattutto il desiderio di vedere posta una fine a quella situazione che non lo faceva più dormire la notte. 
“Credo che tu sappia bene cosa sto per dirti” affermò con evidente sicurezza la mora. Reid annuì e dopo qualche secondo di riflessione parlò: “Lo so, devo sottoporre Elizabeth a qualche terapia o cose così”
“Spencer so che può essere difficile per te accettare che lei non sia instabile …” la mora s’interruppe per deglutire e riprese il discorso per essersi umettata le labbra. “Insomma è tua figlia, posso capirlo. E poi tu hai già vissuto un’esperienza simile con tua madre …”
“Tu non capisci, tu non hai figli” l’addittò l’uomo con tono rabbioso, odiava quando si rivolgeva a lui con finto tono dispiaciuto, ma soprattutto odiava quando gli altri fingevano di sapere cosa si dovesse provare quando si prende la difficile decisione di rinchiudere la propria madre in una clinica psichiatrica.
“E un’altra cosa, Emily, lascia stare mia madre” concluse il discorso e lasciò la mora in corridoio senza nemmeno salutarla.
 
Ad un’ora di distanza dagli uffici dell’unità analisi comportale di Quantico, Elizabeth Reid si alzava da letto dopo l’ennesima notte insonne.  Uscì dalla sua stanza ed entrò in bagno chiudendosi a chiave dentro.
Osservò la propria figura riflessa nello specchio e sussultò. “Ho un aspetto orrendo …” disse toccandosi il viso con le punte delle dita e sfiorando le profonde occhiaie nere che le si erano formate sotto gli occhi.
Le sembrava non riconoscersi più, non era lei quella che le stava davanti. Era sempre convinta che la vera lei fosse ancora rinchiusa in quello stanzino buio dove Davis l’aveva drogata per due interminabili giorni in attesa che qualcuno la venisse a salvare. Sentì gli occhi bruciare e qualche secondo dopo lacrime silenziose cominciarono a scendere lungo le guance pallide di nuovo.
Poggiò una mano sul lavandino e aprì con l’altra il rubinetto dell’acqua per lavarsi il viso. “Basta, basta piangere” s’impose la ragazza fregandosi con le mani insaponate il viso.
Ma ormai non reggeva più, non aveva più voglia di fingere che tutto fosse okay, che lei stesse bene. Lei non stava bene ed era stanca di tutto. Di tutti.
Si guardò di nuovo allo specchio, la sua espressione era cambiata. Un lampo di luce attraversò i suoi occhi, doveva fare qualcosa per ovviare ai suoi pensieri che si susseguivano instancabili nella sua mente e lei sapeva cosa.
 
Fu così che quando erano ormai tutti accesi i lampioni nella strade di Washington Elizabeth a passo sostenuto si avviava verso la fermata dell’autobus eludendo la scorta a cui suo padre l’aveva assegnata.
Non era stato difficile ingannarli, come tutte le sere era uscita a buttare la spazzatura, quella sera però non aveva utilizzato il solito cassonetto da cui era ben visibile qualsiasi sua mossa, infatti riferì ai due agenti che il cassonetto era troppo pieno e che avrebbe utilizzato quelli in fondo la strada, i due avevano annuito ed erano ritornati alla loro conversazione sulla partita di Super Bowl della domenica scorsa. Elizabeth approfittando della distrazione dei due si allontanò velocemente, girò l’angolo e corse fino a che non fu giunta in fondo la strada, a quel punto prese la scorciatoia attraverso il parco e arrivò alla fermata.
“Finalmente libera …” si disse, si sedette sulla panchina e rimase lì ad aspettare l’autobus che arrivò circa una decina di minuti dopo. Vi salì e si sedette in uno degli ultimi sedili dopodiché spense il cellulare. Non aveva voglia di sentire nessuno. Non quella sera.
 
“Ryan, ma Elizabeth è passata?” domandò uno dei due agenti allungando il collo verso i cassonetti per vedere se la ragazza fosse lì.
“Ehm … non lo so. Io credo di no …” rispose l’altro con tono preoccupato passandosi la mano destra sulla nuca.
A quel punto si diressero verso i cassonetti dove trovarono la busta che fino a poco fa Elizabeth stringeva in mano posata per terra. Non ci volle molto per capire cosa fosse successo; Elizabeth era scappata e loro non se n’erano accorti.
“Reid… Reid ci ammazza!”urlò Ryan entrato nel panico calciando la busta che cadde rovesciando per terra tutto il suo contenuto.
L’altro agente rimase in silenzio cercando di riflettere su come si fosse svolta l’azione. Non l’avevano rapita, fatto su cui non vi era alcun dubbio, il che giocava a loro vantaggio. Si era allontana di sua spontanea volontà; “Ma per andare dove?” fu la domanda che si pose l’agente. Non riuscendo a giungere ad una conclusione plausibile, decise d’interrompere il piagnisteo a cui si era abbandonato l’altro.
“Su, dai!Ryan… Dobbiamo dirlo a Reid” gli comunicò e si mise subito in cammino verso l’abitazione della famiglia Reid seguito dal suo collega che camminava riluttante.
I due bussarono alla porta e rimasero in attesa. “E’ aperto” si sentì provenire da una voce dentro casa. Era quella di Jules.
“Cara ci potresti chiamare un attimo tuo padre?” le chiese gentilmente il più calmo tra i due agenti.
“E’ successo qualcosa?” domandò lei, il tono che aveva usato l’uomo l’aveva allertata.
“Nulla… nulla. I soliti rapporti di routine” mentì lui, la ragazza annuì e andò a chiamare suo padre che si presentò in salotto poco minuti dopo.
“Hopps, Stewart che fate qui?” s’informò subito Reid stranito dalla loro presenza in casa sua.
“Agente Reid, devo dargli una notizia per nulla piacevole” esordì Hopps; a quelle parole l’uomo trasalì.
“Elizabeth è scappata …” mormorò mortificato l’agente mentre abbassava la testa non riuscendo a sostenere lo sguardo di Spencer.
“Cosa?!” gridò Spencer sbattendo il pugno contro il tavolo del salotto. “Il vostro unico compito era quello di sorvegliarla e ve la siete fatta sfuggire” continuò diventando paonazzo in viso.
“Lei era andata a buttare la spazzatura, ci aveva detto che …” balbettò l’uomo cercando di dare una spiegazione che Spencer interruppe bruscamente.
“Non m’interessa quello che vi aveva detto!Vi avevo avvertito che ne sarebbe stata capace…” rispose mettendosi a sedere sulla poltrona.
“Noi non crediamo che ci sia Davis dietro a questo” disse l’altro agente più sicuro ora che Spencer si era leggermente calmato.
L’uomo sollevò la testa verso di lui e lo fissò. “Certo che non c’è Davis dietro a questo” asserì lui. Si alzò dalla poltrona e provò a chiamare sul cellulare di sua figlia. “Il telefono da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La preghiamo di richiamare più tardi” rispose una voce metallica dall’altro capo del telefono.
“C’è la segreteria” informò gli altri due che aveva aspettato in silenzio mentre Reid telefonava.
“Dove crede che possa essere andata?” gli domandò Stewart. “Non lo so. Non ne ho la più pallida idea” rispose l’uomo spostandosi verso la finestra. “Spero solo che stia bene” continuò.
Dopodiché congedò i due uomini dicendo loro di rimanere reperibili nel caso in cui Elizabeth si fosse fatta viva e si risedette sulla poltrona del salotto.
“Vedrai che tornerà questa notte. Sarà sicuramente andata a ballare” gli disse Jules che aveva assistito a tutta la conversazione in disparte. Suo padre si voltò verso di lei e sorrise. Tuttavia il suo sorriso era spento, come spento era stato il tono di voce di sua figlia minore.
 
L’autobus era ormai giunto a fine corsa quando Elizabeth scese, camminò spedita verso uno dei tanti locali notturni aperti quella notte e si soffermò sull’ingresso.
“Ragazzina ce li hai diciotto anni?” domandò un uomo alto e robusto di colore posizionato sull’entrata. Elizabeth annuì e cominciò a frugarsi nelle tasche alla ricerca della carta d’identità. L’uomo le fece segno con la testa che non era necessario e la fece entrare senza accertarsi che avesse detto la verità.
Entrata nel locale, fu subito stordita dal fumo e dalle luci della piccola sala che componeva il locale in fondo alla quale si trovava il bar. Si diresse immediatamente verso quest’ultimo facendosi largo attraverso la folla, più volte fu fermata da ragazzi che l’invitavano a ballare e più volte fu costretta a dar loro degli spintoni per liberarsi dalla loro presa, infine raggiunse il bar e si sedette su uno dei pochi sgabelli liberi in attesa di venir servita.
“Se non li chiami, difficilmente ti serviranno” le disse uno che si girò verso lei lanciando un’occhiata maliziosa verso la sua figura.
“Ma visto che sei carina, vediamo se posso aiutarti io” continuò, poi chiamò il barista che a quanto lasciò intendere era un suo amico e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Il barista si voltò verso Elizabeth e si lasciò sfuggire una risatina per poi rimettersi al lavoro.
Dopo pochi secondi le venne offerto un bicchiere colmo fino all’orlo con un liquido bluastro che Elizabeth bevve senza nemmeno chiedere cosa fosse dopodiché la sua nuova conoscenza l’invitò a ballare e lei accettò. Erano quasi arrivati al centro della pista quando la testa cominciò a girarle, perse più volte l’equilibro andando a sbattere contro le altre persone che le stavano attorno mentre il suo compagno rideva.
Poi la prese e la spinse contro la sua volontà verso il privet sotto gli occhi degli altri che continuarono a ballare come se nulla fosse. Più di una volta Elizabeth tentò di ribellarsi senza tuttavia riuscire a scrollarsi di dosso le sue mani che le tenevano stretti i fianchi; “Se collabori, finirà presto” le disse sporgendosi verso di lei che annuì chiudendo gli occhi.
Le sollevò lentamente la maglietta toccandole il seno, provò a baciarle la bocca ma Elizabeth spostava il viso di lato per impedirglielo pregandolo di lasciarla andare.
“Ti avevo detto di collaborare e non lo stai facendo” la minacciò lui prendendole con una mano il mento e muovendolo verso di lui, la bloccò con l’altra e provò ancora una volta a baciarla contro la sua volontà.
In quel momento in cui Elizabeth si stava per arrendere, qualcuno arrivò alle spalle del suo molestatore e lo spinse facendolo cadere per terra.
“Se la tocchi ancora, ti farai molto male. E’ una promessa” gli intimò Henry abbassandosi verso di lui per guardarlo meglio in viso, il ragazzo annuì, si alzò barcollando e si allontanò velocemente senza voltarsi indietro.
Henry aiutò Ellie che tremava ancora dalla paura ad alzarsi dicendole che l’avrebbe accompagnata casa, lei acconsentì facendo un cenno con il capo poi si aggrappò ad Henry che la portò fuori dopo aver avvisato i suoi amici che se ne andava.
Durante il tragitto in macchina non si scambiarono una parola anche se diverse volte Elizabeth tentò di spiegargli come si fosse cacciata in quel guaio, infine stremata e ancora intontita si addormentò poco prima di arrivare a casa.
Henry scese dalla macchina e bussò alla porta, fu Spencer ad aprirgli. “Ho trovato Elizabeth e l’ho portata a casa” spiegò semplicemente al suo padrino senza raccontargli cosa fosse successo.
Poi insieme fecero entrare la ragazza in casa e l’adagiarono sul divano dove continuò a dormire, nel frattempo Madison era scesa nel salotto, salutò il ragazzo e sistemò una coperta sulle gambe di Elizabeth.
A quel punto Henry si congedò dicendo che sarebbe passato l’indomani mattina, Spencer lo ringraziò mentre l’accompagnava all’ingresso e chiuse la porta a chiave una volta che il ragazzo se ne fu andato.
Madison era seduta sulla poltrona con lo sguardo fisso su sua figlia quando Spencer si avvicinò a lei posandole una mano sulla spalla, sua moglie alzò il viso verso di lui rivolgendogli un’occhiata inespressiva per qualche secondo per poi tornare a guardare Ellie. “Sai a volte mi chiedo dove sia …” gli disse a bassa voce come se temesse di svegliarla.
“Anche io” confessò Spencer mentre Madison posava la sua mano su quella del marito.
 
L’indomani mattina un senso di nausea accompagnato da una leggera vertigine svegliò Elizabeth che si trovò nel soggiorno di casa senza sapere come vi fosse giunta, andò in cucina a prendere un bicchiere e mentre tornava in soggiorno s’imbatté in suo padre. Si guardarono per qualche secondo e infine Spencer parlò: “Si può sapere che hai in testa?” la rimproverò l’uomo mentre la ragazza abbassava la testa.
“Non lo capisci che non ti tengo sotto protezione per mio sfizio personale, ma perché sono davvero preoccupato per te?” continuò con tono furioso, era davvero arrabbiato per l’incoscienza mostrata da sua figlia che non spiaccicava parola.
“E poi in quelle condizioni ti presenti a casa? Dio solo sa come Henry ti abbia trovato. Per te, Elizabeth, è uno scherzo questo? Non lo so, dimmelo tu”
“Che vuoi che ti dica? Forse si” gli rispose con tono arrogante. “E poi tu sei l’ultima persona che può giudicarmi” continuò la ragazza.
“Elizabeth, sono stanco di te e delle tue cazzate. Cresci un po’” continuò il rimprovero Spencer sperando che le sue parole ottenessero un qualche effetto sulla ragazza che invece s’infuriò ancora di più.
“Se sei così stanco di me e delle mie cazzate, perché non mi hai fatta morire? A quest’ora ti saresti liberato di me” urlò avviandosi verso la porta d’ingresso.
“Elizabeth torna qui, dove credi di andare?” la richiamò suo padre prendendola per il braccio.
“Lontano da te perché mi sono stancata dei tuoi rimproveri del tutto inutili” affermò Elizabeth con tono rabbioso.
“La verità è che tu sei esattamente come me. Anche tu hai deluso qualcuno e quel qualcuno sono io” concluse, poi si liberò dalla presa del padre approfittando del momento di debolezza provocato da quelle parole fredde che lo ferirono profondamente ed uscì di casa dopo aver preso le chiavi della sua Chevrolet posate sul tavolino d’ingresso.
 
Guidò a lungo senza una precisa meta fino a che le lacrime che le sgorgavano incessantemente dagli occhi la costrinsero a fermarsi. Rimase per diversi minuti con la testa appoggiata contro il volante della macchina mentre singhiozzava ripensando a ciò che aveva detto a suo padre. Sapeva di aver sbagliato, di aver ferito suo padre con quelle parole insensate, ma non era riuscita a controllarsi ed era tremendamente arrivata con se stessa per averlo fatto.
Quando fu in grado di assumere nuovamente il controllo di sé, ripartì diretta verso casa di Henry, parcheggiò davanti al vialetto e dopo aver fatto un respiro profondo per farsi coraggio scese.
Ad aprirle la porta fu sua zia JJ che la salutò calorosamente del tutto ignara di quello che era successo la sera prima, Elizabeth le domandò se Henry fosse in casa e la donna le rispose che era in giardino.
La ragazza chiese il permesso di raggiungerlo e poi si diresse verso il giardino dove trovò Henry intento a fare degli esercizi di algebra lineare con le cuffie alle orecchie. “Tu non smetti mai di studiare, eh?” esordì lei timidamente mentre si sedeva nella sedia libera accanto al ragazzo che sussultò al suono della sua voce.
“Che ci fai qui? Stai bene?” domandò alla ragazza togliendo le cuffie. “Si sto bene” confermò lei facendo un sorriso che Henry non ricambiò.
“Ellie non c’è bisogno che ti dica che hai fatto una grande cazzata, vero?” le disse rimproverandola anche lui. “Insomma tutti ti diciamo di stare lontana dai guai e tu li vai a cercare? Ti poteva capitare qualcosa di brutto se io …”
“Smettila, cazzo! Smettetela tutti” urlò lei alzandosi in piedi. “Sono stanca di sentirmi dire che sbaglio, che sono una cretina, che non ne combino una giusta. Ne ho abbastanza”
“Allora smettila di fare così!” gridò anche lui per niente intimorito dal tono rabbioso di Elizabeth.
“Ho sbagliato a venire qui, tu sei come tutti gli altri non capisci” l’accusò lei uscendo dal giardino sotto lo sguardo incredulo di JJ accorsa lì a seguito alle urla.
La ragazza salutò la zia e se ne andò ignorando JJ che tentava di farsi spiegare cosa fosse successo.
 
Non aveva alcuna voglia di tornare a casa in quel momento perciò andò nella casa dell’unica persona che sapeva non l’avrebbe mai giudicata o rimproverata nonostante tutto, ovvero sua zia Penelope.
La donna non si sorprese nel vederla ferma lì davanti all’ingresso, la fece entrare e si offrì a prepararle una tazza di tè.
“Ellie che è successo?” le domandò dopo averle dato in mano una tazza fumante.
“Nulla …” mormorò lei. “Mi dispiace se sono piombata qui senza preavviso ma non sapevo dove andare e non volevo tornare a casa”le spiegò mentre prendeva un sorso di tè.
“Casa nostra sarà aperta per te” disse Kevin entrato in cucina, Penelope annuì per confermare quanto detto dal marito e sorrise; “Dov’è Alex?” domandò poi Elizabeth allo scopo d’introdurre un nuovo discorso.
“E’ a casa di un amichetto” rispose la donna versandosi anche lei una tazza di tè.
“A proposito, il gioco è fortissimo. Ci ho giocato l’altra volta con Tom, ovviamente ho perso. Lui sa già tutti i trucchetti”
“Colpa mia” confessò Kevin alzando le mani verso l’alto come per scusarsi mentre rideva.
“Stiamo lavorando alla continuazione, Tank girl tornerà a colpire con le sue caccole infuocate e ovviamente i rutti” le rivelò Penelope con tono divertito.
Elizabeth sorrise rimanendo in silenzio. “Sai tesoro dovremmo dire a tuo padre che sei qui, sarà sicuramente preoccupato” suggerì la donna tornando seria.
“Non c’è bisogno, io sto andando via. Se dovesse chiamare digli che sono da Dumbo” disse Elizabeth, Penelope le rivolse uno sguardo incredulo e l’accompagnò alla porta d’ingresso. A quel punto Elizabeth la ringraziò abbracciandola e se ne andò. Penelope rientrò in casa e chiamò Spencer riferendo dove Elizabeth fosse diretta nonostante non avesse la minima idea di quello che la ragazza intendesse.
 
Appena ricevette la chiamata da Penelope, Spencer uscì di casa; sapeva esattamente dove fosse andata sua figlia e non voleva perdere un minuto di più.
“Eccoti …” le disse non appena fu arrivato, la ragazza seduta su una panchina piuttosto piccola si spostò leggermente per fare spazio a suo padre.
“Non sapevo che avessero chiuso il parco. Quando è successo?” gli domandò con tono dispiaciuto.
“Cinque anni fa, il 21 ottobre se non mi sbaglio” rispose mentre si sedeva anche lui. “Come mai non l’ho saputo?”
“Non mi hai più chiesto di portarti al parco” disse lui. Elizabeth guardò verso lo scivolo ormai rovinato e vecchio da cui si era lanciata tante volte da bambina e parlò: “Quando abbiamo smesso di venire al parco?”
“Non lo so, ma non ha importanza. L’importante è che ci siamo tornati”. Ellie si girò verso di lui e l’abbracciò sussurrando un “mi dispiace”, suo padre le diede un bacio sulla fronte e la strinse.
“Su, dai! Andiamo a casa” disse infine l’uomo liberandosi dall’abbraccio di sua figlia e insieme tornarono a casa.
 
 
Il suono delle nocche contro il legno di mogano della porta che separava il suo studio dal corridoio distolse Spencer dall’analisi dei fascicoli che stava in quel momento rivedendo. Invitò la persona dietro la porta ad entrare e con piacere scoprì che era sua figlia maggiore, erano giorni che non usciva dalla sua stanza se non per andare a scuola e mangiare. Sapeva che non fosse arrabbiata, perciò le aveva lasciato i suoi spazi, capiva e accettava la sua esigenza di riflettere su ciò che aveva vissuto in quell’ultimo periodo.
“Ehm… io mi chiedevo se fosse possibile uscire a fare una passeggiata … sai io …” esordì la ragazza con lo sguardo basso mentre si torturava le punte dei suoi capelli castano dorato.
“Sei annoiata, vero?” le domandò sorridendo e aggiunse con tono divertito: “E direi che lo sei davvero molto se mi stai chiedendo di fare una passeggiata con te”
La ragazza annuì lasciandosi sfuggire una leggera risatina e gli rispose utilizzando il suo stesso tono divertito: “Beh tu comunque non mi faresti uscire con i miei amici quindi diciamo pure che non ho scelta”
“Allora andiamo?” insistette, desiderava davvero uscire quel pomeriggio a fare una passeggiata al parco.
“Certo, certo” si affrettò a rimettere i fogli sparsi per la scrivania nelle cartelle ed uscirono dallo stanzino.
“Devo prendere le chiavi della macchina?” domandò a sua figlia dato che non aveva ben chiaro dove volesse andare.
“Ehm… direi si . Volevo andare al Park Hyatt, c’è una specie di fiera oggi. “Aspettando l’estate” si chiama” gli spiegò con tono entusiasta, d’altra parte fin da bambina aveva amato le fiere che organizzavano spesso e volentieri a Washington e di conseguenza obbligato Spencer ad accompagnarla con la complicità di sua madre che adorava le fiere quanto lei.
“Dovevo intuire che si trattava di una fiera” ripose scuotendo la testa. “Meno male che ho prelevato ieri” continuò e scoppiò a ridere seguito da sua figlia.
Prima di uscire chiesero a Jules e Thomas se volessero andare con loro,ma i due risposero che preferivano restare a casa. Poi Spencer raccomandò sua suocera di avvisarlo immediatamente caso mai chiamasse qualcuno, infine salirono in macchina e partirono alla volta di Park Hyatt.
“E’ un peccato che mamma sia in ospedale. A quanto pare ha deciso di rubarti il titolo di stakanovista dell’anno. Immagino quanto sarai dispiaciuto ” ironizzò lei posando la sua mano su quella di suo padre che si girò verso di lei scuotendo la testa. “Sei una scema, lo sai vero?” le disse con lo stesso tono ironico utilizzato da Ellie.
“Si, credo di saperlo. Ma d’altra parte ho preso da te quindi non poteva essere diversamente ” lo stuzzicò lei, Spencer preferì non rispondere e l’invitò ad accendere la radio. Ellie si sintonizzò sulla prima stazione radio che casualmente stava trasmettendo la sua canzone preferita e incominciò a cantare a squarciagola facendo finta di avere un microfono in mano suscitando le risate di suo padre che assisteva allo spettacolo.
Arrivarono nella zona Park Hyatt dopo circa un quarto d’ora, parcheggiarono ad un paio d’isolati da quest’ultimo lungo per via della mancanza di parcheggi  perciò camminarono a piedi. Dopo un po’ Elizabeth notò l’ennesimo SUV nero appostato dietro l’angolo e roteò gli occhi innervosita.
“Perché li hai chiamati?” gli domandò sbuffando. “Credevo che oggi mi sarei risparmiata la loro compagnia!”
“Ellie, non fare così. Lo sai, potrebbe essere pericoloso perciò preferisco non rischiare” spiegò semplicemente suo padre.
Elizabeth annuì rassegnata. “Dovrò farci l’abitudine allora” disse a voce bassa, suo padre le mise il braccio intorno alle spalle per incoraggiarla e le propose di prendere i popcorn, proposta che la ragazza accettò volentieri.
Trascorsero insieme un piacevole pomeriggio tra risate e scherzi, infine quando incominciava a calare il sole decisero di tornare a casa.
 Erano pronti a salire in macchina quando Spencer si accorse che qualcuno li stava osservando, immediatamente ordinò a sua figlia di farsi indietro, la ragazza obbedì senza fare domande. Poi con un gesto appena percepibile chiamò i rinforzi e si portò una mano alla custodia della pistola.
In quel momento l’uomo uscì allo scoperto zoppicando senza attirare apparentemente l’attenzione di nessuno, ma Spencer così come anche Elizabeth non tardò a riconoscerlo: era Davis.
“Vedo dr Reid che ci rincontriamo di nuovo finalmente!” esordì l’uomo sul cui volto era comparso uno strano ghigno che spaventò ancora di più la ragazza.
“Cominciavo a preoccuparmi, pensavo che non avrei mai più avuto il piacere di rivedere sua figlia” continuò Davis accompagnando le sue parole con un’occhiata maliziosa che fece irrigidire Spencer dalla rabbia.
“Lascia stare Elizabeth, prenditela con me” lo sfidò Spencer facendo un passo in avanti. “Sono qui, che aspetti?” aggiunse compiendo ancora una volta un passo in avanti, Elizabeth allungò la mano per sfiorargli il braccio in modo da impedirgli di avvicinarsi ancora di più ma Spencer ben deciso a porre fine a quella storia l’ignorò e estrasse la pistola puntandola contro Davis che rise.
“Tutto qui, dr Reid? Una sola pistola?” domandò divertito. “No, due” disse una voce alle sue spalle che gli puntò un pistola contro la testa. “Io al posto tuo non farei scherzi e poserei la pistola” tuonò la voce di Derek raggiunto nel frattempo da un’intera squadra di SWAT che circondarono Davis costretto a posare la pistola e ad alzare le mani in alto.
Spencer raggiunse Ellie che si era allontanata non appena aveva visto arrivare Derek scortata da uno dei tanti SWAT giunti sul posto. “E’ tutto finito adesso” le disse abbracciandola, Ellie si aggrappò a lui nascondendo il viso contro il petto di suo padre che gli accarezzava i capelli. “Voglio andare a casa” gli disse distaccandosi, Spencer annuì e chiamò Anne arrivata assieme a JJ in quel momento chiedendole se per favore poteva accompagnarla a casa, la donna si rese subito disponibile ma Elizabeth disse di preferire andare da sola. Spencer si accertò che stesse bene e acconsentì alla richiesta di Ellie. L’accompagnò alla macchina raccomandandole di stare attenta, poi una volta che fu salita in macchina si allontanò dirigendosi verso Derek che stava mettendo ai polsi di Davis le manette.
“Agente Reid dovrebbe saperlo ormai che le persone come me non si catturano ma si fanno catturare” borbottò Davis mentre Derek stringeva con un’insolita forza, che provocò all’assassino più di una smorfia di dolore, i polsi con le manette.
Reid si voltò verso l’uomo in cerca di spiegazioni e aggrottò la fronte; “Che vuoi dire?” domandò. Questa domanda suscitò una risata maliziosa nell’uomo che mormorò a fior di labbra un “vedrai”. E fu allora che un rumore sordo ferì le orecchie dei presenti e un’ondata di calore li colpì, Spencer si rigirò in seguito a quel suono atroce e ciò che vide lo devastò colpendolo come mille proiettili al secondo.
La macchina, dove poco prima che era salita sua figlia, era diventata un cumulo di rottami ardenti. Un fumo nero intenso si sollevò in aria accompagnato dal rumore delle sirene delle macchine e dei negozi vicini.
“Elizabeth!” urlò l’uomo scoppiato in lacrime che incominciò a correre verso quel che restava della sua macchina e combattendo contro la nebbia di fumo che gli impediva di proseguire poiché gli ostacolava la vista; il fumo gli entrò nei polmoni rapidamente provocandogli una tosse convulsa, ma lui non si arrestò e quando giunse alla macchina con una forza che nessuno avrebbe detto che aveva fece uscire il corpo di sua figlia dall’automobile.
Si allontanò il più possibile con in braccio Elizabeth che giaceva immobile tra sue braccia e si sedette sulla strada stringendola sempre a sé.
“Ellie, amore. Guardami” le disse con la voce rotta dal pianto prendendo il viso annerito dal fumo della ragazza con la mano e girandolo verso di sé. “Andrà tutto bene, andrà tutto bene …” sussurrò tra i singhiozzi.
Elizabeth alzò debolmente le palpebre e con gli occhi socchiusi mosse le labbra da cui non fu emesso alcun suono. “Sssh! Risparmia le forze” la cullò suo padre allentando la presa per timore di farle male. “Mi dispiace davvero …” mormorò lei con la voce che sfumò in un rantolo. Ormai respirava affannosamente e il suo corpo s’immobilizzava sempre di più, come se la vitalità che un tempo lo contraddistingueva stesse a poco a poco scomparendo.
“Ti dispiace? Che dici amore?”; le sue parole tuttavia non furono più ascoltate da Ellie che smise di muoversi abbandonando la testa all’indietro. “Elizabeth … Elizabeth” la chiamò più volte l’uomo scuotendola leggermente come per svegliarla da un sonno profondo. “No … no ...” urlò con il tono sempre più concitato, gli sembrava di non riuscire più a respirare. Aveva il viso rigato dalle lacrime che sgorgavano calde dai suoi occhi e bagnavano le guance ormai pallide di Ellie.
Tutto intorno a lui pareva immobile stranamente calmo come se non esistesse null’altro che lui e lei. Ma da quel caos calmo si levò una risata che s’insinuò nelle orecchie dell’agente Reid. Era la risata di Davis.
Spencer si alzò posando delicatamente il corpo di sua figlia e si diresse verso l’uomo che gli aveva rubato ciò che aveva di più prezioso nella vita. “Bastardo” gridò guardando Davis che aveva dipinta sul volto un’espressione compiaciuta. Estrasse la pistola dalla custodia e gliela puntò contro, fu allora che due mani le bloccarono le braccia facendo si che il colpo venisse sparato in aria. 
“Spencer … Spencer no” lo fermò Derek con gli occhi lucidi. Reid lasciò cadere la pistola che fu prontamente spostata con un calcio dall’uomo di colore e s’abbandonò a un pianto convulso tra le braccia del’amico contro il petto del quale sbatteva i pugni.
“Mi dispiace.. mi dispiace” sussurrò più volte Derek abbandonandosi anche lui ad un pianto silenzioso. Con un cenno della testa diede ordine di far allontanare Davis portato immediatamente via da una volante della polizia. Anne rimasta ferma per tutto il tempo reagì su consiglio di JJ che tremava come una foglia.
La bionda si avvicinò a Spencer e provò a parlare ma finì per scuotere la testa senza riuscire a dire neanche solo una parola. Derek si staccò da Spencer e provò mentalmente a pensare a quello che avrebbero dovuto fare adesso. Il suo pensiero andò ad una sola persona: Madison. Si passò le mani per la testa pelata e provò a calmarsi respirando profondamente ma a nulla servì. Poi chiamò JJ che si diresse verso di lui con un gesto sistematico mentre continuava a guardare con la coda dell’occhio Spencer che era tornato da Elizabeth dondolandosi per terra con lei fra le braccia.
“Dobbiamo… dobbiamo andare da Madison” balbettò l’uomo che continuava a scuotere la testa.
“Io… io non posso” rispose JJ con la voce rotta dal pianto. La donna scosse la testa per rafforzare la sua affermazione mentre Derek la prendeva per le spalle continuandole a ripetere che era la cosa giusta da fare.
“Se succedesse a te, non vorresti a dirtelo fossero delle facce amiche?” le domandò l’uomo di colore cercando negli occhi arrossati dal pianto della vecchia amica una risposta affermativa. La donna annuì tra le lacrime e sussurrò un “si” appena appena udibile.
Entrambi si fecero forza e salirono in macchina dopo aver detto all’agente Walker di portare Spencer a Quantico  che annuì con poco convinzione deglutendo vistosamente. Mentre partivano giunse loro il suono della sirena dell’ambulanza arrivata troppo tardi.
Troppo tardi ormai.
 
La berlina nera dei due agenti del F.B.I. si fermò davanti all’abitazione del loro collega, Derek spense il motore e si slacciò la cintura imitato da JJ, ma nessuno dei due scese. “Coraggio, JJ. Dobbiamo dirglielo” disse più a se stesso che alla bionda.
Rimasero fermi per qualche altro istante ed infine aprirono le portiere dell’auto e scesero diretti verso la porta di casa di Reid che in quel momento si aprì lasciando uscire Madison che si diresse verso di loro dal momento che li aveva visti dalla finestra.
“Ragazzi che ci fate qui?” domandò loro con un sorriso che svanì immediatamente quando notò la loro espressione rammaricata e gli occhi arrossati dal pianto.
“Che cosa è successo?” domandò di conseguenza agitandosi di conseguenza anche se non capiva bene perché, una strana sensazione s’impadronì di lei come se qualcosa le si fosse spezzato dentro.
I due rimasero in silenzio mentre JJ abbassò lo sguardo ricominciando a piangere.
“Dov’è Spencer?” chiese con un tono di voce sempre più alterato, Derek scosse la testa senza riuscire ancora a parlare. “Dov’è Elizabeth?” domandò ancora una volta Madison cercando una risposta nel volto dell’amico che al suono di quel nome mormorò un “mi dispiace” accompagnato da una lacrima che scese lungo il viso.
Fu allora che Madison realizzò cosa era successo e le parse di avere un mancamento, deglutì profondamente e guardò Derek ormai scoppiato in lacrime che continuava a dire “mi dispiace” nascondendo il viso fra le mani.
La donna si portò una mano al basso ventre e cadde per terra in silenzio. Si sentiva vuota e confusa, si passò le mani per i capelli e il viso e incominciò ad urlare con la voce rotta dal pianto davanti ai colleghi di suo marito incapaci di reagire. Sua madre appena la sentì gridare uscì di casa seguita da Jules che venne bloccata da sua nonna che le ordinò di tornare in casa e andare da suo fratello in piedi sulle scale con espressione incerta. Jules annuì e tornò indietro senza sapere bene il perché richiudendosi la porta alle spalle.
“Madison… tesoro” disse sua madre posando una mano sulle spalle di sua figlia che si girò verso di lei urlandole di lasciarla stare. Natalie rimase pietrificata e guardò i suoi colleghi di suo genero e scoppiò anche lei in lacrime.
In  quel momento anche altri vicini uscirono di casa per capire cosa fosse successo dal momento che avevano sentito Madison urlare più di volte. Non ebbero bisogno di spiegazioni per comprendere quanto fosse accaduto, alcuni di loro rientrarono in casa scuotendo la testa mentre altri, i più coraggiosi, si avvicinarono alla casa della famiglia Reid per offrire il loro aiuto a Natalie che tremava e piangeva come una bambina.
Madison raccolse tutte le forze che aveva e si alzò in piedi aiutata da una vicina di casa; “Voglio vederla…” comunicò a bassa voce ai due amici. Derek annuì, non poteva impedirglielo d’altra parte.
Fece cenno a JJ che annuì anche lei guardando Madison per la prima volta da quando era arrivata. I tre salirono in macchina e rimasero in silenzio per il tutto tragitto. Tutto ciò che si sentiva era il suono del pianto di Madison che guardava fuori dal finestrino con un’espressione vuota.
 
Nel frattempo Reid era stato portato nei piani bassi della sede del F.B.I. dove si trovavano gli obitori, il corpo ormai freddo di sua figlia era stato posato su una barella di metallo in una delle tante sale illuminata da una luce diafana che si diffondeva per la stanza.
Appena entrato si gettò sul corpo di Ellie continuando a ripetere di perdonarlo. Non ricordava più come si fossero svolti gli eventi, tutto gli sembrava confuso ed irreale. Tutto ciò che risuonava nella sua mente erano le ultime parole di Elizabeth che lo tormentavano.
Il pianto sommesso dall’uomo fu interrotto dal rumore dei passi di sua moglie appena entrata nella stanza. Spencer si girò verso di lei e incontrò la sua espressione addolorata e si diresse verso Madison, la prese per mano e la condusse verso Elizabeth caduta in un sonno profondo da cui più non si sarebbe svegliata.
La donna accarezzò i capelli biondo dorati e il viso della figlia, diede un bacio sulla sua fronte e sussurrando al suo orecchio parole che Spencer non riuscì a capire e che nemmeno Elizabeth avrebbe mai più sentito. Poi si allontanò poggiandosi sulla parete e scivolando verso il basso fino a toccare terra.
 Anche Spencer che aveva assistito alla scena si sedette anche lui per terra accanto a sua moglie che prese per mano mentre ascoltava i suoi singhiozzi che tentava inutilmente di soffocare.
“Ha detto qualcosa?” gli domandò con la voce roca per via del pianto. “Si.. che ci voleva bene” mentì lui, aveva deciso di tenersi per lui le ultime parole di Elizabeth per aumentare ancora di più il dolore incommensurabile della sua famiglia. Madison si voltò verso di lui, gli gettò le braccia al collo e ricominciò a piangere.
Rimasero in quella posizione per diversi minuti o forse per diverse ore, ma che se fossero minuti o ore non aveva importanza. Al dire il vero nulla aveva più importanza ormai.
 
Quella notte Madison e Spencer non si ritirano a casa, dovevano organizzare il funerale della loro figlia maggiore che si sarebbe tenuto il giorno dopo contrariamente alla prassi grazie all’aiuto di Derek che aveva chiesto agli uffici di acconsentire a questa richiesta. Tuttavia nessuno in casa Reid riuscì comunque a dormire. Jules e Thomas si chiusero nella stanza degli ospiti e si coricarono nello stesso letto dove per tanti anni loro assieme alla sorella avevano dormito nelle notti d’estate.
Mentre i loro nonni assieme a Brian, il fratello di Madison accorso da Chicago dove viveva assieme alla sua famiglia, al piano di sotto tentavano di sistemare la casa che avrebbe accolto amici e familiari dopo la cerimonia. Anche Penelope era con loro.
Verso le quattro del mattino arrivarono a casa Madison e Spencer, dovevano scegliere i vestiti con cui sarebbe stata seppellita Elizabeth. Ad aiutare Madison fu Penelope che la condusse in camera di Ellie per mano facendole costantemente coraggio mentre Spencer si rinchiuse nel suo studio. Poco prima di arrivare a casa sua moglie gli aveva chiesto di scrivere un discorso.
“Non posso…” aveva sussurrato tutt’un fiato. “Spencer non vorrei  che lo facesse nessun’altro a parte te” lo aveva pregato lei stringendogli la mano, a quel punto l’uomo fece segno di sì con la testa e promise che lo avrebbe fatto.
E così mentre cominciava ad albeggiare, l’ormai stanco agente del F.B.I. scrisse un breve discorso su un foglio strappato da uno dei quaderni di Ellie, lo mise in tasca e scese di sotto mentre continuava a ripensare alle parole con cui avrebbe commemorato sua figlia.
Entrato in salotto, vide Jules e Thomas seduti sul divano, avevano gli occhi arrossati dal pianto e lo sguardo spento, nessuno di loro aveva dormito quella notte; quella visione li devastò il cuore, non avrebbe mai voluto che nessuno delle persone a lui care vivesse una simile tragedia, ma soprattutto mai avrebbe pensato che sarebbe potuto accadere alla sua famiglia.
L’uomo si sedette vicino ai suoi figli per cercare di far loro coraggio, “Ragazzi…” disse guardandoli ma non continuò la frase, non aveva alcun senso farlo. Nulla di quello che avrebbe potuto dire o fare li avrebbe mai confortati, non esistevano parole che potessero alleviare il loro dolore e lo sapeva.
Arrivato il momento di andare, Madison li chiamò assieme a sua suocera Natalie.
“Spencer, dai. Dobbiamo andare” gli disse sua moglie dandogli la mano per aiutarlo ad alzarsi, l’uomo gliela strinse e si mise in piede. “Maddie…” sussurrò, ma lei distolse lo sguardo fingendo di non aver ascoltato; quel gesto gli fece ancora più male, aveva bisogno di lei in quel momento più che mai, ma Madison non poteva essergli vicino. Aveva bisogno di rielaborare l’accaduto, desiderava solo restare da sola con il proprio dolore per poter realizzare quanto era avvenuto anche se quell’atteggiamento li avrebbe distrutti e lei n’era cosciente.
Fu un breve e soprattutto silenzioso viaggio quello che portò la famiglia Reid dalla loro casa al cimitero, mentre si allontanavano ebbero la sensazione che quella casa dove avevano fino a quel momento vissuto  non appartenesse più a loro dal momento che era fredda e vuota, come se la vitalità che riusciva prima a trasmettere fosse scomparsa assieme ad Ellie. Si sentivano traditi, soprattutto Spencer. Ciò che era successo aveva svegliato in lui vecchi impulsi che credeva di aver represso, o meglio che la vita felice e appagante che aveva condotto fino a quel momento aveva soffocato, ma ora erano riaffiorati e forse non avrebbe potuto ignorarli facilmente. 
I funerali ai quali parteciparono soltanto i famigliari e amici stretti, secondo quanto desiderato sia da Madison che da Spencer, si svolsero nel pomeriggio; la cerimonia come previsto fu molto breve.
I resti di Elizabeth furono collocati in un feretro, rimasto chiuso durante tutta la funzione, dal colore blu notte come richiesto da entrambi, essendo il colore preferito della loro bambina. Poco prima di dare ad Ellie l’estremo saluto, padre Richardson fece un cenno a Spencer invitandolo a dire qualche parola.
L’uomo si recò al centro dove padre Richardson l’aspettava. Il prete diede a Spencer una pacca sulla spalla per fargli coraggio e si allontanò.
Quando fu pronto Spencer prese il foglio che aveva lasciato in tasca e cominciò a leggerlo: “Ellie era…”. Improvvisamente si bloccò, riguardò il foglio su cui aveva scritto quelle parole che mai avrebbe voluto pronunciare, si schiarì la voce e riprese:
“Non voglio parlarvi di chi fosse Elizabeth, oggi voglio presentarvi una persona che Ellie non ha mai conosciuto: la splendida donna che sarebbe diventata, una madre e una amica eccezionale.
Ellie, voglio dirti ciò che non ti ho mai detto perché ero convinto che avremmo avuto tempo, ma purtroppo così non è stato; il destino ci ha diviso troppo presto, amore, portandoti via dalla tua famiglia… portandoti via da me. Ricordo ancora il giorno in cui sei nata, la felicità che avevo provato quando ti ho presa per la prima volta fra le braccia. Eri il più bel regalo che avessi mai ricevuto, hai riempito la mia vita di calore e luce.
Amore, avrei davvero voluto che ti vedessi attraverso i miei occhi affinché capissi quanto io fossi orgoglioso di te, della persona che eri diventata, perché non avessi più dubbi su quanto io ti amassi, e perché sapessi che tutti i nostri litigi a me mai sono importati.
Avrei voluto poterti stare vicino nei momenti più difficili della tua vita per consolarti, per dirti che sarebbe andato tutto bene. Avrei voluto essere un padre migliore per te …” a quel punto s’interruppe, aveva gli occhi velati dalle lacrime, non riusciva a proseguire. “Mi dispiace …” disse agli altri e s’allontanò.
Madison lo raggiunse immediatamente, e lo abbracciò stretto. Non poteva lasciarlo da solo ora, “Sssh” gli sussurrò all’orecchio quando Spencer ricominciò a singhiozzare tra le braccia di quella donna che rappresentava gli ultimi venti anni della sua vita, con cui aveva condiviso gioie e dolori e avvertì per un forte senso di colpa, “Come ho potuto farti questo…” pensò tra le lacrime.
“Come faremo adesso?” le domandò. “Non lo so, non lo so” rispose lei. Gli accarezzò le guancie e gli asciugò le lacrime.
“Dobbiamo farci coraggio per i ragazzi. Hanno bisogno di noi”
“Lo so …”, fu allora che li raggiunsero Jules e Thomas. “Tutto ok?” chiese timidamente Jules avvicinandosi a suo padre. “Si…”rispose lui.
Madison li strinse in un abbraccio baciandoli sulla fronte, e insieme ritornarono per dare l’ultimo saluto ad Elizabeth.
I presenti si girarono verso di loro e JJ andò incontro a Spencer consegnandoli i fiori avrebbero posato a breve sul feretro; avevano scelto il girasole, il fiore che meglio la rappresentava. Madison accompagnò Jules che fu la prima a lasciare il fiore accompagnato da un bigliettino, anche Thomas lasciò un biglietto così come anche i tre migliori amici di Elizabeth. Colin posò una mano sulla bara in segno di saluto, mentre Nicole e Blair lo tenevano per mano. “Non ti scorderemo mai” questa era la frase scritta sul biglietto che avevano lasciato poi si allontanarono lasciando spazio a Penelope che aveva in mano una stellina di peluche insieme al fiore.
“Ciao stellina” disse la donna in lacrime. “Abbi cura di tutti noi” posò il fiore e il peluche e si voltò verso suo marito Kevin che le tendeva la mano.
Man mano i presenti salutarono Elizabeth fino a che fu il turno di Madison.
La donna rimase ferma davanti alla bara, poi accarezzò il feretro e lasciò il fiore. Spencer la raggiunse e le posò le mani sulle spalle, la donna si voltò verso di lui e si fece da parte dirigendosi verso i figli rimasti vicino a sua madre.
Spencer rimasto da solo posò il girasole e socchiuse gli occhi. Ripensò a sua figlia e alle sue ultime parole e scoppiò nuovamente in lacrime senza riuscire a trattenere singhiozzi che gli impedivano di respirare ; inspirò a fondo per cercare di calmarsi, mandò un bacio ad Ellie posando le punta delle dita per l’ultima volta sul feretro che avrebbe custodito da allora in poi il corpo di sua figlia, poi lasciò il cimitero assieme a Derek che l’aveva aspettato in disparte.
“Non sai quanto mi dispiace, davvero” gli disse l’uomo con gli occhi lucidi e gli posò una mano sulla spalla.
“Non avrei mai voluto che …” continuò, ma Spencer lo interruppe con un cenno della mano.
“Non c’è bisogno, lo so” affermò l’uomo con aria affranta. Derek annuì e l’accompagnò fuori.
Anche questa giornata era finita.
 
Qualche settimana dopo Spencer ricevette qualcosa che non si aspettava. Colin si era presentato un pomeriggio a casa con un pacchetto che gli aveva lasciato senza trattenersi a lungo.
“E’ di Elizabeth, lei te l’avrebbe dato ma …” aveva mormorato il ragazzo senza riuscire a trattenere una lacrima che scese lungo la guancia. Spencer provò a sorridergli, ma tutto ciò che riuscì a sfoggiare fu una smorfia storta, ringraziò il ragazzo che si congedò e aprì il pacchetto. Dentro vi trovò un cd e un foglio piegato con scritto “per papà”, riconobbe subito la calligrafia di sua figlia, per un momento esitò ad aprirlo. Non sapeva cosa aveva scritto, sapeva solo che questa era l’ultima lettera che lei gli aveva scritto. Non ce ne sarebbero state altre, mai più.
Aprì il foglio e lesse la lettera:
“Tu avevi detto che volevi sentire la canzone una volta scritto il testo, e allora io beh ho inciso questo. Spero davvero ti piaccia, ma se non è così non dirmelo però. Siamo d’accordo?
Ti voglio bene, Ellie.”
Rilesse quelle parole diverse volte che si fissarono indelebili nella sua mente, poi ripiegò il foglio e lo mise in tasca. Prese il cd, con cura lo collocò nel lettore e avviò il dispositivo premendo il tasto play.
La voce di Elizabeth risuonò cristallina nella stanza riempiendola e dandogli la sensazione che lei fosse lì con lui.
Si concentrò sulle parole della canzone che parevano così irreali e si lasciò cullare da quella voce che gli pareva di aver dimenticato …
“I was a little girl alone in my little world who dreamed of a little home for me. 
I played pretend between the trees, and fed my houseguests bark and leaves, and laughed in my pretty bed of green. 

I had a dream 
That I could fly from the highest swing. 
I had a dream. 

Long walks in the dark through woods grown behind the park, I asked God who I'm supposed to be. 
The stars smiled down on me, God answered in silent reverie. I said a prayer and fell asleep. 

I had a dream 
That I could fly from the highest tree. 
I had a dream. 

Now I'm old and feeling grey. I don't know what's left to say about this life I'm willing to leave. 
I lived it full and I lived it well, there's many tales I've lived to tell.
I'm ready now, I'm ready now, I'm ready now to fly from the highest wing. 

I had a dream”
 
Inevitabilmente si commosse. Era bellissima, per lui era bellissima. Ma lei non l’avrebbe mai saputo.
 
 
 
                               Elizabeth, le parole che non ti ho detto.
 
                                                             
Per tutta la vita andare avanti,
cercare i tuoi occhi negli occhi degli altri.
Far finta di niente, far finta che oggi sia un giorno normale.
Un anno che passa, un anno in salita.
Che senso di vuoto, che brutta ferita.
Delusa da te, da me. Da quello che non ti ho dato. 
                                                                                                                                                                  (Per tutta la vita, Noemi)
 
                                                                        Tre anni dopo
 
I giorni diventarono settimane, e le settimane mesi. Tutto sembrò tornare perfettamente normale.
Eppure quando quel silenzio a cui si era ormai abituato e per molti versi costretto sé stesso pareva soffocarlo, Spencer Reid andava in camera di Elizabeth dove nulla era stato spostato come se il tempo si fosse fermato a quel maledetto venerdì di tre anni fa, si sdraiava sul letto e affondava il viso nel suo cuscino che profumava ancora come lei per attutire il suono dei suoi singhiozzi che incontrollabili si susseguivano togliendogli il respiro.
E poi un giorno come un altro successe qualcosa.
“Spencer, puoi venire giù?” lo chiamò Madison dal piano di sotto. Uscì dallo studio e sentì diverse voci provenire dal salotto, dal loro tono allegro Spencer dedusse che doveva essere arrivata.
“Papà allora te la dai una mossa o ti devo mandare un invito?” lo scherzò Jules con la sua solita voce squillante.
“Arrivo” urlò Spencer precipitandosi dalle scale. “Finalmente ce l’hai fatta” lo salutò sua figlia dandogli un bacio sulla guancia.
“Dov’è?” le chiese impaziente allungando il collo per guardare fuori dalla porta.  “E’ con Tom e Jake, stanno scendendo il passeggino” spiegò sua figlia che contemporaneamente andò verso l’ingresso tenendo ferma con il piede la porta per facilitarli l’accesso, a quel punto Jake entrò di spalle sollevando il passeggino per superare il gradino mentre Tom lo spingeva in avanti.
“Su vieni dalla mamma” disse Jules abbassandosi verso la bimba e allargando le braccia per afferrarla una volta che il passeggino fu sistemato dai due dentro.
Anche Madison si avvicinò assieme a Spencer e le fece un buffetto sulla guancia della bimba che rise di gusto scuotendo i ricci biondi che le incorniciavano il viso mentre si voltava verso i nonni.
“Lizzie, sei stata dall’altra nonna? Ti sono mancata?” le disse Madison prendendola in braccio. “Ha mangiato?” domandò poi Spencer a Jules che scosse la testa in segno negativo e gli disse che era tutto già pronto dentro la borsa.
Tom si offrì per farla mangiare e la prese mentre Madison sedeva sul seggiolone la bimba che si sporgeva in avanti per toccare i capelli del nonno.
Tom prese il cucchiaino riempito fino all’orlo con la zuppetta di riso che Jules aveva preparato poco prima. “Lizzie, su dai” devi mangiare” l’incoraggiò suo zio avvicinando il cucchiaio al suo viso mentre lei scuoteva la testa e gonfiava le guance.
“Dai,lo so che sei una brava bimba. Apri la boccuccia” le disse poi, la bimba aprì la bocca e ingoiò la prima cucchiaiata.
Ma alla seconda fece un piccolo scherzetto allo zio spuntandogliela, Tom con le dita si tolse la pappa masticata da sua nipote dal viso urlando “che schifo” tra le risate degli altri.
“Se ci fosse stata Elizabeth avrebbe scritto una canzone su questo”  affermò con molta naturalezza  Jules tra una risata e l’altra, tutto si voltarono verso di lei al suono di quel nome che da tempo nessuno aveva il coraggio di pronunciare e la ragazza subito colpita da un improvviso senso di colpa si portò una mano verso la bocca.
Tom invece ignorando la reazione degli altri disse: “E si sarebbe mangiata anche il riso di Lizzie”
“Anche se poi sarebbe stata male tutta la notte perché il riso non lo digeriva bene” concluse Madison facendo un sorriso che sia Jules che Tom ricambiarono.
“Perché non andiamo al parco?” propose Jake. “E’ una bella giornata”; Madison e Tom si mostrarono subito entusiasti della proposta , ma Jules replicò dicendo di avere diversi compiti da fare.
“Ellie non li avrebbe fatti” affermò Spencer facendo anche lui un debole sorriso. “Già, hai ragione” asserì lei poi prese la giacchettina di Lizzie e gliela infilò.
Madison aiutò Jake a portare fuori il passeggino mentre Tom abbassava la serranda della finestra del soggiorno, Spencer però si scusò dicendo che non sarebbe andato subito con loro e che li avrebbe raggiunti dopo. Gli altri annuirono senza domandargli cosa dovesse fare e uscirono.
Spencer indossò la giacca che aveva appeso la sera prima all’appendiabiti, prese le chiavi della macchina ed uscì anche lui.
Mentre percorreva quella strada, che non compieva da più di tre anni, si ricordò di quel pomeriggio in cui vi entrò per la prima volta e inevitabilmente una lacrima scese lentamente lunga la guancia; non tardò molto a raggiungere il cimitero, tuttavia rimase a lungo sul suo ingresso senza trovare il coraggio di varcarlo.
Infine qualcosa si mosse dentro di lui e lo spinse ed entrò dirigendosi automaticamente verso il luogo in cui era sepolta Elizabeth.
A lungo aveva pensato a ciò che avrebbe fatto il giorno in cui avesse trovato la forza di andare a trovarla, ma in quel momento nulla di tutto ciò che aveva potuto pensare di dire o fare fu detto o fatto. Le parole sgorgarono dalla sua bocca senza alcun apparente sforzo rompendo il silenzio che caratterizzava quel luogo sacro.
“Ciao, amore. Mi dispiace se in tutti questi mesi, anzi anni, non ho mai avuto il coraggio di venirti a trovare, ma la verità è che mi era convinto che venirti a trovare significava ammettere che non c‘eri più ed io non ero pronto. Mi manchi terribilmente, la tua assenza credo che sarà qualcosa a cui mai riuscirò ad abituarmi, mi mancano le tue risate, le tue battute, persino le nostre litigate. Ellie, mi manca la tua voce, darei qualunque cosa per poterla sentire ancora ...”
“In questi ultimi tre anni non c’è stato giorno in cui non mi sia incolpato per ciò che ti è successo, per ciò che io ho permesso che ti succedesse. Sai, gli altri mi dicono che non c’era nulla che io potessi fare, che io non potevo saperlo, ma si sbagliano; dovevo morire io quel pomeriggio, non tu. E non mi potrò mai perdonare per questo …
… Nei giorni successivi alla tua morte mi sono tormentato continuamente ripetendomi che non avevo fatto abbastanza per renderti felice, ma poi ho sentito quella canzone, la tua canzone, e ho capito che tu eri felice e questo mi ha rassicurato, sai? Forse dopo tutto non sono stato un pessimo padre per te …”
“Tante cose sono cambiate da quando non ci sei più, avremmo tanto voluto che tu fossi stata con noi quando è nata Lizzie, Maddie  è impazzita, la conosci com’è fatta, lei adora i bambini …”
“Lizzie ci ha salvato, a me e tua madre intendo. Non so cosa sarebbe successo se non fosse arrivata, ho sempre pensato che tu ce l’hai mandata, forse è una stupidaggine ma io non smetto mai di pensarlo …
… Tua mamma mi dice sempre che un giorno ci rincontreremo tutti insieme in paradiso. Io mi auguro che sia vero perché voglio tanto rivederti e riabbracciarti di nuovo …”
Il flusso delle sue parole fu interrotto dal custode, uomo di mezza età dall’aria bonaria; “Dev’essere stata una ragazza molto amata. C’è sempre qualcuno che viene a trovarla” gli disse mentre spazzava le diverse foglie secche sparse per terra.
“E’ sempre così triste quando muoiono così giovani, soprattutto in quel modo così atroce…” continuò scuotendo la testa mentre con il braccio si poggiava sul rastrello. “Mi scusi l’indiscrezione, ma lei chi è? Non l’ho mai visto qui”
Spencer si voltò verso l’uomo che gli abbozzava un sorriso e rispose: “Sono il padre”. L’uomo aprì la bocca come per dire qualcosa ma la richiuse rapidamente, poi Spencer lo salutò cortesemente ed uscì dal cimitero mentre il custode ritornava alle sue faccende.
A volte la vita ci pone di fronte a situazioni che non sappiamo fronteggiare perché non possiamo, o semplicemente perché non vogliamo farlo. Ma la vita è frenetica e continua ad andare avanti anche senza di te e Spencer lo sapeva.
Perciò a distanza di tre anni da quel terribile pomeriggio che gli aveva devastato in pochi secondi la vita, decise che era pronto a riappropriarsi di quell’esistenza che gli stava sfuggendo sempre di più dalle mani trovando così la forza di ricominciare di nuovo.
Perché era quello che la sua Elizabeth avrebbe fatto e lui voleva che fosse orgogliosa di lui.
 
 
Fine.
 
 
È una mia personale convinzione che quando subisci una perdita così grande ed inaspettata, ciò che di più bello ti può capitare è di assistere alla nascita di una nuova vita perché i bambini ci ricordano che esiste qualcosa di puro e meraviglioso in questa vita che merita di essere vissuta, assorbendola fino all’ultima goccia.
So che mai una persona potrà prendere il posto di un’altra, che mai una persona a noi cara potrà essere dimenticata ma so anche che è importante e necessario che quando la pensiamo non ricordiamo quegli ultimi minuti che ce l’hanno portata via ma piuttosto quei bei momenti che abbiamo trascorso con lei; ed è per questo che ho creato Lizzie, perché così ogni volta che si penserà ad Ellie non sarà mai più tanto doloroso poiché si avrà in mente lei, Lizzie, che porta il nome di una persona che non la potrà mai conoscere ma che siamo sicuri che la proteggerà.
 
Spero che leggere questa storia vi sia piaciuto quanto a me è piaciuto scriverla. Grazie di avermi seguito.
Antonella.
  
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